martedì 9 aprile 2024

Interrogatorio della Contessa Maria

di Aldo Palazzeschi
Mondadori, Milano, 2005 (1a ed. 1988)

Non c'è nulla da raccontare, pochissimo da dire, tutto da fare.
No no, non è una svista: la prima edizione di questo romanzo (ovviamente postuma) è del 1988! L'autore ne annunciò la pubblicazione nel 1926, ma cambiò idea e vincolò il manoscritto ad essere pubblicato solo dopo la morte, forse per la poetica, forse per l'argomento: la contessa Maria è una nobildonna che si ribella alle convenzioni famigliari e fugge dall'ambiente ipocrita in cui è cresciuta per dedicarsi alla sua vera passione: gli uomini! E vi si dedica con una notevole dedizione se, interrogata sul numero delle sue relazioni, risponde (p. 22):
Conta duecento numeri nuovi all'anno, perché come tu comprendi, ci sono le repliche, non frequenti del resto, e le riprese, rarissime.
L'iperbole dà la misura del racconto e del carattere della contessa, pervasa da una vitalità prorompente (e dirompente) che si contrappone alla vita ordinaria del narratore-scrittore, il quale la approccia in un bar, animato da pura curiosità e desiderio di conoscenza. Nasce così un'amicizia costellata di domande tra l'ingenuo ed il petulante, e di lapidarie risposte della contessa: l'interrogatorio, appunto.
Dall'interrogatorio emerge la visione del mondo della contessa, giustamente curiosa d'esperienze umane ed altamente dotata per intraprenderle (p. 40), e il suo completo disprezzo per la morale comune (pp. 26-27):
L'uomo ama nella donna la conquista, anche se è solo apparente, la vetrina della propria vanità; la sensualità è inquinata da secoli di coglionerie morali religiose letterarie. L'uomo ama la donna malata [...], isterica, piagnucolosa, ama gli svenimenti, i singhiozzi [...]. Ama la donna bugiarda, l'enigma, la donna finge la sensualità o la nasconde, io sono sincera, risplendente come la luce del sole, mutabile, che può sfuggirgli [...].
La donna è la menzogna, io sono la verità. Ti pare che gli uomini mi possano amare? Essi sono la mia preda, io non diventerò mai la loro.
L'insofferenza per le convenzioni e per i sentimenti in favore della sensualità non è tuttavia amoralità, non è tradimento o mercimonio; Maria si rapporta con gli uomini in maniera del tutto paritaria, perché è solamente dando tutto che si può avere tutto (p. 28), e segue in maniera scrupolosa un suo personalissimo codice (p. 52):
Tu intendi per virtù rinunzia, sacrifizio, mancare alla vita, soffocarla, rinnegarla, ahimé! Virtù è vivere secondo la propria natura interamente, senza sacrifizio degli altri ma nemmeno di sé, non mentire mai né con alcuno, non ingannare mai nessuno, e soprattutto, non ingannar sé stesso mai. Questa è virtù!
Questa concezione del mondo in opposizione alle repressioni esercitate dalla società e dalla cultura (per non parlare della Chiesa) si riverbera naturalmente nei gusti artistici e letterari della contessa, che predilige la musica che mi lascia facoltà di pensare a modo mio o di non pensare affatto (p. 43), anche se questo amore non le impedisce di appartarsi durante gli spettacoli dell'Opera, perché un'ora di vita è sempre in ogni caso da preferirsi ad un'ora d'arte (p. 58). Esilaranti poi le versioni di Maria sul finale della Traviata alle pp. 43-46 e sul comportamento di Francesca da Rimini (pp. 83-84). Per il resto, Leopardi è un gobbo infetto (p. 82), Carducci un vecchio cassettone (p. 83), e sorvoliamo sugli altri.
Il dissidio tra vita ed arte si ripropone nella contrapposizione tra la contessa e il narratore, bischero... e infelice (p. 27), che professa di continuo perplessità, turbamento e riserve, intellettuale un po' sfigato che ha bisogno di due pagine di giri di parole per chiedere semplicemente a Maria se è mai andata a letto con due uomini (pp. 40-41), perennemente insultato dalla contessa che gli ricorda che (p. 78)
Hai codesto male. Vivi inappagato sempre, vivi di quello che fu, e che non è mai stato, di quello che dovrà essere, e che poi non sarà, di quello che non è, di quello che non si sa, mai di quello che è. L'istante che vivi oggi dolorosamente sarà bello domani, lo ricorderai con nostalgia e rimpianto, è il debito che devi pagare all'ora non saputa vivere, la vita si vive a contanti e si liquida giorno per giorno, ora per ora. [...] Hai perduto il passo per fantasticare. Fare, fare bisogna.
I caratteri dei due personaggi, il tono delle discussioni, gli argomenti portati, la contessa che dà sempre del tu al narratore il quale le si rivolge sempre con il lei (tranne durante un'arrabbiatura per la fuga dall'Opera) rendono evidente la simpatia di Palazzeschi per le posizioni di Maria nonostante i distinguo di forma, e suggeriscono anzi una certa identificazione sul piano ideale con la stessa... o con la sua passione.

Bisogna infine notare che tutto quanto detto finora si consuma nelle prime 80 pagine circa, la parte di gran lunga migliore del libro. Segue una seconda parte in cui la contessa racconta la propria iniziazione ai piaceri della vita e la fuga dalla famiglia. Scritta in tono da romanzo d'appendice, noiosa ma non senza qualche guizzo brillante, sembra una parodia di quel genere letterario che tanto avrebbe disgustato la contessa; purtroppo però, non regge il confronto con la prima parte ed incrina l'unitarietà del racconto. E questo ci rimanda alla domanda iniziale: sono stati motivi formali che hanno spinto Palazzeschi alla censura del racconto, o legati al contenuto? Chi propende per la prima ipotesi ricorda come istanze di liberazione sessuale non erano affatto nuove al tempo, basti pensare al Manifesto futurista della lussuria di Valentine de Saint-Point del 1913, anni in cui parte della critica localizza la scrittura originale del testo. Un centinaio di anni dopo, non ci resta che leggere con divertimento le avventure della contessa e salutarla amichevolmente, anche se certamente non avrebbe gradito alcuna linea scritta su di lei (p. 11): la vita è azione, figliolo caro, e starsene col sedere sulla seggiola non è azione