martedì 26 maggio 2020

La scena americana

di Henry James
Mondadori, Milano, 2001

Il fiume Hudson, nella quiete del vespro, sembrava proiettarsi all'indietro, con mano amica e un po' goffa, fino alla prima immagine della mia coscienza. Molta acqua era passata sotto i ponti, innumerevoli impressioni s'erano susseguite; eppure lì, nel pulsare dei sensi, un'intera sfilza di piccole cose dimenticate riprese vita, cose intensamente hudsoniane, più che hudsoniane; piccole eco, toni e luci addormentate, piccole scene e suoni e essenze che per un'ora furono capaci di far tornare una persona altrettanto piccola: di farla risalire lungo il resto del fiume - e davvero quello era il fiume della vita - come un pellegrino che vagabonda incantato, su un primitivo battello a vapore, fino a una dolce, medievale Albany.
Vi è mai capitato di tornare dopo lungo tempo in un posto che conoscevate bene e trovarlo radicalmente cambiato? Di capire che ormai quel luogo non vi appartiene più (e viceversa)? Questo è quello che succede ad Henry James: nato a New York nel 1843, inizia la serie dei lunghi viaggi in Europa intorno al 1870 (ma vi era già stato da ragazzo con la famiglia), spostando gradualmente il suo baricentro nel vecchio continente. Si trasferisce a Londra e visita periodicamente Italia e Francia, rientrando fugacemente in USA solo nel 1882, per la morte del padre. Nel 1904-05 vi torna di nuovo, stavolta per dieci mesi, e registra le sue impressioni in questo libro. Ma non pensate di leggere un (corposo) diario di viaggio; non in senso classico: da un lato, il diario è diviso in capitoli e in sezioni che tracciano la geografia degli spostamenti di HJ lungo la costa atlantica; dall'altro, come spiega l'autore nella Prefazione, il suo interesse è per la scena umana e l'atmosfera sociale del "suo" Paese. Dietro le quinte fa capolino l'intenzione più o meno esplicita di confrontarsi finalmente con la propria identità americana, di dire addio definitivamente ad una nazione che ormai non riconosce più come sua.

Il viaggio parte da Hoboken e, dopo una fugace visita a New York, punta a nord. In questo primo capitolo James è particolarmente affascinato dalla Natura, che descrive peraltro in termini pittorici: l'autunno è un pittore imprigionato, bohémien dalla giacca rugginosa (p. 23), le scene sono dei quadri, l'Arcadia del New England è assimilata ai trionfi più tipici della "scuola" paesaggistica americana (p. 25). Natura "femminile" accomunata a quella italiana (non a caso: lì l'elemento pittorico e artistico trasfigura - o dovrei dire trasfigurava - la Natura in modo ben maggiore), meritevole di una convivenza con l'uomo, e non di uno sfruttameno valutabile meramente in biglietti verdi più o meno unti (p. 28). La Natura del New England rappresenta chiaramente la quintessenza della Natura americana per HJ, che ritrova il paragone con l'Italia nelle poche note relative alla California (peccato che della visita di HJ nell'ovest degli USA non sia rimasto un diario). Curiosa la nota sulla (presunta) tendenza degli americani ad affibbiare nomi comuni ad elementi naturali di rara bellezza.

La scena cambia radicalmente nei capitoli successivi, a partire dai quattro dedicati a New York, la città natale che HJ non riconosce più. New York è in crescita tumultuosa, sia dal punto di vista edilizio che demografico, ed entrambe queste cose spaventano James. Al tempo della sua precedente visita a New York, una ventina di anni prima, l'edificio più alto della città era ancora la Trinity Church: ora ve n'è almeno una decina che la sormontano. In questi antenati dei moderni grattacieli (il Flatiron fu terminato nel 1902) HJ vede solo la risposta ad esigenze di mercato, ad onta di ogni criterio estetico: una finestra sopra l'altra, a ogni costo, è una condizione che non s'accorderà mai a nessun tipo di grazia costruttiva (p. 107). Ma non ci sono solo i detestati aspetti commerciali, l'ossessione del guadagno, la volontà di crescere, di crescere a scapito di chicchessia e di qualunque cosa (p. 62); i proto-grattacieli rappresentano per HJ il simbolo del ripudio del passato e della sua idea di bellezza "eterna", sostituito dalla smania di demolire per costruire qualcosa che sarà a sua volta demolito quando le esigenze di un maggior guadagno lo richiederanno (questa produzione continua si applica anche nel campo letterario e sconvolge James). Oltre che a New York, colossale pettine rovesciato all'insù e privo di una buona metà dei suoi denti (p. 153), la distruzione del passato inseguirà James a Boston, e in tutti i luoghi della sua giovinezza.

L'analisi sui grattacieli è solo un aspetto del ripudio della modernità con le tasche piene di soldi (p.170): la smania di acquistare oggetti e la preferenza patologica per gli atteggiamenti gregari (p. 203; oggi diremmo: massificazione) sono altri bersagli di HJ, insieme ad una memorabile pagina sulla religione dell'ascensore e alle descrizioni degli hotel, dal Waldorf Astoria di New York al Royal Poinciana a Palm Beach, indicati come esempi della negazione di ogni privacy, di un mondo di promiscuità e ipocrisia, che culmina nell'inquietante visione di un tutto che è come dominato dalle gigantesche braccia protese di un direttore d'orchestra che, piazzato su in alto, agita la sua bacchetta (p. 118).

Ci sarebbero decine di aspetti da commentare, perché ogni pagina trasuda un'acuta intelligenza della società di allora, dalla democrazia americana (che HJ ammira: ricordiamoci che ai primi del 1900 l'Europa era ancora piena di testoni coronati, e che parecchi resistono incredibilmente ancora oggi...) al ruolo della donna ai rifugi nelle librerie, biblioteche e università. Ma vorrei limitarmi ad un paio di punti. Il primo riguarda gli immigrati: al rientro a New York, HJ vi trova una popolazione che è quattro-cinque volte quella della sua partenza. La visita ad Ellis Island provoca sgomento di fronte alle condizioni degli immigrati che sostano imploranti e in attesa, schierati, inquadrati, divisi, suddivisi, selezionati, setacciati, perquisiti, affumicati per periodi più o meno lunghi (p. 95), ma presto la riflessione di James si sposta su un altro piano: quale sarà l'effetto di questa ondata migratoria sugli USA e sulle capacità di assimilazione del paese? Quale significato [...] si può continuare a dare a un'espressione come il carattere "americano"? (p. 134). Nel concreto, pur non mancando la curiosità, James resta lontanissimo da questi immigrati, di cui deplora l'imbarbarimento dei costumi e l'impossibilità di stabilire una connessione, quasi che gli immigrati italiani cui spesso si riferisce fossero in USA come lui, a visitare il paese dando conferenze ben pagate, e potessero comportarsi in accordo all'immagine costruita nei suoi lunghi soggiorni di ricco americano in Italia. Anche gli immigrati ebrei raccolgono curiosità, ma non molte simpatie; anzi: James lamenta la conquista ebrea di New York notando che la minaccia è sempre quella della quantità (p. 146).

L'ultimo commento è relativo agli stati del sud. Nel suo viaggio verso la Forida, verso la latente poesia del Sud (p. 393), HJ si ritrova nel cuore degli stati Confederati, ed il fantasma della guerra civile (terminata nel 1865) macchia qualunque prospettiva: stavo gustando l'amarezza stessa della visione, immensa, grottesca e sconfitta: la visione bizzarra, fantastica e oggi patetica, nella sua follia, di un enorme Stato schiavista (p. 397). I musei e la mitizzazione della Confederazione gli appaiono patetici perché se è questione di una leggenda da dissotterrare dal deposito della storia, allora il deposito dev'essere profondo abbastanza da rivestirla di una patina e da lasciarla sedimentare (p. 409), mentre il giovane "fanatico" sudista incontrato al museo è liquidato con un giudizio che non lascia scampo: la sua coscienza, in assenza di quella sua fantastica passione platonica, sarebbe stata  misera e spoglia. Con quale altro disegno, escluse le posizioni personali, avrebbe mai potuto decorare le sue mura disadorne? (p. 415; questi ultimi due giudizi si attagliano perfettamente ai nostalgici di un certo passato del nostro Paese). E tuttavia, anche qui, i toni dichiaratamente contrari alla schiavitù non si accompagnano a molta comprensione per gli afroamericani, più o meno relegati al ruolo di servitori neanche troppo bravi (l'inveterata inettitudine della razza nera in genere ad un servizio del pubblico di benché minima efficienza; p. 401).

Infine, una nota sulla prosa, sempre ricercata e che richiede costante attenzione per non perdere il filo dei pensieri di James, che preferisce evitare di andare "dritto al punto" per indugiare, suggerire, lasciar intuire il significato. Da segnalare anche l'ottima introduzione al volume di Ugo Rubeo, corredata da una cronologia della vita e opere di HJ e da una ricchissima bibliografia.

domenica 3 maggio 2020

Sui campi di battaglia

AA.VV.
Touring Club Italiano, Milano, 1927-1929


Oggi può sembrare un po' insolito, ma già poco tempo dopo la fine della Grande Guerra, quando le ferite inferte agli uomini e al paesaggio erano ben lungi dal rimarginarsi, si sviluppa in Europa un vero e proprio turismo di guerra. Inizialmente sono i reduci o i loro famigliari a visitare i luoghi della guerra, poi la necessità di far rinascere le zone devastate dal conflitto stimola un turismo più ampio. L'Italia non ne è indenne, anche perché da noi è presente una motivazione addizionale: rafforzare il sentimento nazionale facendo conoscere agli italiani le nuove regioni acquisite. Nel 1919 e nel 1920 il TCI organizza i primi pellegrinaggi nelle zone di guerra, e sempre in quegli anni escono le prime guide.
Con l'approssimarsi del decennio dalla vittoria, il regime che governa l'Italia, travestito da erede delle istanze nate dopo il conflitto, dà nuova linfa a questo turismo, declinandolo in chiave celebrativa e nazionalista. Inoltre, le mutate condizioni economiche fan sì che si assista ad una ripresa del turismo individuale, che necessita di opportune guide. In quest'ottica il TCI, nel biennio 1927-29, pubblica la fortunata serie di guide turistiche Sui campi di battaglia. Introdotta dal volume La nostra guerra (che è però pubblicato dopo), la serie consta di cinque volumi, a cui si aggiungerà (nel 1931) quello su I soldati italiani in Francia, qui omesso. I volumi avranno svariate ristampe e fino a cinque edizioni.
La struttura dei volumi è identica: uno scritto autografo e fotografia di un comandante d'Armata, tre parti relative al terreno, gli avvenimenti e gli itinerari. A partire dal terzo volume compare una sezione con l'elenco delle medaglie d'oro, prima inserito negli Avvenimenti. Numerose (belle) fotografie accompagnano le descrizioni.

Il medio e basso Isonzo (1927)
Il cimitero degli Invitti a Redipuglia.
Il primo volume, Il medio e basso Isonzo, è del 1927, redatto da Italo Gariboldi, Nicola Gavotti e Nino Villa Santa (nelle prime due edizioni si parla di campi del medio e basso Isonzo; poi lo stile si uniformerà). Già l'introduzione fa capire il registro della narrazione:
Socchiudi gli occhi e ti parrà di veder splendere in alto, in vetta al S. Michele, una immensa Croce fulgente: è la Croce del sacrifizio di duecentomila fratelli tuoi che qui si immolarono per la Redenzione della Patria.
Questo fastidioso ammantare di religiosità il macello del Carso, i fanti descritti umili e grandi come i martiri di Cristo (p. 22), si ritrova un po' ovunque nelle narrazioni dell'epoca, ed ha ovviamente una funzione politica (del resto anche oggi c'è chi fa politica sventolando il rosario o recitando preghiere in televisione): conviene abituarcisi se si vuole proseguire la lettura.
Dopo lo scritto un po' a zampa di gallina del duca d'Aosta (la sua fotografia svolazza sulla pagina; dettaglio che sarà sistemato nei volumi successivi) e quattro paginette sul Terreno, il capitolo degli Avvenimenti si limita alla presa di Gorizia e del Sabotino (sarebbe stato oltremodo scomodo narrare le altre battaglie dell'Isonzo, con irrisori guadagni territoriali costati un'enormità di vite umane, anche se forse la conquista della Bainsizza avrebbe meritato una menzione), mentre a fine 1917 si è vinti non da nemico, ma da oscuro destino (p. 49). A p. 40 si entra nel vivo, con l'itinerario che da Trieste porta a Gorizia e al Sabotino. Alcune strade difettano di manutenzione e i segni della guerra sono ancora ovunque:
Occhieggiano stanchi e spiccano qua e là ruderi di costruzioni guerresche, resti di baracche, avanzi di trincee, resti e rottami metallici, segni di schianto e distruzione. Ma la vegetazione spontanea e l'opera dell'uomo tendono, anno per anno, a coprire e cancellare i ricordi della guerra. (p. 57)
Si insiste infatti sui paesi ricostruiti, sui campi coltivati, sul ritorno alla normalità. Incredibile la quantità di cimiteri militari, spesso molto spogli e semplici, che culmina nell'impressionante vecchio cimitero di Redipuglia (cimitero degli Invitti), nudo e brullo, ornato da cimeli di guerra, filo spinato, e dalle lapidi di D'Annunzio e di Antona-Traversi, che sarebbe autore delle epigrafi più indovinate e toccanti (p. 53; alcune invero sono terribili). Com'è noto, il cimitero fu purtroppo smantellato e trasformato in parco delle rimembranze con la costruzione del nuovo sacrario di Redipuglia (di Greppi/Castiglioni, 1938), dove i caduti furono traslati. Analoga sorte toccò all'angosciante cimitero degli asfissiati a Poggio Terza Armata e al cimitero Achille Papa (o dei quattro generali) di Oslavia. Si sale poi al S. Michele, dove la lapide della Cima 3 restituisce un po' di umanità: Su queste cime italiani ed ungheresi combattendo da prodi si affratellarono nella morte. Il giro si conclude al castello di Gorizia, dove si legge del progetto - mai realizzato - di trasportarvi il carro ferroviario che portò a Roma il Milite Ignoto (p. 69), e al Sabotino.

Il Monte Grappa (1928)
Progetto del cimitero monumentale sul Grappa
Il secondo volume, Il Monte Grappa, esce nel 1928, a cura di Plinio Fraccaro e Giunio Ruggiero. L'autografo non può che essere di Gaetano Giardino, comandante dell'Armata del Grappa, che però manco si degna di scrivere una paginetta, riportando invece il testamento di guerra dell'Armata. I toni di questo volume sono più misurati rispetto al precedente... non mancano gli scivoloni come la dolce pianura veneta che il nemico non doveva contaminare o la lapide un po' "militante" della chiesetta di S. Lorenzo (p. 83) ma qui prevale un sentimento di mestizia e di dolore che, se non rinuncia a toccare i tasti della retorica, lo fa in modo meno smaccato, come nel finale dell'Introduzione:
La neve cadde subito sul campo di battaglia e ricoprì del suo manto gli orrori della lotta. Molti tuoi fratelli, o Visitatore, sono rimasti lassù: molti, a migliaia e migliaia. Tu vedrai le loro tombe, i cimiteri nei quali furono composti in pace, nel silenzio verde delle valli. Su un grandissimo numero di tombe non c'è neppure un nome: tombe di eroi oscuri, di militi ignoti; su queste tombe sosta e medita più a lungo, o Italiano. Chi ti è più fratello di quell'Ignoto, chi più di lui è simbolo del sacrificio senza limiti per la Patria? Bacia questi sassi e queste zolle, e sia largo il tributo delle tue lacrime e della tua riconoscenza a Chi tutto diede per te.
Anche sul Grappa molte tracce della guerra sono sparite, ma a differenza delle zone di pianura la ricostruzione si è limitata a qualche malga o punto di ristoro, lasciando evidenti segni sul terreno (pp. 13 e 18):
per vari anni, dopo la guerra, i tronchi dei pini morti, lacerati, sfondati dai proiettili, si ergevano sui dossi dando l'impressione di un enorme cimitero e nonostante il rastrellamento [di materiale], non è raro trovare ancora qualche proiettile di artiglieria inesploso o qualche bomba a mano.
Interessante la descrizione del progetto del cimitero monumentale (da p. 68), iniziato nel 1925, da realizzarsi completamente in cripta sotto la cima. Dopo aver scavato la cripta e uno dei poggi di uscita, il progetto sarà abbandonato, insieme al monumento soprastante (vedi foto), ed il nuovo sacrario sarà poi realizzato da Castiglioni e Greppi, gli stessi del sacrario di Redipuglia. Lì saranno poi traslate la madonnina e la tomba del gen. Giardino.
La guida presenta in pratica un singolo itinerario, coincidente con la strada Cadorna, e molte escursioni che si dipartono da essa (le altre vie di salita sono descritte più sommariamente). Bisogna un po' arrangiarsi, se è vero che attrezzatura turistica non esiste quasi, degna di questo nome, almeno per ora, e che alcune strade sono percorribili solo dai carretti di montagna degli abitanti, che peraltro danno di solito volentieri ospitalità nei fienili (p. 74). Saliamo e passiamo il giro della morte, una curva particolarmente esposta all'artiglieria a.u. (che a loro volta avevano battezzato valle dei morti la val Cesilla, attraverso cui salivano alle prime linee tra Pertica e Asolone, p. 117). Impressionante la nave del Grappa, irta di cannoniere e feritoie, con serbatoi d'acqua e viveri, gruppi elettrogeni, ventilatori e tende contro i gas asfissianti (p. 65). La guida ammonisce che di solito si visita solo il primo tratto, situazione che - se ben ricordo - è valida ancora oggi.

Il Trentino, il Pasubio e gli altipiani (1928)
Le rovine di Asiago.
Il terzo volume tratta de Il Trentino, il Pasubio e gli altipiani, ad opera di Mario Berti, Amedeo Tosti e Oreste Ferrari. Da qui in poi i volumi prendono consistenza, superando le 200 pagine. Il bordo, bianco nei precedenti volumi, riporta il titolo. Non vi è anno di edizione, ma nelle righe iniziali si parla della pubblicazione che esce anch'essa in luce [...] nel decennio della Vittoria, lasciando supporre un'edizione a fine 1928 (a pag. 149 si cita una rivista di settembre 1928). Anche la quarta di copertina, che lo colloca prima del volume sul Piave, è compatibile con questa data. L'autografo (del settembre 1928) è di Guglielmo Pecori-Giraldi, comandante della prima Armata.
Anche in questo volume i tono retorici sono più misurati; si limitano a qualche riferimento al "confine assegnatoci da Dio" (nell'Introduzione), all'abusato trittico calvario/stazioni/supplizio (p. 79, a proposito di Cesare Battisti) e pochi altri. La ricostruzione storica si barcamena qua e là, soprattutto nella velleitaria controffensiva seguita alla Strafexpedition, dove si legge (p. 33) che vantaggi considerevoli furono conseguiti [...]; non si poterono tuttavia compiere progressi rilevanti, il che appare come una sonora contraddizione. Anche qui, se ci si allontana dalla pianura dove la vegetazione ricopre col suo verde manto le gravi ferite e i segni della grande lotta (p. 54) e si sale sulle montagne si ritrovano numerosi i resti della guerra, come sull'Ortigara (p. 188):
il sito è ancora tutto una rovina di trincee qua e là colmate, di camminamenti scoperchiati, di caverne in ruina. Schegge di proiettili e avanzi di reticolati, sfuggiti ai rastrellamenti, sono sparsi ovunque. Nell'arida, brulla sassaia affiorano a quando a quando armi, indumenti e resti di scheletri.
Idem sul Colbricon, dove si trovano dappertutto, ancora, ogive e fondelli, bossoli e grovigli di ferro spinato (p. 129).
Cinque gli itinerari principali, relativi a Trentino centrale, occidentale e orientale, Pasubio e Altipiani. Da questi percorsi, che si possono fare in automobile o ferrovia, si snodano una serie di itinerari a piedi per raggiungere le cime. Si inizia con la Valle dell'Adige, passando per Rovereto e giungendo a Trento. Leggiamo così la suddivisione delle sale del Museo della Guerra di Rovereto (ingresso lire 3), con ben due Sale dei Paesi vinti (un po' fantozziane) e con una sciabola (p. 66) destinata dai trentini a Oreste Baratieri e non consegnata dopo Adua, a testimonianza della mutevolezza delle umane fortune. Interessante anche la "visita" al vecchio cimitero-ossario di Castel Dante, che subì purtroppo la stessa sorte di quelli del Carso, soppiantato dal sacrario monumentale.
Si continua per il Trentino occidentale, dove si apprende che la strada da Navene a Torbole non esisteva e si giunge a Riva del Garda (impressionante constatare dalle fotografie la massiccia antropizzazione di questo secolo) e Bezzecca, ove i ricordi si fondono con quelli dei volontari garibaldini del 1866. Salendo al Tonale si incontra il vecchio monumento alla vittoria: interessante notare come la guida specifichi che il monumento fu inaugurato insieme con l'Ossario nel 1924 (p. 105). Ciò indica che sotto il basamento della statua esisteva già un ossario ben prima del 1936-37, data "ufficiale" di costruzione del corrente monumento-ossario riportata praticamente ovunque. Purtroppo la guida non ha un'immagine del vecchio monumento, ma quel che si vede nelle cartoline lascia intuire che tutto l'ossario sia stato ricostruito ex novo, insieme al sovrastante mausoleo, in omaggio ai canoni monumentali voluti dal fascismo. Oggi tutto è deturpato da impianti sciistici, bar, parcheggi e altro.
Giungiamo così al Pasubio, di cui sono illustrate minuziosamente tutte le vie di salita e dove ci sono ancora tombe sulle quali è poggiato un fucile colla baionetta inastata (p. 145; oggi sarebbe rubato in men che non si dica) per poi passare al settore degli Altipiani, dove una serie di itinerari porta sulle cime più note del conflitto. Sarebbe interessante sapere che fine ha fatto la pala d'altare di Maganza (ma quale della numerosa famiglia?) a Rotzo, che gli austriaci asportarono e che non fu più recuperata (p. 169), così come le opere perdute a Gallio. Ma il particolare veramente raccapricciante è la chiesa di Sasso, ove fu trovato crocifisso su un muro un soldato italiano (p. 194). Sarà una notizia affidabile?

Il Piave e il Montello (1929)
Effetto dei bombardamenti italiani sul Piave
Il quarto volume, Il Piave e il Montello, è del marzo 1929, dovuto a Pietro Maravigna, Amedeo Tosti e Carlo Delcroix. Autografo piuttosto illeggibile (e trascritto) del grande Enrico Caviglia, comandante dell'VIII Armata nella battaglia di Vittorio Veneto. Nonostante sia stato pubblicato prima del volume su Carnia e Cadore, la regione delle battaglie decisive della guerra conclude la serie, con l'aggiunta di alcuni capitoli addizionali: i condottieri, gli altri fronti di guerra (Albania, Macedonia, Francia, Russia, Palestina) e tre capitoli sui ruoli di aviazione, marina e guardia di finanza nella guerra. Cominciamo da questi, soprassedendo sui Condottieri (scritto da quell'eminenza grigia di Delcroix), dove leggiamo il ritratto involontariamente comico di Luigi Cadorna dall'occhio fermo e dalla mascella dura, sembra scolpito con il suo cavallo nel granito dei monti materni, che dieci volte stette per afferrare la vittoria e gliene rimasero in mano le penne (p. 142), per passare oltre: più interessanti gli altri capitoli, anche perché relativi a teatri spesso ignorati o quasi dai nostri storici. Non mancano ovviamente le perle, come l'Albania, paese in cui noi avevamo portato la nostra bandiera per contenderlo alla cupidigia degli altri belligeranti (p. 155), ovvero che abbiamo occupato perché non lo facessero gli altri, e sui sentimenti della popolazione, in realtà tutt'altro che benvolenti. D'obbligo poi il riferimento agli intrighi politici e diplomatici [che] costrinsero l'Italia all'abbandono dell'Albania. Ma la parte a me più sconosciuta è certamente quella dei corpi italiani in Russia, lì spediti verso la fine della guerra a contrastare le forze bolsceviche.
Torniamo in casa nostra. Anche qui la ricostruzione storica è un po' di parte e ovviamente non fa cenno alla pessima gestione del gen. Pennella (che sarà silurato e sostituito da Caviglia), che all'efficace azione a.u. sul Montello durante la battaglia del Solstizio risponde (per citare Pieropan) con "faciloneria, presunzione, sottovalutazione dell'avversario", né si menziona la ritirata nemica, di cui gli italiani nemmeno si accorsero, ascritta alla nostra potente azione controffensiva (p. 46). Trascurate completamente anche le azioni di riconquista del basso Piave, protratte fino al 3 luglio. Curiosa la "toppa" applicata a fondo p. 55 con le ricompense al valore alle unità impiegate sul Montello e sul Piave. Da verificare inoltre un'affermazione a p. 197 secondo cui l'aviazione italiana limitava i bombardamenti esclusivamente ad obbiettivi d'importanza militare, mentre il nemico [operava] bombardando città e paesi inermi.
La guida propone due itinerari, al Montello e al Piave. Anche qui si ricorda che (p. 110)
Ora non esistono più vestigia di tanta epica lotta; la vanga e l'aratro hanno trasformato in lussureggiante giardino quello che fu il triste campo della morte; sono scomparse le macerie immense; e i nuovi lindi e spaziosi abitati danno alla regione un senso di gaiezza e di vita novella.
Veramente d'altri tempi la descrizione dei percorsi, con le indicazioni riferite... alle osterie (seguendo la strada che si distacca [...] a circa 150 m dall'Osteria Agnoletti, p. 97) e con i contadini che fanno da guida alle costruzioni di guerra. A p. 91 è menzionata l'intenzione di costruire un ossario sul Montello, che troverà compimento nel 1935. Non mancano i piccoli cimiteri, che subirono la stessa sorte di quelli sul Carso. A Giavera è però rimasto il cimitero inglese, e si possono confrontare le iscrizioni: nel vecchio cimitero italiano si leggeva: Col cuore ardente fino alla morte per la Patria e per il Re o Ai generosi giusta di gloria dispensiera è la morte; in quello inglese semplicemente Their name liveth for evermore. Va bene che questa non era la loro patria, ma il diverso tono la dice lunga sul modo di elaborare la guerra.
Anche l'itinerario sul Piave si apre ricordando le differenze rispetto agli anni di guerra. Tra monumenti e cimiteri si arriva a Zenson (ricompare qui l'Antona Traversi di Redipuglia con i suoi versi melensi - cimitero poi smantellato) e a Capo Sile, dove si ricordano
I Caduti di ambedue gli eserciti nella titanica lotta, forti nel tenere gli uni, eroici nel riscattare gli altri, egualmente tenaci
per proseguire fino a S. Donà di Piave con il suo museo di guerra (oggi museo della bonifica) con qualche macabro cimelio (si ricordano qui i legionari cecoslovacchi, che combatterono con l'Italia, caduti in mano a.u. e - parola orrenda ed impropria - "giustiziati").
Concludo con il finale dell'Introduzione, laddove, dopo aver ricordato le gesta che sembrano leggenda dei nostri soldati si dice
Un giorno - lontano? domani? chi sa! - sarai forse chiamato ad emularle; e il nostro popolo, quando l'ora sarà suonata, scriverà una pagina ancor più fulgida della sua storia.
A parte la fosca profezia, si vede qui la genesi infausta del mito del nostro esercito e della nostra potenza militare, che tanti disastri avrebbe causato!

Il Cadore, la Carnia, l'alto Isonzo (1929)
I monumenti sul Monte Nero.
Giungiamo quindi all'ultimo volume relativo al teatro di guerra italiano: Il Cadore, la Carnia, l'alto Isonzo, dell'agosto 1929, a cura di Carlo Sassi, Costantino Cavarzerani, Mario Danioni e Amedeo Tosti. Il volume è sostanzialmente diviso in tre parti, con due autografi, di Mario Nicolis di Robilant (comandante della quarta Armata, di cui non c'è nemmeno un fotografia, sostituita da un ritratto) e Giulio Cesare Tassoni (comandante della Zona Carnia), mentre ovviamente nessun generale è chiamato a rappresentare la zona dove ci fu lo sfondamento di Caporetto. Questo volume è più "defilato" rispetto agli altri, perché manca di eventi "eroici" e "gloriosi" da raccontare... niente grandi vittorie, niente grandi battaglie difensive (anzi!), niente luoghi-simbolo da visitare. Di conseguenza, e tranne poche eccezioni, il tutto sembra più una guida turistica "classica", a cui fanno da contorno le zone di guerra. Ma andiamo con ordine.
Si inizia con il Cadore. C'è solo un vaghissimo accenno alla lentezza e debolezza della nostra azione offensiva all'inizio delle ostilità, che permise agli austriaci di rafforzarsi sulle posizioni prescelte (Perduto il momento forse propizio [...], p. 46), ma certo qualche dubbio viene quando si legge ad es. (p. 31) che l'avversario [...], il giorno 10, riusciva a sorprendere il nostro debole presidio sull'importante osservatorio di monte Peralba. Che ci fa un "debole" presidio su un punto "importante"?
Gli itinerari di questa zona percorrono la superba zona delle amatissime Dolomiti, ed è per me un piacere leggerli solo per questo. Dai percorsi principali si staccano numerose escursioni a piedi, e si inizia confortando il visitatore ricordandogli che alla fine di ogni sua escursione troverà sempre modo di raggiungere rifugi o alberghi muniti di sufficiente conforto (p. 47). Interessante la menzione del percorso Forcella Lavaredo - Forcella Passaporto - Monte Paterno - Forcella Toblin, imponente lavoro di guerra purtroppo caduto in abbandono [che] meriterebbe di essere ripristinato e conservato (p. 64; oggi il sentiero attrezzato è fruibile) o la visita al cimitero di Pian di Salesei del 1922. Anche qui, del vecchio cimitero rimane solo la cappella, inglobata nel sacrario del 1938, opera del duo Greppi/Castiglioni, mentre sparito è l'obelisco con le lapidi, tra cui quella meritevole di trascrizione (p. 75):
Contro questa barriera che sapeva la storia del tempo non la storia dell'uomo - i soldati dell'81° fanteria superbi negli impeti irresistibili a Valparola, al Sief, tenaci nelle sorti delle battaglie avverse sul Sasso di Stria, a Setsass con l'anima grande dei cavalieri dai superbi ardimenti al Re, alla Patria al tempo offersero la vita che scende dalle memorie e passa all'infinito.
Tra gli itinerari segnalati, mancano però sorprendentemente la Cengia Martini ed il Castelletto della Tofana. Ma saranno stati agibili in quegli anni?

La parte sulla Carnia procede sulla falsariga di quella precedente; notiamo solo il proclama della primavera del 1916 del gen. Rohr a ricacciare il nemico acerrimo, il traditore e spregevole italiano dai confini della Carinzia (p. 107) a dimostrazione che certi toni non erano diffusi solo da noi. Tra i vari luoghi proposti merita attenzione la zona del Pal Piccolo (la descrizione della strada per il passo di Monte Croce Carnico non corrisponde a quella attuale; probabilmente fu sistemata nel dopoguerra) e Pal Grande, che era proprietà privata, se la guida nota che il proprietario della montagna [...] riuscì con ingenti lavori di sistemazione ed imbrecciamento a riparare al guasto [provocato dalla guerra]. Non manca una nota polemica sui recuperanti, la cui opera vandalica (p. 132) devasta le opere belliche (ma per i poveracci che erano costretti a fare questo mestiere si trattava di sopravvivenza, non di turismo!). Da verificare (per me, almeno) le condizioni delle gallerie di guerra (una definita bellissima) sul monte Dimon (p. 134) e quelle dei lavori sulla cima di Cul di Creta (p. 138), sperando che le rotabili siano migliorate e non procedano più sospese su mensole in corrispondenza di precipizi (p. 181).

Si arriva così all'Isonzo. Fin troppo dettagliata la parte geografica, dove non manca un capitolo su L'italianità dell'Alto Isonzo, che sottolinea il carattere romano-latino della regione. Tra gli Avvenimenti andiamo subito all'offensiva dell'ottobre 2017: pur riconoscendo che la nostra linea era manifestamente debole (p. 225; e chi doveva provvedervi se non i generali?) e risparmiandosi per fortuna la "deficiente resistenza di alcuni reparti della Seconda Armata" dell'ignominioso comunicato del comando supremo, la guida non manca di sottolineare (p. 227) l'incognita rappresentata dallo spirito delle truppe e la subdola propaganda dei partiti politici contrari alla guerra, che faceva giungere la sua voce sino alle spalle dell'esercito, elemento del tutto inesistente, ma una volta di più funzionale alla propaganda di regime. Ma, se l'esercito si ritira (p. 190)
Rimanevano, dietro le ferrigne linee dei reticolati, quali indistruttibili tracce del sacrificio delle nostre truppe, i nostri innumerevoli cimiteri di eroi, schierati come riserve dell'ultima ora, sul rovescio dei campi di battaglia.
Gli itinerari di visita sono abbastanza sommari, con l'eccezione del Monte Nero, dove si descrive il rifugio-monumento "Vincenzo Albarello - Alberto Picco", che fu purtroppo distrutto dagli jugoslavi nel 1951. Sul monte poi, si verificava (p. 194) il fenomeno dello sprigionamento di cariche elettriche e di fiammelle dai reticolati e dalle baionette, il che valse al monte il pauroso nome di "Monte delle folgori". Oggi la fequentazione è assai più incruenta; si osserva ancora il fenomeno?

Alla fine di questa lunga visita sul fronte italiano della Grande Guerra resta l'impressione dell'enorme sforzo compiuto dal Paese e delle enormi difficoltà contro cui i soldati dovettero combattere. Al di là delle vuote celebrazioni di regime e degli intenti spesso celebrativi per cui furono realizzati, tutti i sacrari, monumenti, e giù giù fino alle lapidi, iscrizioni o semplici scritte - la cui conservazione è opera meritoria - testimoniano dei sacrifici compiuti, che non andrebbero dimenticati.