martedì 9 aprile 2024

Interrogatorio della Contessa Maria

di Aldo Palazzeschi
Mondadori, Milano, 2005 (1a ed. 1988)

Non c'è nulla da raccontare, pochissimo da dire, tutto da fare.
No no, non è una svista: la prima edizione di questo romanzo (ovviamente postuma) è del 1988! L'autore ne annunciò la pubblicazione nel 1926, ma cambiò idea e vincolò il manoscritto ad essere pubblicato solo dopo la morte, forse per la poetica, forse per l'argomento: la contessa Maria è una nobildonna che si ribella alle convenzioni famigliari e fugge dall'ambiente ipocrita in cui è cresciuta per dedicarsi alla sua vera passione: gli uomini! E vi si dedica con una notevole dedizione se, interrogata sul numero delle sue relazioni, risponde (p. 22):
Conta duecento numeri nuovi all'anno, perché come tu comprendi, ci sono le repliche, non frequenti del resto, e le riprese, rarissime.
L'iperbole dà la misura del racconto e del carattere della contessa, pervasa da una vitalità prorompente (e dirompente) che si contrappone alla vita ordinaria del narratore-scrittore, il quale la approccia in un bar, animato da pura curiosità e desiderio di conoscenza. Nasce così un'amicizia costellata di domande tra l'ingenuo ed il petulante, e di lapidarie risposte della contessa: l'interrogatorio, appunto.
Dall'interrogatorio emerge la visione del mondo della contessa, giustamente curiosa d'esperienze umane ed altamente dotata per intraprenderle (p. 40), e il suo completo disprezzo per la morale comune (pp. 26-27):
L'uomo ama nella donna la conquista, anche se è solo apparente, la vetrina della propria vanità; la sensualità è inquinata da secoli di coglionerie morali religiose letterarie. L'uomo ama la donna malata [...], isterica, piagnucolosa, ama gli svenimenti, i singhiozzi [...]. Ama la donna bugiarda, l'enigma, la donna finge la sensualità o la nasconde, io sono sincera, risplendente come la luce del sole, mutabile, che può sfuggirgli [...].
La donna è la menzogna, io sono la verità. Ti pare che gli uomini mi possano amare? Essi sono la mia preda, io non diventerò mai la loro.
L'insofferenza per le convenzioni e per i sentimenti in favore della sensualità non è tuttavia amoralità, non è tradimento o mercimonio; Maria si rapporta con gli uomini in maniera del tutto paritaria, perché è solamente dando tutto che si può avere tutto (p. 28), e segue in maniera scrupolosa un suo personalissimo codice (p. 52):
Tu intendi per virtù rinunzia, sacrifizio, mancare alla vita, soffocarla, rinnegarla, ahimé! Virtù è vivere secondo la propria natura interamente, senza sacrifizio degli altri ma nemmeno di sé, non mentire mai né con alcuno, non ingannare mai nessuno, e soprattutto, non ingannar sé stesso mai. Questa è virtù!
Questa concezione del mondo in opposizione alle repressioni esercitate dalla società e dalla cultura (per non parlare della Chiesa) si riverbera naturalmente nei gusti artistici e letterari della contessa, che predilige la musica che mi lascia facoltà di pensare a modo mio o di non pensare affatto (p. 43), anche se questo amore non le impedisce di appartarsi durante gli spettacoli dell'Opera, perché un'ora di vita è sempre in ogni caso da preferirsi ad un'ora d'arte (p. 58). Esilaranti poi le versioni di Maria sul finale della Traviata alle pp. 43-46 e sul comportamento di Francesca da Rimini (pp. 83-84). Per il resto, Leopardi è un gobbo infetto (p. 82), Carducci un vecchio cassettone (p. 83), e sorvoliamo sugli altri.
Il dissidio tra vita ed arte si ripropone nella contrapposizione tra la contessa e il narratore, bischero... e infelice (p. 27), che professa di continuo perplessità, turbamento e riserve, intellettuale un po' sfigato che ha bisogno di due pagine di giri di parole per chiedere semplicemente a Maria se è mai andata a letto con due uomini (pp. 40-41), perennemente insultato dalla contessa che gli ricorda che (p. 78)
Hai codesto male. Vivi inappagato sempre, vivi di quello che fu, e che non è mai stato, di quello che dovrà essere, e che poi non sarà, di quello che non è, di quello che non si sa, mai di quello che è. L'istante che vivi oggi dolorosamente sarà bello domani, lo ricorderai con nostalgia e rimpianto, è il debito che devi pagare all'ora non saputa vivere, la vita si vive a contanti e si liquida giorno per giorno, ora per ora. [...] Hai perduto il passo per fantasticare. Fare, fare bisogna.
I caratteri dei due personaggi, il tono delle discussioni, gli argomenti portati, la contessa che dà sempre del tu al narratore il quale le si rivolge sempre con il lei (tranne durante un'arrabbiatura per la fuga dall'Opera) rendono evidente la simpatia di Palazzeschi per le posizioni di Maria nonostante i distinguo di forma, e suggeriscono anzi una certa identificazione sul piano ideale con la stessa... o con la sua passione.

Bisogna infine notare che tutto quanto detto finora si consuma nelle prime 80 pagine circa, la parte di gran lunga migliore del libro. Segue una seconda parte in cui la contessa racconta la propria iniziazione ai piaceri della vita e la fuga dalla famiglia. Scritta in tono da romanzo d'appendice, noiosa ma non senza qualche guizzo brillante, sembra una parodia di quel genere letterario che tanto avrebbe disgustato la contessa; purtroppo però, non regge il confronto con la prima parte ed incrina l'unitarietà del racconto. E questo ci rimanda alla domanda iniziale: sono stati motivi formali che hanno spinto Palazzeschi alla censura del racconto, o legati al contenuto? Chi propende per la prima ipotesi ricorda come istanze di liberazione sessuale non erano affatto nuove al tempo, basti pensare al Manifesto futurista della lussuria di Valentine de Saint-Point del 1913, anni in cui parte della critica localizza la scrittura originale del testo. Un centinaio di anni dopo, non ci resta che leggere con divertimento le avventure della contessa e salutarla amichevolmente, anche se certamente non avrebbe gradito alcuna linea scritta su di lei (p. 11): la vita è azione, figliolo caro, e starsene col sedere sulla seggiola non è azione

domenica 3 marzo 2024

Treni 2218 e 2275 (Bergamo-Milano Lambrate): ritardi gennaio-febbraio 2024

Fig. 1: distribuzioni cumulative dei ritardi per il treno 2218 delle 8:02
nei bimestri gennaio-febbraio dal 2015 al 2024.
Fig. 2: Ritardi nel bimestre in esame per il treno 2218 (8:02).
Fig. 3: come in Fig. 1, ma per il treno 2275 delle 17:41.
Fig. 4: come in Fig. 2, ma per il treno 2275 delle 17:41.
Tra le numerose notizie poco simpatiche di questo inizio 2024 mi limito a ricordare la ben nota variazione nelle regole di erogazione del bonus ritardi, che da quest'anno sarà erogato solo dietro richiesta. Decisione assurda presa ovviamente di concerto con la Regione, in merito alla quale potete leggere ad esempio qui. Ci sarebbe poi tantissimo da dire sulle continue cancellazioni del treno delle 7:40 per Milano e sullo scherzetto di spostare la partenza da Bergamo a Verdello quando un treno accumula troppo ritardo (pare, per la ridotta disponibilità dei binari in stazione a Bergamo). Domanda: ma questi treni, che a tutti gli effetti sono delle cancellazioni perché i pendolari non li possono raggiungere, come sono classificati ai fini della puntualità? In tutto il marasma alla stazione di Bergamo, l'unica, pallida, nota positiva è l'allargamento della piattaforma per Milano, con annesso caos per raggiungere i binari ovest.

In questo quadro, come sono andati i soliti due treni? La risposta per il 2218 è in Fig. 1: puntualità a zero (!) e al 39% entro 5'; massimo ritardo di ben 23' il 20/2 per guasto ad un altro treno. Distribuzione completamente spostata a destra rispetto agli anni scorsi, senza accenno di miglioramento! I dati sintetici sono poi riportati in Fig. 2, dove si vede chiaramente la continua e sistematica crescita di tutti i ritardi negli ultimi anni.

Se il dato per il 2218 ha almeno la consolazione puramente statistica di essere ben rappresentato da una lognormale, al 2275 manca pure questo! La Fig. 3 mostra la distribuzione dei ritardi, che come al solito devia dal comportamento lognormale intorno ai 7' di ritardo. Puntualità al 10% e al 55% entro 5'; massimo ritardo di ben 36' il 12/2, con il treno fermato a Verdello e i passeggeri che hanno terminato la corsa con il successivo 2237 (ormai strapieno di gente visto che è operato dai nuovi Donizetti, che saranno anche belli ma sono del tutto insufficienti come capacità). Piccolissima nota positiva: nella parte bassa la curva è lievemente a sinistra rispetto all'anno scorso, come si nota nella Fig. 4. Merito del mese di gennaio, dove due sole volte si erano superati i 10' di ritardo. A febbraio, un disastro: otto volte sopra i 10' e quattro oltre la mezz'ora (in tre delle quali il treno è stato cancellato); del tutto inaccettabile! Se l'andazzo è quello di febbraio, il 2024 sarà un macello.

Chiudo come al solito con l'elenco delle cause dei ritardi, notando anche stavolta come le stesse siano poco affidabili. Ad esempio, il 9/1 il 2237 era fermo a Centrale tra sirene e rumori anomali, ma l'app incolpava le "esigenze del regolatore"; il 12/1 i 15' di ritardo sono giustificati da una "sosta prolungata a Pioltello per servizio viaggiatori" quando il treno è arrivato a Pioltello già con 11' di ritardo; il 19/1 il treno delle 7.40 (che partiva alle 7.38) non parte per un problema alle porte. Dopo mezz'ora finalmente si muove ma il motivo del ritardo diventa "attesa del treno da Milano". Insomma, c'è parecchio da migliorare nel flusso informativo verso i viaggiatori!
Ciò premesso, su 12 segnalazioni, 6 sono relative a guasti e problemi tecnici, 1 a ritardo di un altro treno, e 1 ad un guasto all'infrastruttura. Seguono le altre motivazioni: 2 alle sempreverdi "esigenze del regolatore", e 2 alla new entry "prolungamento del servizio viaggiatori" (anche se i dati mostrano che il ritardo si accumula TRA le stazioni, non tra arrivo e partenza nelle stesse).

Nota: i dati sono raccolti personalmente o da app Trenord. Per correttezza, bisogna specificare che i ritardi sopportati dai pendolari su questi due treni non sono indicativi dei ritardi complessivi, che sta ad altri raccogliere e rendere pubblici. Idem per i rimpalli di responsabilità tra Trenord, Rfi, e quant'altri. Qui si cita Trenord in quanto è ad essa che i poveri pendolari versano biglietti ed abbonamenti, e ai quali dovrebbe rispondere del servizio.

domenica 25 febbraio 2024

La guardia bianca

di Michail Bulgakov
Feltrinelli, Milano, 2011 (1a ed. italiana Anonima romana editoriale, 1930)
Traduzione di Serena Prina

Fuggivano banchieri brizzolati con le loro mogli, accorrevano abili uomini d’affari, che si erano lasciati alle spalle, a Mosca, i propri fiduciari, ai quali era stato dato ordine di non perdere i legami con quel nuovo mondo che stava venendo alla luce nel regno moscovita, proprietari di case, che avevano abbandonato le case a fedeli amministratori segreti, industriali, mercanti, avvocati, politici. Fuggivano giornalisti, di Mosca e Pietroburgo, prezzolati, ingordi, vigliacchi. Cocottes. Dame rispettabili di famiglie aristocratiche. Le loro tenere figlie, le pallide donne dissolute di Pietroburgo, con le labbra dipinte di carminio. Fuggivano i segretari dei direttori di dicasteri, giovani pederasti passivi. Fuggivano principi e accaparratori, poeti e strozzini, gendarmi e attrici dei teatri imperiali. Tutta questa massa, insinuandosi nella fessura, si dirigeva verso la Città.
A metà tra romanzo storico e autobiografico, La guardia bianca è il sorprendente romanzo che fece conoscere Bulgakov (l'accento cade sulla "a") al grande pubblico russo nel 1925, appena prima che la censura si abbattesse sui capitoli finali e sulle opere successive dell'autore, relegandolo in un anonimato da cui sarebbe emerso solo a partire dagli anni '50, più di un decennio dopo la morte nel 1940: il suo romanzo oggi famosissimo, Il Maestro e Margherita, fu pubblicato in prima mondiale integrale da Einaudi nel 1967 ed in Russia solo nel 1973!
Per contestualizzare il romanzo conviene intanto ripercorrere molto sommariamente il burrascoso periodo in cui si colloca, la Kiev (uso il toponimo russo del libro) degli anni 1918-19 (dettagli qui): dopo la rivoluzione d'ottobre, le prime rivendicazioni di indipendenza ucraine ed i trattati di Brest-Litovsk, nell'aprile 1918 si crea un governo-fantoccio sostenuto dalle forze tedesche e governato da un etmano. Gli si contrappongono le forze nazionaliste di Symon Petljura e, al momento più remoti, i bolscevichi. Ma con la sconfitta degli Imperi centrali nella Grande Guerra, i tedeschi abbandonano Kiev, che cade nelle mani di Petljura nel dicembre 1918. Il suo dominio fu però di breve durata, e ai primi di febbraio 1919 i bolscevichi di Lenin conquistano Kiev. La storia è raccontata in tre parti: la prima sullo scricchiolio del governo dell'etmano, fino alla sua fuga, la seconda sulla conquista di Petljura, e la terza sulla sua disfatta e la comparsa di una terza forza sull'enorme scacchiera (p. 96).
Bulgakov racconta la storia dal punto di vista dei tre fratelli Turbin (cognome della nonna materna): Aleksej, Nikolka ed Elena. I fratelli maschi sono di fede monarchica e (nonostante qualche "mal di pancia" per via delle tendenze autonomiste) si arruolano come volontari nelle milizie che combattono a fianco dell'etmano, scampando poi alla cattura da parte delle bande di Petljura. Aleksej, il maggiore, è medico, e verrà poi arruolato forzatamente da questo stesso esercito, rivivendo la rotta sotto la spinta bolscevica. Questo quadro già abbastanza complicato è poi raccontato in maniera non perfettamente lineare, aprendosi a dicembre 1918, tornando indietro e muovendosi sempre in maniera sincopata. La trama contiene numerosi riferimenti autobiografici: Bulgakov si laureò in medicina nel 1916 e si arruolò come medico volontario nell'Armata bianca (ma nel Caucaso, non a Kiev), come fecero altri suoi due fratelli; contrasse il tifo come Aleksej; la casa dei Turbin al 13 di Alekseevskij Spusk è la casa di Bulgakov, al 13 di Andreevskij Spusk, e altri ancora.
L'approccio personale/familiare suggerisce il tema (o uno dei temi) del romanzo, ovvero il rapporto dell'uomo con la Storia e l'importanza del proprio codice morale. Così l'ufficiale e marito di Elena che ha trovato le conoscenze giuste (p. 59) e fugge con l'etmano abbandonando la famiglia è contrapposto alla decisione di arruolamento dei fratelli, gli ufficiali che tramano con il nemico a Naj-Turs che si sacrifica per i suoi soldati: l'importante è mantenere fede alle proprie idee e alla propria umanità, anche se nemici. E tuttavia, anche Aleksej non può evitare piccoli compromessi, dichiarando dapprima (p. 121) chiaramente le sue convinzioni (Io [...] purtroppo non sono socialista ma... monarchico. E devo anche dire che non riesco nemmeno a sopportare la parola 'socialista') e dovendo poi nasconderle (p. 390):
"No, compagni, no. Io sono monar...".
No, questo è eccessivo. Meglio così: io sono contro la pena di morte. Sì, sono contro. Karl Marx, lo confesso, non l'ho letto, non arrivo nemmeno a capire che c'entri in tutta questa confusione
[...].
La confusione, suggerita dalla nebbia che incombe sulla narrazione, è un'altra caratteristica della vicenda: nessuno sa cosa succede, le voci e le notizie si rincorrono senza verifica, chi sparasse, e a chi, nessuno lo sapeva (p. 91), l'Imperatore è morto o in Germania, Petljura (che viene nominato un'infinità di volte senza mai apparire) viene dato per certo a Parigi o a Berlino, oppure in Città, a Char'Kov e in Belgio allo stesso tempo (pp. 310-311), prendere una strada o l'altra può fare la differenza tra la salvezza o la morte, per Nikolka e per Aleksej (se così avesse fatto, la sua vita sarebbe andata in modo del tutto differente, ma ecco che così non fece, p. 252). Nella confusione e nella nebbia le identità cambiano (i continui riferimenti alle spalline delle uniformi strappate per camuffarsi da civile), le persone si trasformano, si nascondono e fuggono per sopravvivere. Alla confusione fa da contrasto la casa di famiglia, con gli orologi e la vecchia stufa di maiolica coperta di scritte con insulti (poi cancellati) a Petljura che riscalda - anche metaforicamente - l'ambiente, la casa dove si ritrovano gli ufficiali amici (contrapposti alle bande di Petljura), dove si festeggia e si cantano inni zaristi, il nido rassicurante in cui rifugiarsi e da preservare perché memoria del passato, dove anche un paralume è importante (p. 59):
E poi... poi la stanza fu desolata, come lo è ogni stanza dove regni il caos dei preparativi e, ancora peggio, dove sia stato tolto il paralume a una lampada. Mai. Mai togliere il paralume della lampada! Mai! Il paralume è sacro. Non fate mai come i topi che fuggono davanti al pericolo, verso l'ignoto. Accanto al paralume sonnecchiate, leggete – lasciate che infuri la bufera –, attendete, che siano loro a venirvi a prendere.
Al racconto delle ordalie che i fratelli dovranno sopportare per ritrovarsi nella casa con la stufa, da dove tuttavia dovranno ripartire per altre vicende solo accennate (ad esempio, le relazioni con Julia e Irina), si accompagnano infiniti riferimenti a personaggi storici e coevi, alla lirica, al canto e all'immortalità dell'opera d'arte (p. 64), splendide descrizioni della città di Kiev (p. 87), del comando militare dentro il negozio di madame Anjou (p. 118) e del Ginnasio (p. 129), e un'ininterrotta serie di metafore, dal tempo meteorologico (la nebbia, ma anche la neve che confonde tutto e la tempesta), alla malattia (ovvero il male, come nella visita nel capitolo finale), al cielo e al mondo metafisico (con la comparsa delle stelle rosse). La religione è anche molto presente, ma non è una scorciatoia per i valori morali che ognuno trova dentro di sé, e d'altra parte Dio stesso, vecchierello, triste ed enigmatico [...] che volava nel cielo nero, screpolato, non dava alcuna risposta (p. 38), e appare alquanto disinteressato alla religione stessa (p. 110)
Perché a me della vostra fede non viene in tasca un bel niente. Uno crede, un altro non crede, ma vi comportate tutti allo stesso modo; adesso vi pigliate a vicenda per la gola, e [...] qui bisogna capire che per me, Zilin, voi siete tutti uguali – morti ammazzati sul campo di battaglia. Questo, Zilin, va capito, e non tutti ci riescono. [...] A me, è meglio che non li nomini nemmeno i pope [...] Cioè, di stupidi come i vostri pope al mondo non se ne trovano. In segreto ti dirò, che sono una vergogna e non dei pope.
Tra le tantissime altre cose da menzionare, mi limito alla discesa nel girone dantesco freddo (anche qui il contrasto con la casa) e fetido per recuperare il cadavere di Naj-Turs (cap. 17), e i ripetuti commenti spregiativi di Bulgakov verso la lingua ucraina, lingua maledetta (p. 76) e brutta (p. 370): da buon sostenitore dell'Impero zarista, infatti, Bulgakov non può concepire l'indipendenza della regione, ed oggi non gode di buona fama tra alcuni suoi compatrioti.

Questa edizione contiene sia il finale scritto da Bulgakov nel 1929, sia quello originale del 1925, assai più lungo e complesso, dato per smarrito dopo che la rivista a cui fu inviato per la pubblicazione lo censurò senza restituirlo all'autore, finale riapparso solo negli anni '90; tutto raccontato nella bella ed esaustiva introduzione di Serena Prina. Da leggere assolutamente!

sabato 10 febbraio 2024

Renosu rosso 2019(?) Dettori

Tra le mille domande (o certezze) del mondo del vino c'è l'impatto dell'etichetta sulla degustazione, e ancora di più, delle informazioni relative a produzione, affinamento e così via. Una parte di questi problemi si risolve qui, con un'etichetta davvero minimale, dove compare solo il nome (ben noto) del produttore e l'indicazione generica "rosso". Quindi, niente denominazione di origine, niente (ovviamente) vino varietale. Assaggiamo prima, allora, e poi andiamo a cercare un po' di informazioni.

Iniziamo con un bel colore rubino, brillante e invitante. Il profumo contiene certamente i canonici frutti rossi, ma un po' sottotraccia, per così dire. Ci sono invece note floreali rosse ed aromi vegetali (rabarbaro?), nonché un tocco di mineralità. All'assaggio è decisamente piacevole, ben equilibrato e dal tenore alcolico un po' basso per gli standard di oggi, ma che in realtà è una vera fortuna e dona grande bevibilità! Solo una lieve nota un poco zuccherina nel finale lascia un po' sorpresi.

E adesso, andiamo a vedere cosa c'è nel bicchiere. Dettori è un piccolo produttore con oltre un secolo di storia, che ora lavora in maniera artigianale e biodinamica i vecchi vigneti di proprietà. Sette vigneti per sette vini, che raccontano il territorio, con tini di cemento per macerazione ed affinamento, senza uso di legno né di anidride solforosa. Le uve (Cannonau, Monica e Pascale) che non raggiungono il livello di eccellenza per la produzione dei suddetti sono "declassate" e finiscono in questo Renosu (o nel suo gemello bianco - Vermentino e Moscato). Con un ottimo risultato, che invoglia ad assaggiare gli altri prodotti (che però hanno un prezzo superiore).

Gradazione: 12°
Prezzo: 15 €

giovedì 8 febbraio 2024

Clessidra

La partenza del 2° tiro.
Teo sul 3° tiro.
Sul 7° tiro.
Parete di Pezol - Valle del Sarca
Parete SO

Dall'ultima volta che ero stato sulla piccola parete di Pezol, le vie si sono moltiplicate e ad oggi sono poco meno di una decina. Anche se non vi si trova più la ressa dei primi tempi, la comodità dell'accesso e le vie ben protette richiamano comunque un po' di cordate, decise a godersi l'arrampicata soprattutto nel periodo invernale. Se avete poco tempo a disposizione, queste pareti fanno per voi!
Accesso: da Arco si prende la strada che porta verso Nago, raggiungendo in breve la frazione Bolognano. Qui si prende a sinistra seguendo l'indicazione Monte Velo e si segue la strada (SP48) per quattro chilometri (occhio al segnale di progressiva chilometrica 4,1). Poco dopo, al primo tornante, si parcheggia (lapide all'interno del tornante e sterrato bloccato da sbarra sulla sinistra), si segue lo sterrato e si prende il primo (ometto) o - meglio - il secondo sentiero sulla sinistra (i due si riuniscono poco dopo). Si giunge in breve in corrispondenza delle vie della parte superiore della parete dell'Ir e ad un bivio. Si continua dritti (a destra c'è la via di discesa) fino ad un altro bivio, dove si prende a destra e subito dopo a sinistra, continuando fino alla parete. Qui si segue una traccia che sale brevemente a destra e giunge nei pressi dell'attacco di Cercando la trincea. Si continua ancora verso destra fino all'attacco (scritta alla base e cordone su radice visibile). Contare una mezz'oretta o poco più.
Relazione: via breve ma piacevole, con un quarto tiro veramente bello. Le difficoltà sono un po' discontinue, ma non diminuiscono il piacere dell'arrampicata. Chiodatura ottima a fix, con un paio di passi obbligati sul 2° tiro, dove qualche chiazza gialla lascia intuire piccoli distacchi, che (per ora) non modificano la difficoltà.
1° tiro: puntare alla parete e salire una placchetta fino alla sosta. 20 m, 4c, quattro fix. Sosta su due fix con cordone e anello di calata.
2° tiro: salire a sinistra della sosta, superare un breve tratto appena aggettante e spostarsi a destra, per proseguire poi su una bella placca fino alla sosta. 25 m, 6a (due passetti), dieci fix. Sosta su un fix con anello e cordoni in clessidra.
3° tiro: salire verso destra su rocce appoggiate e continuare per placche fino ad un terrazzo (sosta possibile). Camminare per una decina di metri seguendo una traccia fin sotto la parete successiva dove si sosta. 30 m; 4c, I; quattro fix, due cordoni in clessidra, una sosta intermedia (cordone su pianta). Sosta su due fix con cordone e maglia-rapida.
4° tiro: salire appena in verticale e traversare a destra sfruttando una fessura orizzontale rovescia che poi si raddrizza. Salire, spostarsi appena a sinistra e continuare per il pilastro. Un ultimo spostamento a sinistra porta alla sosta. 30 m, 6a; dodici fix, due cordoni in clessidra. Sosta su due fix con cordone e maglia-rapida. Tiro molto bello.
5° tiro: salire un breve canalino con un pilastro dall'aspetto poco rassicurante e traversare a sinistra. Rimontare le rocce fino alla sosta. 25 m, 4a; tre fix, un cordone su pianta. Sosta su due fix e maglia-rapida.
6° tiro: salire la facile placca fino ad una possibile sosta e proseguire su traccia fino alla base dell'ultima parete dove si sosta. 50 m; II, I; tre cordoni in clessidra, una sosta intermedia (due fix con cordone e anello di calata). Sosta su due fix con cordino.
7° tiro: salire la placca fino al termine della via. 30 m, 5a; cinque fix, un cordino in clessidra. Sosta su due fix con catena ed anello.
Discesa: seguire la traccia (segni rossi su alberi) che sale alla sommità del Pezol (traliccio) e continuare lungo il sentiero di discesa che in breve porta alla parete dell'Ir (parte superiore) e al bivio incontrato all'arrivo. Da qui in breve al parcheggio.

Nota: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

domenica 7 gennaio 2024

Ormeasco di Pornassio DOC 2016 Lupi

Dell'azienda Lupi, acquisita nel 2020 da Peq Agri, avevo già assaggiato un ottimo pigato qualche annetto fa, ed è quindi con una certa curiosità e qualche aspettativa che ho aperto questa bottiglia per celebrare (si fa per dire) la fine delle feste. L'Ormeasco è praticamente la versione ligure del Dolcetto, vitigno invero un po' trascurato, ed è uno dei grandi rossi del ponente ligure insieme all'amato Rossese (della Grenaccia parliamo un'altra volta). La zona di produzione ruota attorno alla valle Arroscia, quindi piuttosto vicino ad Albenga e al suo retroterra di splendide falesie, creando così un connubio perfetto di interessi personali. E proprio ad Ormeasco e Pigato è sempre stato legato il nome di Lupi, sinonimo di vini sinceri, legati al territorio, sin dalla nascita della cantina nel 1960.
Come spesso accade, l'Ormeasco più rappresentativo e interessante della cantina è (forse dovrei dire era; vedi oltre) la sua versione base, che nasce da vitigni con più di cinquanta anni di età ed affina per quattro/cinque mesi in acciaio (esiste poi il Braje che passa in barrique e che lasciamo da parte). Nel bicchiere si presenta di un bel colore rubino con qualche lieve sfumatura granata. Molto intenso e aromatico al naso, con evidenti sentori di frutti rossi, lampone su tutti, e qualche nota più vegetale di finocchio e pepe. Fresco e generoso all'assaggio, di gusto pieno, con tannini molto morbidi e una tipica nota amarognola nel finale; si beve che è un piacere.

L'unico dubbio è il seguente: sul sito di Peq Agri, nella sezione dedicata ai vini di Lupi si trova ora un solo Ormeasco rosso, il Braje! Niente più Ormeasco base! Non conosco le ragioni di questa scelta che mi pare del tutto infelice; non resta che correre ad accaparrarsi le poche bottiglie che ancora si trovano e gustarle con un sorso di nostalgia.

Gradazione: 13°
Prezzo: 13 €