giovedì 26 marzo 2020

L'anno 3000. Sogno

di Paolo Mantegazza
Lubrina, Bergamo, 1988 (1a ed. Treves, 1897)

Quei giganti neri, che vedi galleggiare nel Golfo, sono le antiche corazzate, che rimasero incolumi in quel giorno terribile. Ogni nazione d'allora vi è rappresentata: ve n'è di italiane, di francesi, d'inglesi, di tedesche. Oggi si visitano come curiosità da museo e domattina ne vedremo qualcuna. Vedrai come in quel tempo di barbari, ingegno e scienza riunivano tutti i loro sforzi per uccidere gli uomini e distruggere le città. E figurati, che uccidere in grande era allora creduta gloria grandissima e i generali e gli ammiragli vincitori erano portati in trionfo. Poveri tempi, povera umanità!
Le utopie fin de siècle (o forse le utopie in generale) lasciano oggi un po' a desiderare. Da un lato, i futuri progressi scientifici e tecnologici immaginati a fine Ottocento hanno altissime probabilità di essere stati superati dalla realtà dopo poco più di un secolo; dall'altro, le strutture sociali solitamente descritte appaiono oggi del tutto irrealistiche e iper-semplificate. Questa la sensazione che assale leggendo questo libro. La trama è un pretesto: narra del viaggio di Paolo e Maria verso Andropoli (capitale degli Stati Uniti Planetari) dove celebreranno il loro "matrimonio fecondo". Durante il viaggio, i due visitano i centri tecnologici, politici, artistici e sociali del mondo, che vengono spiegati in maniera assai petulante da Paolo ad un'ottenebrata Maria in una serie di "Vedi, Maria,..." che provocherebbero sonori schiaffoni se indirizzati alle fanciulle di oggi (figuriamoci a quelle del 3000).
Se prendiamo le anticipazioni di Mantegazza sul serio, c'è di che annoiarsi. Le (pre)visioni tecnologiche sono poco interessanti: l'autore ne sa poco, e la mia impressione è che spari un po' nel mucchio, indovinando qualche cosa (aeroplani - ma era facile -, distribuzione centralizzata di energia - di origine alquanto fantasiosa -, e una specie di "realtà aumentata" ante litteram che esalta le sensazioni durante uno spettacolo teatrale), ma vada largamente fuori bersaglio altrove (niente esplorazione spaziale - e sì che Dalla Terra alla Luna di Verne è del 1865 -, gli scienziati del 3000 intenti a perfezionare il telescopio sperando di poter vedere gli abitanti di Marte o Venere)... d'altronde, il telegrafo era il mezzo di comunicazione più avanzato dell'epoca (il telefono era giunto in Italia solo pochi anni prima), e l'autore si immagina una civiltà riempita di fili elettrici peggio che la New York degli anni '20, senza possibilità di vaticinare quello a cui il brevetto di Marconi, ottenuto proprio nel 1897, avrebbe portato.
Le cose vanno un poco meglio in ambito medico/fisiologico, dove gli interessi di Mantegazza sono maggiori: strumenti capaci di "vedere" l'interno del corpo umano e di prevederne le malattie, alimenti sintetici, anche se non mancano gli svarioni: vita media di 60 anni, niente farmaci ma cure basate su "un buon regime respiratorio e alimentare".
Veniamo così agli aspetti sociali e politici, che possiamo al meglio dire ingenui: in omaggio al neopositivismo dell'epoca, e probabilmente tutt'altro che all'oscuro delle teorie lombrosiane (L'uomo delinquente fu pubblicato nel 1876), i criminali sono identificati ed eliminati alla nascita (la stessa cosa avviene per i neonati che saranno affetti da patologie giudicate incurabili), lasciando così pochi casi marginali che sono processati all'istante da un gruppo di persone... l'esempio del bimbo che ruba un'arancia al mercato dovrebbe illustrare questo "progresso", ma viene da chiedersi cosa il Mantegazza, allora senatore, pensasse dello scandalo della Banca Romana del 1892-94 e di quelli che oggi chiamiamo i white-collar crimes. Da morir dal ridere, poi, il problema che assilla il "genio più alto di tutto il mondo", ovvero quello di "sapere fin dove la donna possa accompagnar l'uomo negli studii superiori" (p 85)!
L'unica soluzione, a questo punto, è di leggere il libro senza prenderlo troppo sul serio, il che è probabilmente consono con lo spirito dell'autore. In fondo ogni libro, anche e soprattutto se di "fantascienza", ci parla del suo presente, e questo non fa eccezione: Mantegazza è un convinto conservatore in ambito sociale (ma piuttosto liberale sul piano sessuale), e proietta nel futuro la sua visione del presente. La stessa cosa si può dire per la visione sull'arte (impressionismo e decadentismo sono "una vergogna dell'antica arte italiana") e l'organizzazione politica, dove però la parte sull'Isola degli Esperimenti è tra le poche godibili del libro.

Da segnalare l'arguta introduzione di Alberto Capatti che evidenzia una genesi terapeutica del libro, anche in relazione al premio finale consegnato al decisamente poco modesto Paolo, alter ego dell'autore.

mercoledì 25 marzo 2020

Calabria Igp Magliocco 2017 Ferrocinto

La forzata inattività di questo lungo periodo casalingo ha qualche lato positivo: aumentano sia le letture che le degustazioni, per quanto solitarie. Ho così l'occasione di tornare (enologicamente) in Calabria e di aprire, stavolta senza aspettare decenni, questa bottiglia. Il Magliocco è uno dei vitigni autoctoni della regione, particolarmente diffuso nel cosentino, e che ha conosciuto una giusta riscoperta in tempi recenti. La realizzazione di Ferrocinto, cantina del Pollino, affina in acciaio per sei mesi, evitando le barriques in cui purtroppo spendono parecchio tempo altri vini della cantina, come il Magliocco del Terre di Cosenza o l'Aglianico. La cantina ha poi una piccola produzione di vitigni internazionali che mi lascia un po' perplesso, ma amen...
Il colore è rosso con un po' di riflessi violacei; al naso si colgono note di ciliegia, molto evidenti all'assaggio. Un po' troppo insistente la polpa, quasi debordante, sospinta anche dai 14° che si sentono tutti, e sottolineata dai tannini quasi impercettibili. Poi arrivano le note vegetali e soprattutto minerali, terrose, a bilanciare il finale e a far guadagnare bevibilità. Visto il risultato, è un peccato che la cantina non insista di più su questa tecnica di affinamento!

Prezzo: 9 € (GDO)
Gradazione: 14°

domenica 8 marzo 2020

Bergamo-Milano Lambrate: ritardi gennaio-febbraio 2020 (2608/10809)

Fig. 1: Distribuzioni cumulative dei ritardi per il treno 2608 (8:02)
nei bimestri gennaio-febbraio degli anni dal 2015 al 2020.
Fig. 2: Come sopra, ma per il treno 10809 (17:41).
Fig. 3: Andamento mensile dei ritardi per il treno 2608 (8:02).
Fig.4: Come sopra, ma per il treno 10809 (17:41).
Il nuovo anno è iniziato con due notizie certamente non positive: la più drammatica, come tutti sanno, è il rinnovo senza gara del contratto per la gestione del trasporto ferroviario regionale a Trenord (si parla di dieci - dieci!! - anni). Riassumiamo per i distratti: il Fontana (quello della mascherina) già in campagna elettorale si era lamentato del "servizio" di Trenord. Peccato che Trenord sia di proprietà al 50% della Regione che il suo partito governa da decenni, dal che si può dedurre che il Fontana si lamentasse (con piena ragione) contro la sua stessa sciagurata gestione, confidando (anche qui, con ragione) nella cronica amnesia italiana e lombarda. Successivamente, addita l'altro socio, Fs, come responsabile della situazione. E infine... rinnova il contratto! Più di 750000 pendolari esprimono la propria soddisfazione a Fontana per quello che non si può definire altro che una presa per i fondelli; peccato solo che a breve se ne dimenticheranno.
La seconda notizia è squisitamente di servizio: l'orario del treno 10809 è stato modificato nel tratto Lambrate-Bergamo, anticipando la partenza di 2' ma lasciando inalterato l'arrivo. Così l'eccellenza lombarda risolve i problemi di puntualità: se un treno non arriva in orario, cambiate l'orario! Da ricordare poi che nel 2018 il tempo di percorrenza era già stato allungato di due minuti, con la scusa pietosa dell'inutile fermata di Treviglio ovest, e che nel 2016 fu aggiunto un altro minuto. In tutto, cinque minuti su circa quaranta di percorrenza: siamo oltre il 10% in più, e senza risultati!
A fronte di queste minchiate, com'è andata? Beh... uno schifo, ovviamente! La Fig. 1 mostra come al solito la distribuzione cumulativa dei ritardi per il 2608: puntualità a zero (ZERO); ritardo entro 5' per il 41% dei treni. A ben guardare le curve, si vede che il dato è sostanzialmente lo stesso del 2019, (curva arancio) con un tiepido miglioramento nella parte sfigata della distribuzione, ma sempre peggiore del triennio 2015-2017.
Il grosso problema è, come sempre, il 10809 (Fig. 2): nonostante (o forse proprio a causa de) le "illuminate" scelte del gestore, la prima settimana dell'anno si svolge con ritardo cronico di mezz'ora. Inoltre, il treno non arriva praticamente MAI puntuale a Lambrate, ed i due minuti in più servirebbero a recuperare questo ritardo, il che è ovviamente una fesseria: se il problema è a monte, lì dev'essere risolto. Fatto sta che la curva è praticamente sovrapposta al 2015 (ma con due minuti di percorrenza in più): cinque anni buttati nel cesso!
Le Figure 3 e 4 riportano l'andazzo mese per mese di tre grandezze rappresentative: non mi sembra sia cambiato molto. Il 2608 persiste ad essere assurdamente in ritardo di 5', mentre a gennaio 2020 si vede un innalzamento del ritardo medio per il 10809; su questo però pesano le circa due ore di ritardo del 16 gennaio, causato da un gruppo di deficienti, che ovviamente non saranno mai identificati.

Nota: i dati sono raccolti personalmente o da app Trenord. Per correttezza, bisogna specificare che i ritardi sopportati dai pendolari su questi due treni non sono indicativi dei ritardi complessivi, che sta ad altri raccogliere e rendere pubblici. Idem per i rimpalli di responsabilità tra Trenord, Rfi, e quant'altri. Qui si cita Trenord in quanto è ad essa che i poveri pendolari versano biglietti ed abbonamenti, e ai quali dovrebbe rispondere del servizio.

giovedì 5 marzo 2020

Il profondo rispetto dell'Indria

Teo sul 1° tiro.
Sul 2° tiro.
Teo sul 3° tiro.
Sul 4° tiro.
Sul 7° tiro.
Sull'8° tiro.
Teo sul 9° tiro.
Teo sull'11° tiro.
Coste dell'Anglone - Valle del Sarca
Parete E


Indrya è ciò che appartiene ad Indra, una simpatica divinità amante delle donne e delle sane bevute (soprattutto prima delle battaglie); la pagina wikipedia contiene ampia spiegazione del significato, che include facoltà sensoriali, forza fisica e abilità. Noi, che in quanto a forza fisica ed abilità siamo a livello zerbino, ma in quanto a bevute ce la caviamo egregiamente, puntiamo alla via più tranquilla del trittico, Le scalette dell'Indria. Senonché, come spesso accade, incappiamo in due cristiani sul sentiero che condividono la nostra meta, e ci rassegniamo a fermarci alla via precedente. Tutto va bene fino al quarto tiro (il bel diedro della relazione degli apritori, mai tanto vituperati...), dove un diedro liscio, ovvero una delle cose che più aborro quando scalo, mi rovina gran parte del piacere della scalata. Se qualcuno finisse di sistemare le rocce appena a destra con relativa uscita, si guadagnerebbe tutta la mia ammirazione!
Accesso: dipende se volete camminare di più prima o dopo la via. Nel primo caso, lasciate l'auto al parcheggio del campo sportivo di Oltra (da Arco verso Dro, portarsi in centro paese e seguire la via Cesare Battisti, passare il ponte sul Sarca e girare a destra, seguendo le indicazioni). Da qui si prende la traccia che riporta verso Arco fino al ponte di Dro. Non attraversarlo, ma continuare fino ad un sentiero che sale a destra e incrocia una traccia più alta. Seguirla verso sinistra e salire poi verso la parete, raggiungendo l'attacco (scritta).
In alternativa lasciate l'auto a Dro, prima del ponte.
Relazione: via che risale la parete dell'Anglone facendosi strada tra muretti e diedri. La via è piacevole e con dei bei tiri, ma con l'eccezione tutta personalissima del quarto tiro, che non ha incontrato i miei gusti. Chiodatura tutto sommato buona (ma da integrare qua e là), tranne che in due tiri (quarto e dodicesimo) dove è buona cosa avere con sé qualche friend medio. Roccia sempre ottima.
1° tiro: salire lievemente verso destra fino alla sosta. 40 m, IV+; cinque cordoni in clessidra, un fix. Sosta su due fix (uno con anello) e cordino.
2° tiro: salire dritti fino ad un muro verticale lavorato e traversare a sinistra fino alla sosta. 30 m, VI-; cinque cordoni in clessidra,  un fix. Sosta su due fix (uno con anello) e cordino.
3° tiro: ancora dritti fino ad una cengia con corda fissa, dove si traversa a destra e si sosta. 35 m; V+, II; due fix, due cordoni in clessidra, una corda fissa. Sosta su due fix (uno con anello).
4° tiro: salire il diedro a destra della sosta. Dopo un primo tratto, la roccia diviene più liscia: qui è possibile continuare lungo il diedro oppure uscire a destra e salire ad un chiodo, per poi rientrare nel diedro e continuare fino al terrazzo di sosta sulla sinistra. 25 m, VI-; due cordoni in clessidra, un fix, un chiodo con cordino. Sosta su due fix (uno con anello). Il sottoscritto dopo il chiodo ha continuato a salire stando a destra del diedro, ma rientrarvi più in alto è stato decisamente complicato (vi risparmio la descrizione) e questa soluzione non è da consigliare.
5° tiro: portarsi a sinistra e doppiare lo spigolo. Salire prima verso destra e poi a sinistra, superando una placca delicata (stare a sinistra del fix!). Continuare per rocce più facili fino alla cima di un pilastro dove si sosta. 25 m; V+, VI (passo su fix), V; tre cordoni in clessidra. Sosta su due fix (uno con anello).
6° tiro: seguire una rampa verso destra sino alla sosta. 25 m; II, IV; due chiodi (uno con cordone).
7° tiro: traversare verso destra puntando ad un fix con cordone; salire e spostarsi a sinistra sul terrazzo di sosta. 25 m; V, V+; due fix (uno con cordino), un chiodo. Sosta su due fix (uno con anello).
8° tiro: salire il bel diedro fessurato sopra la sosta, spostarsi a destra dopo un breve muretto appena aggettante e proseguire per placche ben appigliate fino alla sosta. 35 m, VI-; sei fix, un chiodo, un cordone in clessidra. Sosta su cordoni su albero.
9° tiro: salire sopra la sosta e traversare verso destra, per proseguire poi in verticale fino ad una cengia. 25-30 m, V; tre fix, due cordoni in clessidra, un chiodo. Sosta da attrezzare su albero.
10° tiro: procedere verso destra sino alla base di una rampa giallastra. 25 m, I. Sosta su un fix con anello.
11° tiro: seguire una rampa/diedro appoggiato fino alla sosta. 30 m, IV+; un fix, un cordino su sasso incastrato. Sosta su un fix e un chiodo con cordone.
12° tiro: salire il diedro fino a dove si apre in una fessura fuori misura (cordino), spostarsi a destra a prendere una fessura più scalabile e salire uscendo dal diedro. Dopo qualche passo su gradini legnosi non proprio naturali, si traversa a destra fino ad una spaccatura (cordino) che si sale fino alla sosta. 30 m; VI, V; tre fix, due friend incastrati, due cordoni su sasso incastrato. Sosta su due fix (uno con anello). Attenzione all'attrito delle corde quando mettete le protezioni.
13° tiro: salire lungo la fessura fin sotto il tetto; qui traversare a destra per placche e salire alla sosta finale. 40 m; V, V+, (passo), V; quattro fix, un chiodo con cordone. Sosta su cordone su pianta.
Discesa: seguire la traccia verso destra (ometti) che immette sul sentiero delle cavre che, seguito in discesa, riporta nei pressi del parcheggio di Oltra. Se avete lasciato l'auto a Dro dovete ovviamente percorrere il tratto di sentiero restante.

Nota: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.