venerdì 22 luglio 2022

Passaggio a nord-ovest

Alberto sul 2° tiro.
Sul 4° tiro.
Alberto sul 5° tiro.
Sul 7° tiro.
Tracciato della via.
Punta Ostanetta
Parete NO

Accesso: si raggiunge la frazione Montoso del comune di Bagnolo Piemonte. Da lì sono ben visibili i tre ecomostri che rovinano il crinale e costituiscono la frazione Rucas. Raggiuntili, ci si porta in fondo al piazzale e si prende una sterrata un po' sconnessa che si stacca sulla destra, con indicazione poligono di tiro. Si può parcheggiare appena fuori dal poligono (o anche all'interno se non c'è ressa; i gestori sono molto gentili e hanno sempre pronta una tazza di caffè), oppure proseguire in auto (poco raccomandato a meno che il fondo della vostra auto non sia alto) fino a raggiungere una cava (mezz'oretta a piedi). Da qui si prosegue lungo il sentiero, prendendo a sinistra ad un bivio su massi (indicazione un po' sbiadita pareti roccia) e raggiungendo la parete all'altezza della via Superphenix. Poco più a destra si nota una targhetta sopra un terrazzo che segna l'attacco della via. Circa 1h15' dal poligono.
Relazione: via molto bella e piacevole, che risale la parete per fessure, diedri e placche. Protezioni ottime a fix, solo un poco più distanziate nei tratti più facili; inutili friend a meno che non decidiate (fatelo!) di percorrere gli ultimi due tiri della Via della fessura, nel qual caso uno o due friend medi possono essere utili per l'ultimo tiro. Tutte le soste sono su due fix con cordone ed anello di calata.
1° tiro: salire sul terrazzo di partenza e continuare per una placca fessurata, salire per un vago diedro aperto che poi diviene più verticale e porta ad un terrazzo sulla destra con la sosta. 35 m, 5c (passo), otto fix.
2° tiro: spostarsi a destra, risalire lungo una lama e uscire a sinistra in placca, proseguendo fino alla sosta. 40 m, 5b, nove fix.
3° tiro: salire in placca verso sinistra puntando ad una lama ad arco che diviene verticale, seguirla e continuare in placca fino alla sosta. 30 m, 6a (un passo in placca), nove fix.
4° tiro: salire la placca ed il bel diedro fino alla sosta sulla sinistra. 25 m, 6a; nove fix (uno con cordino), un chiodo.
5° tiro: dritti e poi verso destra per placca fino ad una cengia dove ci si raccorda con la Via della fessura, superare uno spigolo e raggiungere la sosta. 35 m, 5b, nove fix. Sosta su fix, fittone, chiodo, cordini e amenità varie. Poco più a destra si nota una sosta con un fix arancione che si utilizzerà in discesa.
6° tiro: salire a destra della sosta fino ad un terrazzo. 15 m, 4b; due spit, un chiodo.
7° tiro: salire per il diedro sopra la sosta, continuare per una strozzatura e poi per salti più facili fino ad una sosta dall'aspetto un po' inquietante su albero secco. Conviene continuare ancora verso destra (eventualmente aggirando la sosta dall'alto) fino ad una sosta a fix ben più rassicurante. 40 m; 4c, IV; tre spit, una sosta su albero con cordini ed anello di calata. Sosta su due fix, catena ed anello di calata.
Discesa: ci si cala in doppia. Se avete due mezze corde, ve la cavate con quattro calate, tutte da 50-55 m (tranne l'ultima):
1a calata: lievemente verso sinistra (faccia a monte) ad andare a prendere la sosta su fix arancione vicino alla 5a sosta della via;
2a calata: lungo la via fino alla 3a sosta;
3a calata: lungo la via fino alla 1a sosta;
4a calata: a terra.

Nota: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

lunedì 27 giugno 2022

Riviera del Garda classico DOC Rosa dei frati 2021 Cà dei frati

"Sono capaci tutti di bere rosati quando ci sono 34°C", direte voi!
E quindi? Beveteli pure voi, no? Che poi io me li bevo volentieri tutto l'anno... ma pensa te cosa mi tocca sentire...

Comunque, tra i numerosi ottimi rosati che si producono nel Belpaese bisogna certamente elencare quelli del Garda meridionale... e tra le cantine della zona non si può non citare Cà dei frati, che opera in quel di Sirmione dal 1939. Se il Lugana è il loro marchio di fabbrica, la produzione si è col tempo allargata ad una decina di bottiglie, tra cui un rosé mosso ed il nostro Rosa, che nasce da uve Groppello, Marzemino, Sangiovese e Barbera.
Vinificazione in acciaio, affinamento per sei mesi in acciaio e due mesi in bottiglia, niente malolattica, come buona parte dei rosati gardesani. Il risultato è un vino dal colore non troppo intenso, invitante.
Al naso si percepiscono aromi delicati di ciliegia e di fragola, con note floreali e di mela. All'assaggio il vino è gradevole e leggero, fresco e di pronta beva, con tenore alcolico contenuto ed una persistenza interessante.

Dire che è un vino da bersi d'estate è una banalità... la realtà è ancora più semplice: è un rosato da bere... e poi continuare a bere!

Gradazione: 12,5°
Prezzo: 11€

mercoledì 8 giugno 2022

Ristorante Boivin

Sformato di zucca e castagne.
Tortelli di carciofo
Pressknodel di formaggio grigio e verza brasata
Capretto arrosto in fricassea
Bonet
Torta di arance e mandorle
Levico Terme (TN)
via Garibaldi 9

Seconda tappa alla scoperta gastronomica della Valsugana, e che tappa! A Levico Terme, da Boivin, si entra in un mondo sospeso dove gli arredi sono rustici, caldi e accoglienti (c'è anche una terrazza), ma la cucina inserisce nei piatti della tradizione trentina un sapore contemporaneo e, sia da intendersi nella sua migliore accezione, globale. Nato negli anni '60, il ristorante-enoteca privilegia i prodotti locali, meglio se biologici o biodinamici, con attenzione per le erbe di campo, i fiori e i frutti della terra. Sei-sette antipasti, altrettanti primi e quattro secondi compongono il menù. La qualità è ottima (ed il prezzo un po' più alto della media), quindi avviso gl'improbabili lettori che rischio di essere ripetitivo nel seguito.
Abbiamo iniziato con un antipasto di sformato di zucca e castagne, con la zucca presentata a cubetti e accompagnata da foglie di polenta. E da qui abbiamo incominciato a capire che la cena si metteva per il verso giusto...
Interessanti i primi (a parte le tagliatelle alla bolognese), tra tortelli, gnocchi e canederli. Io scelgo senza indugio i tortelli di carciofo, che sono di una delicatezza estrema; ne avrei mangiati altri tre piatti almeno! Mio nipote, che mi accompagna in questa avventura, ordina i pressknodel (ovvero dei canederli pressati e rosolati nel burro prima della canonica cottura in brodo) di formaggio grigio della valle Aurina e verza brasata, un tempo il pasto di pastori e malgari. Non li ho assaggiati, ma la rapidità con cui sono spariti mi ha fatto sospettare che fossero di suo gusto.
Sui secondi il tavolo è unanime: capretto arrosto in fricassea con carciofi e polenta. Ancora i sapori che si amalgamano perfettamente, la carne tenerissima e gustosa. Molto, molto buono.
Ben fornita anche la cantina, con ovvia predilezione per le etichette della zona; e del resto il locale (come si vede sul biglietto da visita) è anche enoiteca, termine che risale a Veronelli e che rimanda ad un concetto di familiarità. Un plauso anche al sommelier per la competenza dimostrata nelle proposte (la cosa dovrebbe essere ovvia, ma purtroppo non è sempre così). Mi oriento (sai che novità...) verso il Pinot noir, rimanendo nella Valsugana. La bottiglia di Terre dei Lagorai è giovane, con i profumi di frutti rossi in evidenza, senza barrique tra le scatole, e accompagna bene la cena.
A questo punto noi saremmo già strapieni, ma fedeli al precetto che ormai si mangia più per golosità che per appetito non rinunciamo al dessert. Tra strudel, cheesecake e semifreddo scelgo... un'insolita torta di arance e mandorle che conclude degnamente la cena, insieme al bonet (o bunnet, com'è chiamato qui). Unico neo dei dolci: il ciuffo di panna montata spruzzato direttamente dalla bomboletta prima di portare il piatto in tavola; veramente una pessima idea da eliminare il prima possibile! A parte questo dettaglio, e un servizio un po' da accelerare, è un posto dove tornare assolutamente!

Il conto: 130 € per:
1 antipasto
2 primi
2 secondi
2 dessert
1 bottiglia di vino (25 €)
1 bottiglia di acqua
2 bicchieri di vino da dessert (12 €)
2 caffè

domenica 5 giugno 2022

Balicco-Botta

La relazione originale (Annuario CAI BG 1954, pp 49-50)
Sul 1° tiro.
Sul 3° tiro.
Sul 4° tiro: "quelli veri" a sinistra (foto tratta dalla
guida di Tomasi), io a destra.
Tracciato della via
Presolana occidentale
Parete S

Accesso: raggiungere la malga Cassinelli parcheggiando a sinistra poco prima del passo, in corrispondenza di una chiesetta (cartello "Cantoniera della Presolana"), seguire la strada che si stacca in salita fino al secondo tornante e lasciarla per proseguire lungo il sentiero. In alternativa, parcheggiare qualche centinaio di metri prima sulla destra, nei pressi dell'Hotel Spampatti, e seguire la strada di fronte e subito il sentiero a destra (indicazioni per baita Cassinelli), che sale nel bosco e si congiunge con il precedente. Superare la malga Cassinelli e risalire il ghiaione (segnavia 315 per il bivacco Città di Clusone e Grotta dei Pagani), oltrepassare il bivacco e la cappella Savina e proseguire. Ignorare una traccia che sale al primo ghiaione (porta al torrione Scandella) e risalire il secondo fino alla grotta dei Pagani, dove folte e - ahimè - chiassose comitive si preparano per la salita alla Presolana lungo la via normale. Salire la via normale (bolli rossi) superando l'attacco di Un pensiero per Amos e raggiungere il cengione. Proseguire fino ad un evidente nicchia sotto degli strapiombi giallastri, a destra della quale si nota una fessura con chiodo alla base e fix con anello a sinistra (che pertiene alla via normale).
Relazione: via del lontano 1954 che risale la parete sopra il cengione, con difficoltà contenute e su roccia generalmente buona (ma è d'obbligo fare molta attenzione perché sotto corre la frequentatissima via normale; meglio evitare nei festivi). La via è stata recentemente dotata di soste a fix mentre la chiodatura è rimasta tradizionale; utile qualche friend per integrare. Visto lo sviluppo, non aspettatevi un "vione", ma è certamente un itinerario meritevole di ripetizione. Tutte le soste tranne l'ultima sono su due fix e cordone.
1° tiro: salire i primi metri dell'evidente fessura, continuare superando un muretto e un vago diedro, per spostarsi a destra alla sosta. 30 m; IV+, V-; tre chiodi (uno con fettuccia marcia), un cordone in clessidra.
2° tiro: salire a destra della sosta puntando all'evidente cordone, superare un ultimo risalto e pervenire ad una zona di rocce rotte. Ignorare un cordone nel canale a destra (forse della via Scudeletti) e portarsi verso la parete giallastra alla cui base si sosta. 30 m; IV+, III; un chiodo con cordino, un cordone su spuntone, un cordone in clessidra.
3° tiro: salire a destra per lame e fessure sino ad uscire su una terrazza dove si sosta. 20 m; III, IV+, IV; un cordone in clessidra.
4° tiro: salire l'evidente rampa-diedro e, quando diviene verticale, traversare a destra (esposto). Proseguire in verticale lungo rocce un po' malsicure sino alla sosta alla base di un pilastrino. 30 m; IV, V-, IV, III; un chiodo, un cordone in clessidra.
5° tiro: salire facendo sempre attenzione alla qualità della roccia (e dell'erba...) fino a raggiungere una crestina dove si sosta. 50 m, II. Sosta da attrezzare su spuntone.
Discesa: procedere brevemente verso destra (rispetto alla direzione di salita) fino ad incontrare una traccia che mena in vetta alla Presolana Occidentale. Da qui si scende lungo la via normale.

Nota: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

giovedì 2 giugno 2022

Genepì

Sul 1° tiro
Anna sul 2° tiro
Sul 3° tiro
Anna sul 6° tiro
Tracciato della via (arancio). In rosso
la via Monzesi.
Zucco Barbisino (Gruppo dei Campelli)
Parete N

C'è un periodo magico nel gruppo dei Campelli, e coincide con il breve intervallo in cui è chiusa la funivia da Barzio. Allora, solo pochi orobici che risalgono le aride piste da sci di Valtorta si affacciano sui sentieri e le cime, e praticamente nessuno si palesa sotto la parete N del Barbisino. L'ambiente sembra selvaggio ed isolato, e scalare pare quasi un lusso. Ma bisogna approfittarne subito, perché, come tutte le magie, si dissolve presto lasciando solo un piacevole ricordo...

Accesso: da Barzio si prende la funivia dei piani di Bobbio e si segue lo sterrato (non prendere la prima deviazione a destra) fino a giungere in vista dello spigolo della parete N del Barbisino, e per prati si raggiunge una costruzione con indicazione per il sentiero n. 101. A questo stesso punto si giunge da Ceresole di Valtorta risalendo le piste da sci (la costruzione è al termine dell'ultima salita). Si segue quindi il segnavia 101, si passa sotto l'avancorpo e la falesia dell'era glaciale e si prosegue fino alla parete vera e propria. Si sale verso la parete per una vaga traccia in corrispondenza di una zona di sfasciumi e si punta all'evidente grossa nicchia, più o meno alla base del pendio erboso che delimita la parete. Pochi metri alla destra della nicchia sale una larga fessura obliqua. La via attacca alla base della fessura (fix con cordino visibile poco più in alto). A destra, oltre lo spigolo, attacca la Monzesi. Appena a sinistra si vede un fix di Verde valle natia.

Relazione: bella via che risale la parete N del Barbisino sul suo lato destro. Protezioni buone a fix, anche se un paio di friend possono essere utili per accorciare qualche tratto (ma non è sempre possibile integrare con facilità). Passi obbligati intorno al 5c/6a.
1° tiro: salire i primi metri nella spaccatura e abbandonarla, proseguendo dritto e uscendo poi a sinistra alla sosta. 35 m; 5c (forse un passo di 6a); sei fix (uno con cordino), due chiodi. Sosta su due fix, cordino e maglia-rapida.
2° tiro: salire in obliquo verso destra fino ad uscire sulla cengia. 15 m, 4a; un fix, un chiodo. Sosta su due fix, cordino e maglia-rapida.
3° tiro: salire per placca a sinistra della sosta, superare un muretto e continuare per un diedro ed una lama che porta alla sosta sulla sinistra. 15 m; 6b (i primi metri), sei fix. Sosta su due fix.
4° tiro: salire prima verso sinistra, poi a destra fino a superare il corto muretto finale che porta alla sosta. 15 m, 5b (passo), tre fix. Sosta su due fix, cordino e maglia-rapida.
5° tiro: procedere per sfasciumi puntando allo spigolo, salirlo inizialmente sul lato destro fino a rimontare il pulpito. 25 m, 5a; due fix, due chiodi. Sosta su due fix, cordino e maglia-rapida.
6° tiro: salire dritti, portandosi sulla parete a sinistra dello spigolo 25 m, 6a+; sette fix. Sosta su due fix, cordino e maglia-rapida. Il tiro mi è sembrato meno difficile del 3°, ma è più continuo e le protezioni sono un poco più distanziate. Calatevi da questa sosta se volete scendere in doppia.
7° tiro: la relazione indica un tiro che piega verso destra, ma me ne sono accorto solo dopo. Io sono invece salito lievemente verso sinistra, su roccia ed erba, fino a trovare un masso sufficientemente affidabile su cui sostare. 35 m, II. Sosta da allestire su spuntone.

Discesa: se scendete in doppia (dalla sesta sosta) e usate due mezze corde, ve la cavate con tre calate: la prima fino alla quarta sosta, poi alla prima e indi a terra. Se invece optate come noi per un giro più lungo, percorrete il settimo tiro e salite per erba tenendo verso destra fino a giungere ai prati sommitali. Da lì verso destra a prendere il sentiero che porta al vallone dei camosci o quello sulla destra che riporta sul sentiero di arrivo.


Nota: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

venerdì 27 maggio 2022

Treni 2218 e 2275 (Bergamo-Milano Lambrate): ritardi marzo-aprile 2022

Fig. 1: distribuzioni cumulative dei ritardi per il treno 2218 delle 8:02
nei bimestri marzo-aprile dal 2015 al 2022.
Fig. 2: andamento mensile dei ritardi per il treno 2218 (8:02).
Fig. 3: come in Fig. 1, ma per il treno 2275 delle 17:41
(nel 2020 il treno non ha praticamente circolato nel bimestre).
Fig. 4: come in Fig. 2, ma per il treno 2275 delle 17:41.
Le notizie del bimestre, della serie si-ride-per-non-piangere, sono due. La prima (che in realtà risale a febbraio) riporta l'ennesimo piagnisteo di Trenord, che sarebbe preoccupata per il termine dello stato di emergenza, ovvero per il termine dei sussidi statali, invece di rallegrarsi per poter finalmente tornare a lavorare. Cito dall'articolo:
Si tratta dell’ennesima dimostrazione che le aziende monopoliste al riparo dalla concorrenza e inefficienti, come Trenord, preferiscono perdere passeggeri ma avere i ristori dallo Stato piuttosto che guadagnare producendo un buon servizio e riducendo i costi (che nel caso dell’azienda lombarda sono di 20 euro per km percorso, contro i 12 della media nazionale).
A fronte di questa situazione paradossale (ma non troppo: se Trenord fosse concorrenziale perché affidargli il servizio senza gare, come fa da sempre Regione Lombardia?) si può leggere qui una notizia che fa un pochino vomitare (il grassetto è mio):
l’amministratore delegato di Trenord Marco Piuri [...] ha ottenuto nel corso degli ultimi due anni aumenti molto consistenti del suo compenso annuale [e] percepisce oggi, tutto compreso, 568mila euro, con un aumento consistente nel corso del 2020, l’anno nero della pandemia. [...] Insomma, mentre a Trenord piangevano miseria e tagliavano corse, il vertice vedeva lievitare il proprio compenso. Non c’è bisogno di chiedersi che cosa ne pensino i pendolari, ma credo che nessuno se ne sia preoccupato.
L’incremento è dovuto sostanzialmente a un bonus di oltre 200mila euro, assegnato non da Trenord, ma da FNM. L’importo è legato all’aver concluso con successo alcune acquisizioni societarie, in particolare di aver portato a termine l’integrazione di Milano Serravalle, la società autostradale che gestisce un tratto della A7 e le tangenziali milanesi, che possiede quote rilevanti nella Brebemi e nella Tem, la tangenziale esterna di Milano. Ma come, il manager che deve far funzionare la mobilità sostenibile, quella ferroviaria, viene premiato perché integra una società autostradale che fa profitti sul transito di auto private e Tir?
E vediamo cosa ne hanno ricavato i pendolari bergamaschi a fronte di questi lauti compensi: nell'ultimo bimestre il treno 2218 continua a vantare le prestazioni peggiori degli ultimi otto anni! Puntualità ad un misero 12%, al 46% con 5' di ritardo, miglior (?) prestazione di ben 37 minuti di ritardo! Dallo "storico" di Fig. 2 vediamo che poco o nulla è cambiato rispetto al primo bimestre: anzi, sono sette-otto mesi che il 2218 è diventato uno schifo!
Il treno 2275, invece, viaggia (si fa per dire...) pure lui peggio che nel 2021: puntualità al 32% e al 71% entro 5'. Come ormai accade da secoli senza che nessuno se ne preoccupi, il restante 30% dei treni (circa uno su tre) subisce però un ritardo inqualificabile, superiore ai 15'. Certo, se proprio si vuole avere un treno che faccia il giro attorno a Bovisa, un minimo di raziocinio imporrebbe di togliere le fermate di Pioltello e Treviglio ovest, ma evidentemente questo lo capiscono tutti i pendolari, ma non chi decide le fermate. Anche perché, in effetti, queste due stazioni andrebbero completamente eliminate dalla tratta BG-MI!

Nota: i dati sono raccolti personalmente o da app Trenord. Per correttezza, bisogna specificare che i ritardi sopportati dai pendolari su questi due treni non sono indicativi dei ritardi complessivi, che sta ad altri raccogliere e rendere pubblici. Idem per i rimpalli di responsabilità tra Trenord, Rfi, e quant'altri. Qui si cita Trenord in quanto è ad essa che i poveri pendolari versano biglietti ed abbonamenti, e ai quali dovrebbe rispondere del servizio.

martedì 24 maggio 2022

Alto Adige DOC Lagrein 2015 Cantina prod. St. Pauls

Se vi dico "vitigno autoctono dell'Alto Adige", a cosa pensate? Tranne qualche connoisseur che citerebbe la Schiava, la stragrande maggioranza indicherebbe il Lagrein, e a buon diritto! Dopo aver superato un periodo di relativo oblio, è oggi più "alla moda" che mai, e non c'è cantina in alto Adige che non lo annoveri tra la sua produzione. In questo panorama, ovviamente non mancano le belle sorprese, ma era veramente da molto tempo che non assaggiavo un Lagrein così convincente come questo, della Cantina produttori S. Paolo.
La cantina nasce nel 1907, ed oggi può contare su più di 200 soci conferitori. La produzione è variegata e comprende le classiche etichette dell'Alto Adige e alcune cuvée. Due le realizzazioni di Lagrein: lo Zobl, che affina in tonneaux (usati) e che mettiamo per il momento da parte, e la linea base. Il sito del produttore è un po' carente di informazioni: il vino compie la fermentazione in vasche di acciaio, ma niente è detto per quanto riguarda la maturazione. Curiosando qua e là dai vari rivenditori si legge genericamente di "botti di rovere"; fidiamoci.
Il colore è un bel rosso intenso, abbastanza scuro. Dal bicchiere si levano note di frutti di bosco, mirtilli, more, accompagnate da rosa e violetta, con qualche sentore terroso, di sottobosco. All'assaggio esplodono le note di cioccolato, che accompagnano gli aromi con buona persistenza, ben bilanciata dall'alcool. Veramente una bella sorpresa!

Gradazione: 13°
Prezzo: 9€

lunedì 23 maggio 2022

Mondo difficile

Il 1° tiro.
Anna sul 4° tiro.
Tracciato della via (azzurro). In rosso la via Etoile du Midi.
Parete delle stelle
Parete S

Accesso: dal casello autostradale di Quincinetto si torna indietro alla rotonda (non passare sotto il ponte che porta alla falesia di Montestreutto) fino ad un bivio dove si seguono le indicazioni per Scalaro. La strada prende rapidamente quota, esce dal bosco e raggiunge infine un agriturismo oltre il quale si svolta a sinistra. Più avanti si tiene la destra ad un altro bivio (indicazione) e si raggiunge un parcheggio sulla sinistra, nei pressi di un masso con la scritta Parej dle stelle. L'ultimo tratto della strada è sterrato, ma percorribile se non avete un'auto col fondo troppo basso. Si torna brevemente indietro e si segue il sentiero sulla sinistra (ometti e bolli) che porta alla base della parete, in corrispondenza dell'attacco della via Etoile du Midi (targhetta con nome). Si risale brevemente verso sinistra fino all'attacco di Mondo difficile, la linea adiacente (targhetta con nome).
Relazione: via piacevole e ben chiodata su roccia ottima. Portare solo rinvii. Tutte le soste su due fix, catena ed anello di calata.
1° tiro: salire la placchetta verso sinistra (o meglio ancora, attaccare per la rampa a sinistra della targhetta), proseguire dritti per placca, fessura ed un vago diedrino. 35 m, 5b; dodici fix.
2° tiro: non salire dritti, ma traversare decisamente a destra per salire poi alla sosta. 25 m, 5a; cinque fix.
3° tiro: dritti lungo la parete fino alla sosta. 30 m, 5a; dieci fix.
4° tiro: superare il muretto a destra raggiungendo la sosta di Etoile, piegare a sinistra e proseguire dritto fino alla sosta. 30 m, 6a (passo iniziale); nove fix.
5° tiro: superare il muretto sulla destra e proseguire per gradoni. 20 m, 6a (passo); sei fix.
Discesa: in doppia dalla via con tre calate (se usate due mezze corde): dalla sosta finale alla 3a sosta, poi alla 1a sosta di Etoile, e da lì a terra.

Nota: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

venerdì 20 maggio 2022

Il fauno di marmo (o il romanzo dei Monte Beni)

Il fauno di Prassitele (in realtà
una copia) (da Wikipedia)
Guido Reni (attr.), Ritratto di Beatrice Cenci
(da Wikipedia)
Guido Reni, San Michele arcangelo
(da Wikipedia)
Sodoma, Cristo alla colonna
(da Wikimedia)
di Nathaniel Hawthorne
Rizzoli, Milano, 1961 (1a ed. italiana Palombi, 1940)
Traduzione di Giorgio Spina

La storia della caduta dell'uomo! Non si è forse ripetuta nella nostra vicenda di Monte Beni? E se potessimo spingere oltre l'analogia? Lo stesso peccato in cui Adamo precipitò sé stesso e la sua specie, non fu forse il mezzo predestinato per raggiungere, attraverso un lungo percorso di fatiche e di dolori, una felicità più alta, luminosa e sentita di quel che ci potesse donare il perduto diritto naturale? Questa considerazione non spiega, meglio di quel che possano fare altre teorie, il perché sia ammessa l'esistenza del peccato?
A gennaio 1858, Nathaniel Hawthorne e famiglia giungono a Roma per restarvi fino a maggio 1859, senza mancare di visitare Toscana e Umbria. L'anno successivo, in Inghilterra, Hawthorne scrive il suo ultimo romanzo (altri quattro sono incompiuti), pare ispirato dalla visione del fauno di Prassitele (o satiro in riposo). Il libro è una curiosa miscela tra un romanzo ed una guida turistica di Roma, con lunghe descrizioni di rovine, quadri e sculture, che indicano una notevole sensibilità artistica dell'autore e che accompagnano la vicenda, spesso sovrastandola. In effetti si può dire che la trama, piuttosto esile, sia poco più che un pretesto per esporre le meditazioni dell'autore.
La vicenda ruota attorno a due personaggi principali: Donatello e Miriam. Fin dall'inizio, la somiglianza di Donatello con la scultura del fauno ne suggerisce la natura arcadica (p. 20):
Come sarebbe felice, piacevole e completa la sua esistenza, a godere quanto la natura offre di caldo, di sensuale e di terreno [...] a vivere come il genere umano nella sua innocente infanzia, prima che si avesse da pensare al peccato, al dolore, alla stessa morale!
e il libro gioca sul dubbio se Donatello sia davvero un fauno fino all'ultima riga, quando Kenyon (che insieme a Hilda costituisce l'altra coppia di questa vicenda) afferma (p. 421) su questo punto, in ogni caso, non ci sarà una sola parola di spiegazione. Il nostro fauno, esuberante di vita animale (p. 21), è invaghito di Miriam, che non ne ha gran considerazione, definendolo pollo novello e deficiente (p. 20), e sopportando malvolentieri la sua corte. Col tempo, tuttavia, ella apprezza la natura primigenia, incontaminata, felice, del fauno, opposta alla sua, da "mai una gioia", sempre ombrosa, che di frequente era di umore nero e in preda a una profonda malinconia (p. 30), col cuore stanco e oppresso [...] perennemente gravata da una condanna (p. 80). Miriam è infatti perseguitata da uno stalker che la soggioga con enigmatici riferimenti al suo passato, ad un peccato commesso, la colpa, la penitenza, ecc. ecc. Una sera, Donatello reagisce all'ennesima comparsa dello stalker in veste di frate cappuccino e, leggendo uno sguardo di approvazione negli occhi di Miriam, lo getta dalla rupe Tarpea. Questo è il punto di svolta del libro: il delitto, il male irrompono nella vita di Donatello e lo cambiano per sempre.
Il resto del libro descrive la perdita dell'innocenza da parte del fauno, il suo tormento interiore. Egli lascia Miriam e si ritira nella sua dimora toscana, dove viene raggiunto da Kenyon. Nel tempo passato insieme, quest'ultimo nota che la meditazione sul male ha cambiato il fauno (p. 239):
Egli ora rivelava un discernimento molto più acuto, e un intelletto che cominciava ad affrontare elevati concetti [...]. Dimostrava altresì una personalità più definita e più nobile, maturata però nel dolore e nella pena.

Talché, al posto di un ragazzo selvaggio, di un essere giocoso, di una natura animale, di un fauno silvano c'era ora l'uomo, dotato di sentimento e d'intelligenza.
(p. 290)
Grazie a Kenyon, Donatello ritrova Miriam, anch'ella preda del rimorso, e la coppia si ricostituisce. Kenyon li lascia per tornare a Roma da Hilda, di cui è innamorato.
L'ultima parte del libro è un po' confusa (forse solo apparentemente), con Hilda che sparisce, Miriam e Donatello che riappaiono a Roma e danno un appuntamento insolito a Kenyon, e con la scena (quasi) finale nel Carnevale romano.

Prima di tornare su questa parte, è d'uopo notare come il libro possa essere letto sotto tantissimi aspetti: religioso/morale, artistico, storico,... il primo lato è forse il più evidente: Hawthorne veniva da famiglia puritana, ma diversi critici hanno notato un distacco dal rigore teologico di quel credo, e qui se ne vede il risultato: la teoria del peccato come necessario per perdere l'innocenza e guadagnare una forma più alta di consapevolezza, il peccato che è, come il dolore, un mero strumento di elevazione umana (p. 414) cerca di conciliare predestinazione (un cardine del puritanesimo) e peccato (più o meno) originale. Di fatto, i riferimenti alla religione e al peccato abbondano nel libro, spuntando ad ogni voltar di pagina fino alla noia. Anche la polemica con il cattolicesimo affiora spesso e volentieri, a volte in toni accesi, ma a me pare venata di simpatia (per la fede, non per la Chiesa), senza che l'autore prenda decisamente posizione (si pensi alla scena della confessione di Hilda o al ritrovo a Perugia sotto la statua di Giulio III). Diverso il caso delle antiche religioni, delle persecuzioni romane verso i cristiani, dei "peccati di Roma" che vengono rievocati fino alla nausea ad ogni spuntar di antica rovina (ma qui c'è anche un altro significato, ovvero il mostrare come anche il mondo, la società, abbiano perso la loro innocenza e si siano corrotte, come Donatello).

E siamo all'aspetto artistico, altro filone che percorre tutto il libro. Dalla descrizione dell'ambiente degli artisti americani a Roma in cui sono inseriti i personaggi fino alle discussioni sul rapporto tra pittura (coltivata da Miriam e Hilda) e scultura (praticata da Kenyon) e quelle sul futuro della scultura (p. 116), il libro scava nel rapporto tra arte e morale, indaga il significato dell'opera d'arte con estrema lucidità. Se la vicenda parte da una scultura, e se due sculture di Kenyon toccano Miriam (cap. 14) e Hilda (cap. 41), è la pittura (religiosa) a farla da padrona: si comincia al cap. 7 con il Ritratto di Beatrice Cenci di Guido Reni che anticipa il dilemma di fondo (p. 67):
Il peccato di Beatrice può non esser stato così grave; forse non fu nemmeno un peccato ma la migliore virtù possibile, date le circostanze
ma che allo stesso tempo fa emergere il potere della suggestione nell'opera d'arte. Si ritrova Reni nel cap. 20 con il dipinto di S. Michele arcangelo che schiaccia Satana, che dà modo a Miriam di riflettere sulla sua personale lotta con il male (la visita avviene il giorno dopo l'omicidio dello stalker), e dopo una fuggevole menzione del Ritratto di Giovanna d'Aragona di Leonardo (p. 299) si finisce con il Cristo alla colonna di Sodoma nel cap. 37, elevato da Hilda a quintessenza di arte religiosa. La religione non è decisamente il mio forte, ma sarebbe interessante confrontare la lotta eroica del S. Michele con il Cristo legato e sanguinante, il suo sacrificio con quello del fauno, da cui inizialmente (p. 17) non ci aspetteremmo [...] né sacrifici né sforzi per una causa ideale, ma in cui Kenyon istilla l'idea di un sacrificio duraturo e altruistico (p. 244) che lo porterà alla decisione finale.

Se la pittura è dominata dagli artisti italiani (ma non manca un riferimento ai fiamminghi nel cap. 37), la scultura ne è priva, e gli artisti citati da Miriam (p. 113) sono americani, ancorché viventi in Italia: la mano di Loulie di Hiram Powers e le mani congiunte di Browning e sua moglie di Harriet Hosmer (che curiosamente scolpì anche una Beatrice Cenci e un fauno). Ma Hawthorne non manca comunque di criticare il pragmatismo che soggioga l'arte americana: la fontana di Trevi, trasportata negli USA, avrebbe (p. 135) statue intente a pulire la bandiera nazionale dalle macchie che potrebbero essercisi formate.

Lo sfondo storico della vicenda è la Roma che segue la fine della Repubblica romana, con le strade popolate di truppe francesi e la restaurazione illiberale di Pio IX, sul cui sistema politico-giudiziario Hawthorne avanza qualche riserva (l'onnipresente soldataglia, la sorveglianza a cui è sottoposta Miriam, la giustizia di cui non c'è niente del tutto qui, sotto il dominio della Cristianità (p. 391)). Questa osservazione permette di leggere il romanzo anche da una prospettiva diversa, che è stata proposta per spiegare la concitata seconda parte del libro e la decisione di Donatello di consegnarsi all'autorità per essere processato: Donatello e Miriam prendono questa decisione in cambio della liberazione di Hilda, sequestrata dall'autorità papale! Ciò spiega l'avvertimento di Miriam a Kenyon (cap. 43) e la sua reticenza nel rivelargli quando rivedrà Hilda (cap. 47), perché ciò coinciderà con la loro cattura. Solo Donatello, autore materiale del delitto, sarà poi trattenuto (la teoria, incluso un piano per un complotto "politico" è accennata in modo sbrigativo nella Conclusione, ma vi risparmio i dettagli). Indubbiamente questi aspetti "misteriosi" del libro, non esplicitamente chiariti, hanno contribuito alla creazione di un alone di mistero (che pure è presente) e alla classificazione del romanzo tra le fila della letteratura gotica: H. P. Lovecraft ne L'orrore soprannaturale in letteratura dice che nel romanzo (p. 119 dell'edizione Theoria, 1989)
uno straordinario mondo di autentica misteriosità palpita e traspare al di là di una prima lettura superficiale; e impalpabili tracce di elementi fantastici si mescolano alla presenza di aspetti più strettamente terreni, nel corso di un romanzo che risulta interessante nonostante il persistente incubo della allegoria morale, della propaganda anti-cattolica, e di una pruderie puritana [...]
Ci sarebbe poi da parlare di Roma e dell'Italia, veri e propri comprimari del libro, e dei commenti di Hawthorne sugli italiani, non dimenticando lo spunto enologico nella descrizione del raggio di sole, il vino di Donatello. Concludo invece con due parole sugli altri protagonisti, a partire da Hilda, personaggio tra i più antipatici, che incarna il rigore morale (ma chiamiamolo anche bigottismo) puritano. Costantemente descritta come colomba, angelo, santa, è quasi completamente priva di empatia, di passione, critica tutto e tutti e, avendo assistito involontariamente al delitto, non si fa scrupolo di abbandonare Miriam, l'amica del cuore, che le chiede conforto (cap. 23): l'innocenza non dev'essere contaminata dal peccato. Successivamente riconoscerà l'errore, ma persevererà nel suo ottuso rigore, silenziando (senza discutere) le idee "eretiche" sul peccato che Kenyon prova ad esporle. Hilda e Kenyon, finalmente sposi, torneranno in America: è la scelta della rinuncia, di una vita casa e chiesa in cui lei sarà posta su di un altare e adorata come una domestica santa (p. 415). Hilda vive in una torre, e in una torre si ritira Donatello, ma l'innocenza (vera) di Donatello e quella (vera a metà) di Hilda si consumano lungo strade differenti.
Kenyon, invece, appare più empatico, sensibile e curioso di conoscere, anche se ha tratti del carattere inutilmente rigoroso di Hilda, e oscilla tra le due possibilità. Alla fine deciderà di seguire Hilda, rinunciando probabilmente anche all'arte (p. 386): Immaginazione e amore per l'arte sono morti per me; la scelta più facile.
Se la "caduta" di Donatello rimanda a quella di Adamo, Miriam è ovviamente Eva, e questo ruolo è anticipato dai disegni che gli mostra (cap. 5), che rappresentano GiaeleGiudittaSalomè. Miriam è l'unica che può "vantare" una precedente esperienza del male, e il suo senso di colpa aumenta per via del suo ruolo nel delitto di Donatello e per l'effetto che ha avuto su lui e su Hilda (meno per il delitto in sé; si ricordi anzi il senso quasi di esaltazione che prova subito dopo). Da un certo punto di vista mi pare il personaggio più riuscito, sensibile e capace di leggere negli altri (si veda il dialogo al cap. 23), indipendente ed autonoma (ed infatti Miriam crea, mentre Hilda copia solamente). Resterà sola con le sue meditazioni, come Hester ne La lettera scarlatta, come se fosse stata sulla sponda opposta d'un insondabile abisso e li ammonisse di stare lontani dal suo orlo (p. 415). La società di allora, e pure quella di oggi, non sono pronte per lei.

domenica 24 aprile 2022

Via del senatore

Sul 1° tiro
Anna sul 6° tiro.
Tracciato della via.
Monte Pranzà - Val Cavallina
Parete S


Era il 12 ottobre 2021 quando sono caduto malamente da un boulder della palestra - anche per evitare una demente che si era piazzata proprio sotto di me - rimediando una botta violenta al braccio e un viaggio al Pronto Soccorso. Va da sé che la mia già scarsa attività si sia fermata. Dopo sei mesi non sono ancora guarito del tutto, e sono diventato ancora più coniglio; accetto quindi volentieri il suggerimento di Luca e Federico di andare a ripetere una loro nuova via sul Monte Pranzà, aperta in stile tradizionale e richiodata a fix. Via facile, un po' discontinua, adatta a chi vuole muovere i primi passi in parete. E il nome? Sempre loro mi raccontano: "I grandi dell'alpinismo, alcuni dei quali avevo conosciuto anni fa, parlavano a loro volta dei senatori della montagna riferendosi ai loro maestri. Questa via, aperta in stile classico, vuole essere un omaggio a loro."
Accesso: da Bergamo si raggiunge il Colle Gallo, sopra Gaverina Terme. Appena prima del santuario si prende a sinistra, seguendo le indicazioni per il Faisecco. Si tiene la destra al primo bivio e si continua fino al villaggio omonimo. Poco dopo si incontra una curva verso destra, in corrispondenza dell'inizio del sentiero che porta al Cesulì (ovvero chiesina; evidente indicazione). Da qui due possibilità: si parcheggia poco prima e si segue il sentiero fino al Cesulì. Dalla chiesina si seguono le indicazioni per il Monte Pranzà fino ad una cascina. Qui si può anche arrivare risparmiando un po' di tempo se si prosegue in auto lungo la strada, prendendo poi a sinistra al bivio. La strada sale fino ad una sbarra rosa, dove si parcheggia sulla destra. Si segue il sentiero fino ad una casa, e appena dopo si sale a destra, proseguendo dritti fino alla cascina.
Dalla cascina si continua fino ad un capanno di caccia, dove bisogna scendere sulla sinistra, per traccia non segnata. Noi, dopo un po' di perlustrazione ed annessi improperi, siamo scesi in corrispondenza di una piccola fascetta bianco-rossa legata ad un arbusto, ma se non la trovate non prendetevela con me. Si scende per vaghe (molto vaghe...) tracce zigzagando fino ad incontrare un'evidente traccia orizzontale, che si segue verso destra, giungendo all'ennesima baita. Oltre la baita si giunge subito sotto la parete. Si sale alla base e si procede, superando una nicchia. Salendo infine uno zoccolo, si giunge all'attacco (evidente fix con catena). Il percorso, seguito e segnalatomi da Marco Plebani (grazie!), si può trovare qui. Accanto alla via del senatore corre la via Pulce (6b+), dovuta agli stessi apritori.
Relazione: gli apritori hanno scovato probabilmente l'unico percorso che risale tutta la parete S del monte, tra placche e gradoni. Purtroppo il terreno è abbastanza discontinuo, e la via alterna un paio di bei tiri, qualche passaggio interessante sugli altri, e tratti su terreno facile. Gli apritori hanno fatto un gran lavoro di pulizia, e la roccia è ora buona (un po' sporca di terra, ma si pulirà con le prime piogge), con qualche tratto in cui fare attenzione. La chiodatura è ottima a fix, ma conviene portare un paio di cordini per integrare su alcune clessidre, in corrispondenza di tratti facili ma dall'aspetto un po' dubbio. Tutte le soste sono su due fix e catena con anello.
1° tiro: salire per gradoni ed uscire verso sinistra alla sosta. 25 m, 4c, sette fix.
2° tiro: salire dritti e traversare a sinistra portandosi alla sosta. 15 m, 3a, tre fix.
3° tiro: salire dritti e spostarsi verso sinistra salendo su una specie di pulpitino. 20 m, 4a, cinque fix.
4° tiro: superare il muretto sopra la sosta e continuare per facili rocce fino alla sosta. 15 m, 5a (passo), un fix.
5° tiro: salire la placchetta a destra della sosta (non andate all'albero, ma salite subito) e continuare per rocce facili, prima dritti e poi a sinistra. 35 m; 5a (passo), III; cinque fix.
Giunti alla sosta, spostarsi a sinistra per una decina di metri fino alla sosta dell'ultimo tiro.
6° tiro: salire dritti, traversare a destra per pochi metri e salire per una placca fino alla sosta finale. 25 m, 5b, sei fix.
Discesa: prendere il sentiero verso destra che in breve riporta al capanno di caccia. Da qui a ritroso fino all'auto.

Avvertenza: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

sabato 9 aprile 2022

Chianti classico DOCG 2017 Badia a Coltibuono

Siamo nella zona del Chianti classico, nella parte senese, a Gaiole in Chianti. A pochi chilometri dal paese si trova la badia (cioè abbazia) di Coltibuono, che in origine era Cultusboni, ovvero del buon culto e del buon raccolto. Nata nell'XI secolo, passa per una divertente serie di vicende che si possono leggere qui, fino a diventare azienda agricola e agriturismo. L'attività di vendita di vino si sviluppa nel dopoguerra, e l'azienda acquisisce la certificazione biologica nel 2000. Cuore della produzione vinicola è ovviamente il Chianti, nelle versioni base e riserva, e Cultus riserva, che vanta (si fa per dire...) un invecchiamento in barrique e che quindi mettiamo serenamente da parte.
Il Chianti base dell'azienda nasce da uve Sangiovese al 90%, cui si aggiungono uvaggi tradizionali quali Canaiolo e Colorino. Affina per 12 mesi in botte, con breve passaggio in bottiglia.
Il colore è un bel rubino molto invitante. Dal bicchiere salgono sentori di ciliegia, qualche accenno floreale, di viola, e leggere note speziate. Il vino è ben equilibrato e si beve con piacere, l'alcool è quasi nascosto dal gusto e dalla freschezza: ancora frutti rossi, qualche nota minerale e un finale lievemente amarognolo.
Da assaggiare quanto prima la Riserva!

Gradazione: 13,5°
Prezzo: 14€

sabato 12 marzo 2022

Treni 2218 e 2275 (Bergamo-Milano Lambrate): ritardi gennaio-febbraio 2022

Fig. 1: distribuzioni cumulative dei ritardi per il treno 2218 delle 8:02
nei bimestri gennaio-febbraio dal 2015 al 2022.
Fig. 2: andamento mensile dei ritardi per il treno 2218 (8:02).
Fig. 3: come in Fig. 1, ma per il treno 2275 delle 17:41.
Fig. 4: come in Fig. 2, ma per il treno 2275 delle 17:41.
Fig. 5: questi manco sanno perché i loro treni fanno ritardo!!
La notizia... no, la comica del bimestre è una mail del 2/2 di Trenord diretta agli sfortunati pendolari, come se non gli bastassero le altre sciagure che subiscono per causa di questa nefasta azienda. Se proprio ne desiderate copia, chiedetemela. La mail è una di quelle excusatio non petita (con quel che ne consegue) che fanno incazzare fin nel profondo. Contiene alcune (poche) cose sensate, tipo la carenza di personale ed il calo di traffico dovuti al Covid, la saturazione della linea (piena quasi come le palle dei pendolari), ma poi si arrampica sugli specchi per contrabbandare i soliti indici di puntualità misurati un po'... ad minchiam (cioè a modo loro; si veda il rapporto del Politecnico già indicato nelle puntate precedenti...) e piazzare alcune affermazioni che paiono trovate da avanspettacolo, ad esempio che nel periodo 2018-2021 la puntualità sarebbe aumentata (davvero??) e le soppressioni di treni diminuite (dite sul serio??), che tutto sta migliorando (certo, basta misurare i ritardi come fa comodo...) e chi dice il contrario è in malafede. Nella mail si afferma senza pudore che la puntualità negli anni 2018/19/21 è del 78%, 80% e 84%; valori decisamente opinabili! Ora, come detto più volte, i dati su due treni potrebbero non essere rappresentativi del totale, ma certo non sono incoraggianti: se guardiamo le figure 4 e 8 qui, vediamo dati reali ben diversi: la media sui due treni è 23%, 30% e 17%! Se poi stiriamo la definizione di puntualità includendo 5' di ritardo (assurdo: è il 13% del tempo di percorrenza!) si ha 47%, 77%, 74%. Nello stesso link si vede poi distintamente che le ore di ritardo continuano ad aumentare anno dopo anno; dov'è il miglioramento? Nello stipendio di chi firma quella mail?
Naturalmente il 2022 non va meglio; anzi! I ritardi del 2218 (Fig. 1) sono pure peggiori che nel 2021: puntualità al 10% (al 56% entro 5' di ritardo), massimo ritardo pari a 46 (quarantasei!) minuti: lontanissimi dagli standard minimi di decenza, come si vede in Fig. 2, e in particolare dalla curva verde (che va allegramente fuori scala a gennaio!).
Nel pomeriggio non ci sono tracce di miglioramento. Si vede chiaramente (Fig. 3) che il dato è inqualificabile; il peggiore con l'esclusione del 2018: puntualità al 14% (al 50% entro 5') e ritardo massimo di "solo" 28'. Inutile commentare il trend mensile di Fig. 4 senza che cadano... diciamo le braccia!
Se la puntualità proprio non si riesca a garantire, a Trenord devono aver sviluppato un notevole senso del comico, non solo per la mail di cui sopra, ma per gli avvisi alla clientela, tipo quello in Fig. 5: il treno ritarda, ma non si sa perché! Come si potrà mai essere in grado di fornire un servizio accettabile?

Nota: i dati sono raccolti personalmente o da app Trenord. Per correttezza, bisogna specificare che i ritardi sopportati dai pendolari su questi due treni non sono indicativi dei ritardi complessivi, che sta ad altri raccogliere e rendere pubblici. Idem per i rimpalli di responsabilità tra Trenord, Rfi, e quant'altri. Qui si cita Trenord in quanto è ad essa che i poveri pendolari versano biglietti ed abbonamenti, e ai quali dovrebbe rispondere del servizio.

domenica 6 marzo 2022

Sociologia del gusto letterario

di Levin Ludwig Schücking
Rizzoli, Milano, 1977 (1a ed. italiana 1968)
Traduzione di Vittoria Ruberl
All'artista la fede nel trionfo finale del Bene sarà forse utile, ma lo storico della letteratura e il sociologo che l'accettino senza riserve mancano di senso critico. A chi crede nel trionfo del Bene si può solo opporre il dubbio se non accada spesso proprio il contrario, che cioè quello che ha trionfato venga poi considerato come il Bene.
Mettiamo subito le mani avanti e diciamo che il titolo fa molto "anni sessanta", con l'annessa aura di mattone illeggibile. Niente di più sbagliato: il volumetto di poco più di 100 paginette scorre piacevolmente e presenta un'interessante visione del rapporto tra il gusto letterario/artistico e la composizione sociale. La domanda di partenza è semplice: cosa determina il gusto di un'epoca? Perché certi autori sono osannati in un dato periodo storico per poi finire nel dimenticatoio, e viceversa?
L'analisi di Schücking ha il pregio della concretezza, e parte dal rapporto tra artista e pubblico nei secoli passati: nel Medioevo il maggiore (se non l'unico) committente dell'artista è il nobile, l'unico che possa garantirgli una sopravvivenza, sì che per molti secoli la poesia è stata una specie di bel parassita degli alberi all'ombra dei quali fioriva la vita politica ed economica (p. 16). Salvo rare eccezioni di mecenatismo illuminato, l'artista produce opere per l'aristocrazia, opere che ne rispecchiano i valori tradizionali (come tradizionale è il mantenimento dei privilegi): l'arte deve tener conto del pane (p. 22). Le cose iniziano a cambiare con l'ascesa della borghesia, che consente all'artista di svincolarsi dal mecenate per rispondere ad un pubblico più vasto; questo processo si realizza secondo LS dapprima con il teatro elisabettiano, e intorno al '700 per la letteratura (e, aggiungerei io, anche per la musica). Da lì, lentamente, con la crescita del pubblico cresce anche la considerazione sociale dell'artista, che nella seconda metà dell'Ottocento assurge addirittura a vate, a individuo di sensibilità superiore, soprattutto nella poesia. L'artista si svincola così dal pubblico e non deve accettare consigli dagli sciocchi. Il tempo rovescia il giudizio della folla idiota (p. 34, frase attribuita a Shelley). Dal genio sopra la folla si giunge così all'estetismo e all'arte per l'arte, che risponde solo ad una funzione estetica e dove il pubblico è ammesso solo come estimatore (e sostenitore).
Siamo quindi alla fine dell'Ottocento e alla nascita del naturalismo, il più grande cambiamento del gusto avvenuto da secoli (p. 40; l'autore si riferisce alla Germania), che fotografa la comparsa nella società di gruppi che si oppongono alla borghesia, ormai depositaria dell'arte "tradizionale". Secondo LS in quel periodo si assiste ad una disgregazione della società, conseguenza di vari fattori: inurbamento, aumento della scolarizzazione, diversità di condizioni economiche, che si riflette in una differenziazione di idee ed in un frazionamento di quello che il pubblico chiede all'arte.
Da qui in poi (siamo circa a metà libro) si passa all'analisi dei vari fattori che influenzano la produzione artistica. Per la nascita dell'opera d'arte si parla del rapporto (di accordo o contrasto) dell'artista col gusto dominante e dell'importanza delle scuole di pensiero, per la sua diffusione si discute del ruolo degli editori, del commercio librario e della pubblicità. Per bilanciare il ruolo non proprio oggettivo della pubblicità si inserisce la critica letteraria, che dovrebbe fungere da mediatore tra pubblico e artista, con un processo simile a quello che si è avuto nella religione, quando fra il fedele e la divinità s'inserì il sacerdote (p. 71). Qui LS si lancia in un pamphlet contro la critica, accusata di esautorare il pubblico da ogni giudizio e di metterlo sotto tutela dal punto di vista del gusto, in virtù di una sua - vera o presunta - incapacità di comprendere l'artista, accompagnando ciò ad una critica ai... chiamiamoli "eccessi" dell'arte contemporanea (anche se LS non la chiama mai in questo modo):
Sono infatti venute meno le premesse implicite del termine "genio", e chi fa dell'arte pretende a tutti i costi che si approvi il suo gusto. Una perfetta dittatura del gusto ci prescrive di trovare bella l'espressione degli istinti di chi pretende di essere artista, qualsiasi forma egli ritenga opportuno scegliere a questo scopo. [...] Così l'arroganza del re sopravvive nelle pretese degli artisti (p. 80).
Se entrate in un qualunque museo e visitate la sezione di arte contemporanea, qualche simpatia per la veridicità di queste affermazioni vi verrà. L'ultima parte è destinata all'accoglienza da parte del pubblico, dove si riprendono un po' i concetti precedenti, con qualche excursus interessante sul pubblico maschile e femminile, sull'esistenza o meno di opere d'arte "universali", e sul ruolo dell'Università e della scuola nella formazione del gusto, identificate come "custodi della tradizione" dall'autore.

L'unico neo di questa trattazione è la sua età: l'opera nasce nel 1923 ed è "risistemata" nel 1961 per un'edizione successiva: per questo la parte storica si ferma al naturalismo o poco oltre; manca praticamente tutta la contemporaneità, anche se è vero che molte delle affermazioni mantengono una validità anche oggi. Ogni tanto non si può non provare un senso di tenerezza (come quando si sentono i nonni raccontare), ad es. quando LS sembra dispiacersi (p. 46) che oggi i giovani non si creano più un'immagine rosea l'uno dell'altro gettando sguardi furtivi e spesso ingannevoli in quella che si ritiene l'altrui vita spirituale, in un raffinato ambiente mondano o in circoli di lettura, ma possono conoscersi a fondo nel mondo dello sport e in quello del lavoro, e pensare cosa direbbe delle numerose dating apps. Anche i numerosi esempi ed aneddoti che accompagnano l'illustrazione delle idee di LS, tratti dalla storia della letteratura e del teatro, con incursioni nell'arte figurativa, fanno spesso riferimento a figure oggi pressoché dimenticate: un esempio per tutti sono alcuni riferimenti al valore letterario di Annette Droste, che fu legata allo zio dell'autore. Senza volerci necessariamente vedere della malizia, ciò appare come una evidente dimostrazione della mutevolezza del gusto raccontata dall'autore stesso. Inoltre, molti riferimenti si rifanno all'area germanofona e inglese; la Francia vi appare sporadicamente, l'Italia conquista solo un paio di riferimenti a Dante e Petrarca, a dimostrazione del carattere provinciale della nostra letteratura nel quadro europeo. E dubito che questo sia cambiato negli ultimi 50-60 anni.