sabato 13 novembre 2021

Grande guerra, piccoli generali

di Lorenzo Del Boca
UTET, Torino, 2007

I soldati avevano un'altra storia da raccontare: indubbiamente parziale e frammentaria perché non riusciva ad alzare lo sguardo oltre i cinquanta metri quadrati dove ognuno di loro si sforzava di restare vivo, pur rischiando, ogni secondo, di non farcela. Lì non esistevano visioni strategiche né sguardi d'insieme ma non mancava il dolore, quello vero - straziante - perché apparteneva al compagno di camerata che, giusto il giorno prima, aveva raccomandato: "se non ce la faccio, manda questo alla mia famiglia..."
Questo è un libro che ha un'intenzione anche condivisibile, ma che la porta avanti in maniera talmente maldestra da ottenere l'effetto contrario! Scopo del libro, definito "scomodo" dall'autore, è mettere in evidenza l'impreparazione della classe politica e militare italiana di fronte alla Grande Guerra; per farlo però riduce tutta la storia della guerra sul fronte italiano a generali e graduati del tutto incapaci (o anche peggio: i dispregiativi non mancano) che mandano allegramente i soldati a morire, mentre nel resto del Paese albergano politici altrettanto inadatti, industriali truffatori, imboscati, ecc. ecc.
Intendiamoci: non sono cose inventate. È ormai risaputo (e non è scomodo dirlo) che le grandi battaglie isontine sono state delle carneficine, che l'impreparazione militare (soprattutto nel 1915, ma non solo) è costata migliaia di vite umane, che decisioni scellerate di generali (o anche semplici malintesi) sono state pagate a carissimo prezzo dalle truppe, e così via. Fa quindi bene l'autore a ricordare una serie di episodi tragici (con alcune interessanti denunce tratte da l'Avanti! dell'immediato dopoguerra), a rimarcare l'inadeguatezza (e anche la criminale colpevolezza) di alcuni figuri o il cinismo di Governo e Comando italiani verso i prigionieri di guerra, lasciati morire di fame per scoraggiare le diserzioni (tutti fatti peraltro ben noti).

Quello che non funziona è l'unilateralità. Tutto, ma letteralmente tutto, è piegato alla teoria dell'autore, senza che ci sia il minimo sforzo di stabilire una verità storica, di valutare spiegazioni alternative o anche solo di confrontarsi con quello, molto simile, che accadeva in altri teatri di guerra: sempre e solo un esercito formato da soldati comandati da imbecilli. Per questo è fondamentale leggere questo libro avendo accanto qualche altro riferimento, ad esempio questi due libri tra i tanti disponibili, su cui verificare alcune affermazioni. Ed i problemi nascono subito, già dal primo capitolo, dove leggiamo (p. 14)
E la riscossa di Vittorio Veneto esiste soltanto sulla carta perché, in quella settimana [...] non ci fu nessun assalto e nessuno sfondamento. Gli italiani avanzarono perché gli austriaci si stavano ritirando
Vado a prendere il libro di Pieropan: inizio della battaglia il 24 sul Grappa, primi tentativi sul Piave il 26, passaggio del fiume tra il 28 e il 29 per causa della piena e della resistenza nemica. Le perdite italiane (morti, feriti, dispersi) nell'ultima battaglia ammontano a quasi 37000 uomini (p. 848); certo molto meno dei circa 143000 dell'XI battaglia o dei più di 200000 inglesi di Passchendaele (anche loro comandati da asini?), ma non sono comunque troppi per una battaglia soltanto sulla carta? Gli ammutinamenti delle truppe ci furono (perlopiù di quelle ungheresi), ma nei giorni successivi, dopo che Caviglia era penetrato nello schieramento nemico. Ma Vittorio Veneto evidentemente non va giù a Del Boca, se alla fine del libro riporta una famosa fesseria di A. J. P. Taylor secondo cui (p. 213) a Vittorio Veneto gli italiani sbucarono dietro i francesi e gli inglesi. Facciamo due conti: 61 divisioni totali, di cui 1 francese e 2 inglesi; non serve aggiungere altro.
Il tono non cambia negli altri capitoli: si procede molto per aneddoti e divertenti pettegolezzi, meno per fatti. Si irride alla politica italiana del 1914, ma - a proposito di fedeltà e di cialtronate - non si ricorda che il gen. Conrad progettava un attacco a tradimento all'Italia già nel 1908, quando i due Paesi erano ben lontani dalla guerra, sfruttando la situazione conseguente al terremoto di Messina, per non parlare delle balle raccontate all'Italia la settimana prima dell'ultimatum a Belgrado (ancora Pieropan, p. 26). Si evidenziano tentennamenti, divisioni e quant'altro dando a tutti del somaro, ma non si dice che quello che affonda un accordo tra Italia e Austria non sono i continui rilanci dell'Italia, ma l'indisponibilità/impossibilità dell'Austria a cedere territori "etnicamente italiani" (come si diceva allora) pena la disgregazione dell'Impero, mirando invece a dilazionare l'inevitabile entrata in guerra dell'Italia con l'Intesa nella speranza di vincerla prima.
Un altro banale esempio del modo di procedere del libro lo troviamo a p. 45, dove leggiamo del gen. Caneva che
era nato a Udine e veniva dall'esercito austriaco. Se Vienna aveva lasciato che si congedasse, non doveva valere granché...
Ma che razza di deduzione è? E cosa avrebbero dovuto fare? Metterlo in galera per non farlo congedare (peraltro come sottotenente)? Pretendere di scrivere un libro scomodo farcendolo di insinuazioni è disarmante. E possiamo continuare con Cadorna, uno dei bersagli preferiti di Del Boca insieme a Badoglio ed al Re. Non ho simpatia per alcuno dei tre, ma nonostante il vergognoso bollettino a valle di Caporetto vorrei spendere due parole sul primo (gli altri sono oggettivamente indifendibili). A p. 68 si legge
Alla vigilia di Caporetto, [...] ai reparti italiani vennero ritirate le licenze, sospesi i permessi e raddoppiati i turni di servizio. Lui [Cadorna], dopo aver dato disposizioni ferree perché nessuno si muovesse dal suo posto, partì per Vicenza in una vacanza.
Il problema è che non è vero! Ancora Pieropan, dopo aver spiegato le vere ragioni del trasferimento a Vicenza, definisce questa ipotesi (p. 381) come dovuta a certa saggistica di parte, o quantomeno votata ad inguaribile pressappochismo. E ad un giudizio reiterato fino alla nausea di incapacità e criminalità degna del plotone di esecuzione (comprensibile se proferito dai soldati in prima linea, meno da uno storico a distanza di un secolo), preferisco quello assai più argomentato di Isnenghi/Rochat, di cui riporto la conclusione (p. 198):
Non ha senso addebitargli la strategia offensiva, gli orrori della trincea, gli esiti deludenti delle grandi battaglie: se si doveva fare la guerra, non era possibile farla diversamente. Gli si deve riconoscere la fermezza nella condotta della guerra e nello sviluppo dell'esercito; ma [...] la fiducia in sé, necessaria per comandare, divenne chiusura e disprezzo verso l'esterno. [...] L'aspetto più negativo (e più triste) [...] fu l'incapacità di rispettare i soldati, oggetto soltanto di repressione e di denunce, non mai di interesse e di riconoscimenti.
Si potrebbe continuare all'infinito, sulla Strafexpedition, su Caporetto, ecc. ecc., ma credo che il senso sia chiaro. Mi soffermo solo su un ultimo aspetto divertente, ovvero una certa idiosincrasia di questo libro per i nomi. Si comincia a p. 54 con il forte di Lucerna (che è invece Luserna, dove tra l'altro l'autore si dimentica di ricordare che anche gli austriaci spararono sui loro soldati all'apparire della bandiera bianca), ma poco prima (p. 50) era spuntato il fucile Metterli (che sarebbe poi Vetterli). A p. 146 compare il generale inglese Thomas Woodrow Wilson, che è il nome dell'allora Presidente degli USA, che diventa William di nome nell'indice finale, e che non compare nemmeno negli altri libri, dove c'è un Henry Hughes Wilson che dovrebbe essere finalmente quello giusto (ma di cui Robertson non era certo il secondo; altro svarione). E terminiamo con un Alessandro Diaz a p. 210 e, alla pagina precedente, con la fine anticipata della guerra: l'8 giugno 1918, a guerra finita... Speriamo che le edizioni successive abbiano corretto almeno queste leggerezze!

Resta giusto il tempo di notare che le considerazioni dell'autore non si fermano alla Grande Guerra; c'è spazio anche per le campagne d'Africa e per l'Italia di oggi, i futuristi, Dario Fo, e chi più ne ha, più ne metta. Riassumo: il libro contiene degli spunti interessanti e riporta fatti che è bene ricordare, ma è un libro a tema, che alla fin fine risulta altrettanto noioso di quelli improntati ad una stolida propaganda ai quali si vorrebbe contrapporre.

lunedì 8 novembre 2021

Ristorante Belvedere

Tortelli di zucca
Faraona al forno alle olive
Torta morbida al cioccolato e amaretti
Loc. Santa Lucia ai monti 12
Valeggio sul Mincio (VR)

Dal punto di vista gastronomico, Valeggio è conosciuta per la pasta ripiena, ed assai numerosi sono i pastifici ed i ristoranti dove la si può gustare. A ciò dovremmo aggiungere il vino coltivato nelle colline moreniche dei dintorni, parte delle DOC Custoza e Bardolino, ed ovviamente la vicinanza con la Valpolicella. Trovandoci a transitare per la zona, decidiamo quindi di fare una breve deviazione e ci dirigiamo al ristorante Belvedere. L'ora e la stagione ci impediscono di gustare il panorama richiamato dal nome del locale, e non ci resta che accomodarci direttamente al tavolo.
Il locale è accogliente e sembra un misto tra tradizionale e moderno, con i pavimenti in graniglia ed alcuni muri con mattoni a vista, ed altri particolari come il soffitto o i faretti che non sempre si intonano perfettamente. Qualche quadro ci ricorda che siamo nella zona delle battaglie risorgimentali, purtroppo non molto fortunate per le truppe italiane. La cucina è quella caratteristica del territorio (poi c'è la fiorentina, ma è un peccato veniale...), con predilezione verso le carni. Sette-otto scelte per portata.
Iniziamo con un antipasto di carne salata con fagioli (purtroppo non fotografata per via della fame che ce l'ha fatta sbranare) davvero delicatissima; così tanto che me la sono mangiata senza nemmeno un filo d'olio di condimento!
Tra i primi la fanno da padrone i tortelli, declinati in brodo, burro e salvia, e di zucca, o in alternativa i classici bigoli. Io non resisto alla tentazione dei tortelli di zucca in brodo, con una sfoglia sottilissima, molto gustosi e piacevoli.
La lista dei secondi piatti include il pollo alla griglia (pare sia una specialità del posto), la classica carne di cavallo, e del manzo. Io però mi oriento su un piatto che non mangio molto spesso, ovvero una faraona al forno con olive. Ottimamente cotta e molto saporita, è un'ottima alternativa ai piatti più comuni.
La proposta dei dolci include una torta di mele, millefoglie, gelati e sorbetti. Io scelgo una torta morbida al cioccolato ed amaretti molto buona, che conclude degnamente la cena.
La cantina è ben fornita, e ruota ovviamente attorno ai vini della zona e della Valpolicella. Scegliamo due Ripasso (Monti Gabri di Tenuta S. Antonio e I quadretti di La Giaretta), troppo forti per i tortellini ma ottimi con le carni... e del resto, chi poteva sapere all'inizio che avremmo scolato due bottiglie in tre, quando tutti i commensali si sperticavano in affermazioni del tipo: io bevo solo un bicchiere...

Il conto: 188 € per
2 antipasti
3 primi
3 secondi
2 contorni
2 dessert
1 caffè
1 bottiglia di acqua
2 bottiglie di vino (44 €)
2 grappini (9 €)

giovedì 4 novembre 2021

Alto Adige DOC Pinot noir 2013 Alois Lageder

Alto Adige e Pinot nero sono un connubio classico, fatto da un territorio bellissimo, con montagne da scalare, terme con Aufguss da frequentare, borghi da visitare, cucina e vini da assaggiare, e da un vino che qui ha trovato, senza nulla togliere alle pregevoli realizzazioni che spuntano sempre più numerose nella penisola (e ovviamente altrove), una patria d'elezione.
Tra i numerosi Pinot noir altoatesini degni di nota, spicca quello della cantina di Alois Lageder, che produce vini da una novantina di anni circa, e che da diversi decenni lavora in regime biodinamico i vigneti di proprietà, raccogliendo inoltre le uve da diversi viticoltori della zona.
La produzione riflette il territorio, con i classici Pinot bianco, Chardonnay, Traminer, Sauvignon, e gli immancabili Lagrein, Schiava, e ovviamente Pinot noir. Di quest'ultimo, la cantina produce tre esemplari: la linea base, il Mimuet, ed il Krafuss (parzialmente affinato in barriques). La versione base compie la macerazione in acciaio ed affina per 12 mesi in botti grandi e cemento.
Il Pinot noir non è vino da grande invecchiamento, ma otto anni sono un tempo ragionevole, ed apro la bottiglia senza indugi, ricordando la prima volta che assaggiai questa etichetta in un ristorante della Val di Fassa. Il colore è il classico rosso rubino, invitante, cristallino, con solo qualche riflesso granato.
Al naso si sentono piacevolmente i caratteristici frutti rossi, ma è all'assaggio che sembra quasi di bere il territorio altoatesino, con tutto il suo fruttato e delle note speziate e di terra, di sottobosco. Tannini morbidi, rotondi, in buon equilibrio, per un vino ancora fresco e piacevolissimo da bere, con una buona persistenza. Uno dei migliori Pinor nero dell'Alto Adige!

Gradazione: 13°
Prezzo: 14 €