giovedì 20 novembre 2025

Lungo la strada (o In margine alla vita)

di Herman Bang
Guanda, Parma, 1989 (1a ed. italiana Delta, Milano, 1929)
Traduzione di Eva Kampmann
Katinka contemplò le vecchie fotografie ingiallite con le cornici storte. Riconosceva ogni cosa: la caffettiera d'argento sul tavolo, il servizio pregiato con le tre tazzine di porcellana autentica e, sulla mensola davanti allo specchio appannato, i piccoli sopramobili tutti coperti da fazzoletti; e i tappeti che coprivano il pavimento da una porta all'altra, i gatti che facevano le fusa sdraiati sui cuscini.
Conosceva tutto.

La mia conoscenza di Herman Bang è un altro merito di Amedeo, che interpretò con le sue incisioni la prima edizione italiana del suo romanzo Mikaël nell'ormai remoto 1997. Dell'opera fu realizzata una versione cinematografica nientemeno che da Carl Theodor Dreyer, mentre un altro grande regista, Friedrich Wilhelm Murnau, adattò I quattro diavoli, opera purtroppo perduta. Parliamo quindi di uno scrittore molto scenico, che fu anche regista teatrale e che si esprime per quadri, per immagini, che alle interpretazioni e alle spiegazioni preferisce raccontare gli eventi con un susseguirsi di periodi brevissimi. Del resto, Lungo la strada fu scritto nel 1886, quando l'impressionismo aveva iniziato la sua diffusione, e lo stesso Bang dichiarava di ricercare una visione impressionista applicata alla scrittura.

La trama è banale, ma se appartenete (come me) a coloro che legittimamente non amano che gli si racconti il finale (peraltro assai intuibile), leggete il libro e tornate dopo. Katinka è sposata con Mathias (che chiama con il cognome, Bai), ex militare ora capostazione in un minuscolo paesino della Danimarca. I due caratteri sono alquanto diversi: Bai è una sorta di bambinone, che non si rassegna al passar del tempo (ma chi lo fa?) e che non disdegna il buon cibo, l'alcool, e la compagnia degli amici con cui parlare di donne e dei suoi trascorsi. Fin qui, niente di troppo male, soprattutto agli occhi di oggi, a parte il fatto che tra i "trascorsi" si accenna ad un figlio nato fuori dal matrimonio senza troppi rimpianti (p. 24). Katinka invece è di indole malinconica, si lascia trascinare dagli eventi e si ritrova sposata più o meno per inerzia. Tuttavia, dopo i primi anni (p. 23)

si abituò a quella vita fatta di treni che arrivavano e partivano, e di gente del posto che partiva e poi tornava, recando e chiedendo novità. [...]
E poi c'erano il cane, i piccioni e il giardino.

La tranquilla monotonia della vita della coppia si arresta con l'arrivo di Huus, un fattore chiamato a lavorare in una tenuta della zona. Nei suoi viaggi alla stazione per le spedizioni, Huus si ferma spesso dai Bai, dove Katinka lo attende per dei consigli, perché (p. 33)

con Huus, invece, le sembrava di aver sempre qualcosa da imparare, un consiglio da chiedere, una modifica da apportare.
Quindi gli argomenti di conversazione non mancavano, ed essi discorrevano in modo pacato e tranquillo, come era nella natura di entrambi.

Tra arrossimenti e lunghe chiacchierate, perché ormai Huus è di casa, i due scoprono che tra loro è nato un affetto. La donna, però, non sa o non vuole trarne le conseguenze: bisogna vivere la vita così come viene (p. 59) e del resto, la mia casa è qui (p. 70). Ormai costretta nella vita che (non) ha scelto, a Katinka non resta che reprimere il desiderio (p. 72):

Li vedeva insieme, Agnes e il curato, mentre giocavano a croquet nel grande prato. Non distoglieva un momento lo sguardo da quei due esseri che si amavano.
E li ascoltava anche, piena di curiosità, quasi fossero una sorta di grande prodigio.
E un giorno, mentre tornava a casa, scoppiò a piangere.

Dopo una visita alla "grande fiera" dove i due passano praticamente tutto il tempo insieme, con Mathias che incoraggia pure Huus a prendersi cura della moglie così da potersi dedicare al ballo e agli spettacoli delle ballerine, la situazione non può continuare, ma Katinka nuovamente è incapace di cambiare la sua vita: così deve essere (p. 117). Torna per un po' nella città natale, dove apprende che Huus è partito (p. 135):

Indugiò a lungo. Pensò a quello che sarebbe stata la sua vita futura e d'un tratto le parve che tutto, tutto, le crollasse addosso: un'unica, inimmaginabile, traboccante disperazione.

Costretta a tornare alla vita precedente, che ora le si rivela in tutta la sua aridità, Katinka si ammala e non fa nulla per curarsi, fino all'inevitabile epilogo. Dopo i funerali ed il momentaneo dolore, però, la vita di Mathias e degli altri abitanti del villaggio riprende come prima.

Il tema principale mi pare quello del rimpianto per le scelte che non si è avuto il coraggio di fare. Anche Huus in precedenza si è comportato come Katinka ora, e glielo racconta proprio per rimarcare quanto importante sia decidere della propria felicità (p. 84):

«E così mi fidanzai... durò un anno intero... finché lei non ruppe il fidanzamento.» [...]
«Sono cose che capitano», soggiunse, «quando ci si fidanza o ci si sposa.» [...]
«E per vigliaccheria si continua come se nulla fosse», continuò Huus. «Per una sorta di vigliaccheria inerte e profonda, giorno dopo giorno.»
«Lasciai che le cose si trascinassero», ora la voce di Huus era sommessa, «finché lei la fece finita.»
«Perché
lei mi voleva bene.»

Ma la vicenda è speculare: Katinka non troverà il coraggio di lasciare la sua vita e Huus, pur amandola, se ne andrà, anche se si potrebbe leggere la vicenda al contrario: Katinka, come la fidanzata, dichiara l'impossibilità della loro relazione nel fugace incontro nel gazebo e Huus se ne va. Ovviamente, Bang si guarda bene dal fornire suggerimenti, anche se questa seconda versione darebbe un ruolo attivo a Katinka che non le si confà.

In parallelo a questo vi è lo scorrere del tempo, la nostalgia verso i periodi felici della giovinezza e la consapevolezza dello scarto tra i sogni di allora e la realtà di oggi. Oltre alla stessa Katinka, che conserva gelosamente e riguarda regolarmente tutti i ricordi della giovinezza, il tema fa capolino nella corona funebre di Huus che arriva ormai secca, ed emerge nell'incontro di Katinka con Thora, l'amica esuberante della giovinezza che ora si ritrova sposata con l'ennesimo militare e passa la vita a curare la casa e arrotondare il magro stipendio del marito, ormai sfiorita (p. 124):

Thora parlava senza posa mentre Katinka, camminando al suo fianco, la guardava. Il viso era lo stesso, ma pareva come ristretto in ogni lineamento e si appuntiva verso il mento giallastro.
«Mi guardi eh, cara mia?» disse Thora. «eh sì, la vita non è fatta solo di balli al circolo...»

Tutte o quasi le relazioni descritte appaiono infelici, con le donne relegate al ruolo di madri  (In fondo siamo fatte per procreare, dice Thora a p. 129) e di domestiche se sposate, oppure destinate ad una povertà ancora maggiore come la Piccola Jensen, la figura più triste di tutto il libro. Agnes, più anticonformista, ha ben chiara la situazione (p. 140):

certo che noi donne di possibilità ne abbiamo ben poche. Nei primi venticinque anni della nostra esistenza voliamo di qua e di là in attesa di sposarci, e negli ultimi venticinque anni ci sediamo in attesa di essere seppellite...

Proprio questa empatia per i caratteri femminili e per il ruolo sociale imposto alla donna è un'altra delle cifre di questo racconto. Ma, in fin dei conti, ricordatevi anche che i libri non erano che mera invenzione (p. 24) e che ciò che vi era descritto non era certo vita reale (p. 142).

Si potrebbe anche discutere del carattere di Bai e delle descrizioni (veramente impressioniste) dei paesaggi e dell'arrivo dei treni (pp. 26 e 51), non senza ricordare la posfazione di Anna Maria Segala, ma concludo con una nota sulla prima edizione del 1929, curata da Gian Dàuli e con traduzione di F. Ardelli. Se "Lungo la strada" è la traduzione letterale e rimanda alla strada ferrata lungo cui sorge la stazione, "In margine alla vita" rimanda direttamente a Katinka. Tuttavia, questa edizione è incompleta (!), e si ferma al funerale di Katinka, tagliando l'ineluttabile ritorno alla normalità del paese e di Bai, con la "signorina Louise" che inizia a frequentarne la casa. La traduzione del 1929 soffre del tempo, ad esempio con il capostazione che si presenta in un "palamidone" (ovvero una giacca) e che censura la frase sui ragazzi di Thora che si imboscano a fumare, ma permette a volte di afferrare alcune sfumature perse nella traduzione successiva; ad es., a p. 8 si legge:

La signorina Jensen parlava in modo estremamente corretto, soprattutto quando conversava con la figlia del pastore, che non amava molto.
«I miei allievi non usano di certo questo linguaggio», riprese rivolta alla vedova. Quanto alle parole straniere, la signorina Jensen non si sentiva troppo sicura.

e uno si chiede cosa c'entrino le parole straniere nel discorso. La traduzione del 1929 recita invece

La lingua della signorina Jensen possedeva un'estrema purezza di linguaggio, e non si esprimeva mai più correttamente di quando parlava con la figlia del pastore che non aveva, con suo grande disappunto, il tono distinto dei suoi discepoli.
La signorina Jensen diceva discepolo e non allievo perché in danese questa parola è di derivazione straniera, e quindi da non adoperarsi.

Un altro motivo per leggere la vecchia edizione è che il volume contiene anche un altro racconto di Bang, La signorina Irene, ancora una volta su una figura femminile schiacciata dalla vita, una ballerina ormai "anziana" (ovvero probabilmente sulla quarantina; del resto Katinka (p. 25) "era quasi vecchia. Aveva compiuto trentadue anni") che non ha avuto il ruolo tanto desiderato nel balletto e ora gira la provincia dando lezioni "per continuare ciò che si è convenuto di chiamare la vita".

Tornando a Bang e al cinema, Max von Sydow, il famoso attore Bergmaniano, diresse un adattamento di Lungo la strada nel 1988 dal titolo Katinka - Storia romantica di un amore impossibile, che purtroppo non sono riuscito a vedere. Qui il regista ne parla brevemente.

domenica 2 novembre 2025

Treni 2218 e 2275 (Bergamo-Milano Lambrate): ritardi settembre-ottobre 2025

Fig. 1: distribuzioni cumulative dei ritardi per il treno 2218
(8:02) nei bimestri settembre-ottobre dal 2015 al 2025.
Fig. 2: Ritardi nel bimestre in esame per il treno 2218 (8:02).
Fig. 3: Come in Fig. 1 ma per il treno 2275 (17:40).
Fig. 4: Come in Fig. 2 ma per il treno 2275 (17:40).

La notizia del bimestre è l'annunciato aumento del numero di corse di Trenord in occasione delle prossime olimpiadi invernali. Se l'aspetto più divertente del comunicato sono i toni tronfi (manco fossero il Governo...) e l'enfasi sull'aver "vestito" i treni con i "colori olimpici" (come se non bastassero i writer), c'è chi fa notare che la situazione presenti diverse criticità che si potrebbero tradurre in disservizi, per non parlare del rapporto con il personale e conseguenti, possibili, scioperi.

Nell'attesa di quel che succederà a febbraio 2026, però, bisogna dire che anche in questo bimestre si registra un marcato miglioramento rispetto agli anni precedenti, che - salvo minchiate negli ultimi due mesi, sempre possibili - dovrebbe portare i ritardi complessivi del 2025 ad essere assai migliori dei precedenti. Vedremo!

Intanto, la Fig. 1 mostra le solite distribuzioni cumulative dei ritardi su scala lognormale per il treno 2218. Si vede che i ritardi sono decisamente inferiori degli anni precedenti, con solo la curva per l'anno 2017 che sta marcatamente più a sinistra: puntualità al 9% (ma questo numero ha sempre fatto schifo), e al 69% entro 5'; massimo ritardo di 50' il 6 ottobre, per treno cancellato per guasto. Andamento abbastanza anomalo per il 2218 (ma solito per il 2275), con la coda al 90% che piega verso alti ritardi.

Se andiamo a vedere l'andamento storico dei ritardi nel bimestre (Fig. 2), vediamo che siamo tornati quasi a livello del 2020, dopo tre anni vergognosi e un 2024 dove già era migliorato qualcosa. Media poco sopra 5' e ritardo al 90% di circa 9'... quest'ultimo dato decisamente "fortunato" vista la distribuzione in Fig. 1 che "piega" appena sopra il 90%, ma va bene così; è la statistica!

Passiamo ora al 2275 (Fig. 3), e qui dobbiamo riconoscere che il miglioramento è netto: a parte tre casi di ritardo scandalosamente alto (due per sciopero), la curva mostra ritardi minori di tutti gli anni precedenti: puntualità al 40% e al 80% entro 5'; massimo ritardo di 63' il 3 ottobre, per sciopero che ha cancellato anche il successivo treno 2237 (che sarebbe in fascia di garanzia!).

In Fig. 4 si vede che - finalmente! - i ritardi del 2275 sono diminuiti dopo cinque anni in di costante aumento. Tutte le curve sotto i 10' di ritardo non si vedevano dal 2019, ed i numeri sono anche migliori di quelli del 2218. Resta il dubbio se si tratti di un miracolo una tantum o se siamo stati presi per i fondelli per tutti gli anni precedenti...

Terminiamo con la carrellata sulle cause di ritardo: solo sette le segnalazioni, di cui quattro per guasti al treno, due per sciopero, e una per ritardi ad un treno precedente.

Nota: i dati sono raccolti personalmente o da app Trenord. Per correttezza, bisogna specificare che i ritardi sopportati dai pendolari su questi due treni non sono indicativi dei ritardi complessivi, che sta ad altri raccogliere e rendere pubblici. Idem per i rimpalli di responsabilità tra Trenord, Rfi, e quant'altri. Qui si cita spesso Trenord in quanto è ad essa che i poveri pendolari versano biglietti ed abbonamenti, e ai quali dovrebbe rispondere del servizio.

martedì 28 ottobre 2025

Montepulciano d'Abruzzo Colline Teramane DOCG Riserva Zanna 2017 Illuminati

Dopo Riparosso e Campirosa, rieccomi ai vini di Illuminati, questa volta ai loro Montepulciano Riserva. Lasciamo da parte come d'abitudine il Pieluni che spende due anni in barrique, e dedichiamo l'attenzione allo Zanna. Il nome viene dal vigneto di origine, che dovrebbe avere ormai più di cinquant'anni ed è uno dei più vecchi dell'azienda. E con un vigneto così vecchio, cosa c'è di meglio di un affinamento tradizionale?

Dopo la raccolta, il vino fermenta in acciaio inox, per passare poi in botti di rovere di Slavonia da 25 hl dove riposa per circa due anni, terminando l'affinamento con un anno in bottiglia. Nel bicchiere è di un bel colore rubino assai denso - del resto, otto anni sono pochi per questo vino, che si apre senza esitazioni con profumi di ciliegia e frutti rossi, seguiti dai toni speziati e, se vogliamo citare l'assai analitica etichetta, da note minerali, grafite.

Molto piacevole all'assaggio, pieno e morbido, dominato dai frutti rossi e con l'alcool che dà struttura ma non sovrasta. La buona persistenza e il finale sui toni speziati completano l'assaggio e invogliano subito a ricominciare.

Un altro particolare degno di nota di questo vino è che, come dovrebbe essere per tutte le "riserve", lo Zanna è prodotto solo nelle annate migliori, tra cui questo 2017.

Gradazione: 14,5°
Prezzo di acquisto: 20 €

sabato 18 ottobre 2025

Fessura Kiki + L'apprendista

Michele sul 1° tiro della Fessura.
E qui sul 5° tiro.
Angelo sul 1° tiro de L'apprendista.
Tracciato della Fessura Kiki.
Roda del Canal (Monte Cordespino)
Parete E

"La prossima volta andiamo a fare Pussy Power al Croz dei pini!", dico al buon Michele che, in grazia di impegni pomeridiani di tal fatta, mi costringe ad una partenza anticipata per fare due brevissime viette a Tessari e rientrare di fretta. Così, dopo sei anni di assenza dalla zona, mi ritrovo sul luogo teatro di recenti operazioni di schiodatura e relative polemiche, su cui mi limito ad indicare questa intervista a Beppe Vidali, protagonista storico dell'arrampicata in Val d'Adige. Che piacciano o meno, le vie della Roda sono così: sviluppo modesto, gradi quasi sempre accessibili a tutti, chiodatura ottima con uso limitatissimo o nullo delle protezioni veloci. Non sorprende che ci sia la ressa, sorprende un po' di più che vi si ritrovino i corsi del CAI. O forse, hanno tutti un amico con "impegni pomeridiani"...

Accesso (Fessura Kiki): dal casello di Affi della A22 seguire per Brentino Belluno, scendendo in Val d'Adige per portarsi sulla destra dell'autostrada e proseguire fino ad un cartello indicatore per la frazione Tessari. Superato un ponte sopra l'autostrada, ci sono due possibilità di parcheggio: subito sulla sinistra prima di attraversare un canale (più comodo; fate attenzione ai vigneti!), oppure svoltando a sinistra dopo il canale e proseguendo fino ad uno spiazzo. Portarsi poi sulla sponda destra del canale (se avete parcheggiato nello spiazzo, tornate indietro lungo la strada e non attraversate la proprietà privata o i vigneti!), superare una sbarra e proseguire. All'altezza della parete, noterete un sentiero che proviene da destra ed una sbarra. Poco dopo si vede una traccia segnalata da un sasso che sale verso la parete e conduce all'attacco della via (scritta).

Relazione (Fessura): via breve ma piacevole che risale l'evidente fessura fino alla cengia, per concludere con un tiro in placca; la chiodatura è ottima, ma può essere utile un friend BD0.75 per l'ultimo tiro, dove il primo fix è piuttosto alto ed è preceduto da invitanti fessure. La relazione degli apritori è piuttosto generosa con i gradi; di seguito - ovviamente - la mia valutazione personale.

1° tiro: salire la placchetta e spostarsi a destra alla sosta. 20 m, 5b, cinque fix. Sosta su fix e spit con anello.
2° tiro: salire per il diedro fessurato a destra della sosta. 15 m, 5b, quattro fix. Sosta su fix e spit con anello.
3° tiro: seguire la fessura obliqua a destra della sosta fino ad un alberello dove si sosta. 20 m, 5b, cinque fix. Sosta su fix e spit con anello.
4° tiro: spostarsi a destra e salire per pilastrini dall'aspetto un po' dubbio fino ad un sentiero. Da qui salire alla sosta appena sopra. 20 m, 4a, due fix. Sosta su golfare e spit con anello.
5° tiro: non seguire i cordoni a destra (della via Datti una mossa), ma salire verso sinistra lungo le belle fessure fino al fix, per proseguire dritti su muretto fessurato. 30 m; III, IV+, 5b; tre fix. Sosta da attrezzare.

Discesa: proseguire fino ad incontrare una traccia che si segue verso destra. Tenendo la destra ad un paio di bivi si giunge alla base della parete, alla sbarra incontrata prima.

Accesso (L'apprendista): raggiunta la parete, si continua fino a superare un paio di canaline di scolo dell'acqua e si prende una traccia a destra, sperando che sia quella giusta. La via corre dopo Zig zag e prima de La livera.

Relazione (L'apprendista): caratteristiche simili alla precedente, con due bei tiri iniziali e poi meno interessante. La difficoltà è concentrata in un passo del primo tiro, peraltro facilmente azzerabile. Anche in questo caso, valutate se portarvi un friend medio per l'ultimo tiro.

1° tiro: portarsi a destra e aggirare lo strapiombo, superare la placca e raggiungere la sosta sulla sinistra. 20 m, 6a+ (un passo); sei fix, due cordoni in clessidra. Sosta su fix e spit con anello.
2° tiro: salire a destra del diedro, traversare a sinistra e salire alla sosta. 20 m, 5b; quattro fix, un cordone. Sosta su due fix con cordino.
3° tiro: salire le rocce rotte a destra e continuare fino alla cengia (sosta possibile su spit singolo). Proseguire brevemente fin sotto la placca successiva e sostare. 25 m, III+; due cordoni in clessidra, uno spit con anello. Sosta da attrezzare su albero.
4° tiro: salire la placca fessurata fino alla sommità. 25 m, 4b; tre cordoni in clessidra, un fix. Sosta su cordone in clessidra.

Discesa: proseguire per traccia in salita fino ad incrociare un evidente sentiero che si segue verso destra e che riporta al parcheggio.

Avvertenza: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

sabato 4 ottobre 2025

Storia dell'alpinismo e dello sci

di Gian Piero Motti e Guido Oddo
Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1977 e 1978
In un silenzio, che non è più delle nostre Alpi, potrebbe esser bello liberare la fantasia ed immaginare, per qualche istante, le emozioni di quegli uomini davanti alla grande montagna. Una montagna oggi conosciuta in ogni minimo dettaglio, salita e risalita, aggredita sistematicamente, oggetto di sfogo per uomini che vivono in una società in costante tensione, strumento e terreno di colossali e volgari speculazioni che agiscono in nome del progresso e del turismo, dimenticando sempre più il rispetto e l'armonia con l'ambiente, assillati dal nevrotico desiderio di avere tutto e subito, senza fatica alcuna e senza soffrire. Eppure è bello immaginare lo stupore, lo smarrimento e la meraviglia infantile di questi uomini davanti ad un mondo assolutamente nuovo ed un po' misterioso, di fronte alla promessa di avventure e scoperte, al sorgere di quel turbamento interiore che sempre si prova a contatto con qualcosa di sconosciuto.
Riaprendo gli occhi
[...] si assiste ad una lotta sempre più nevrotica ed individuale, dove la dolcezza dell'armonia con l'elemento naturale va scomparendo sotto l'assalto della violenza competitiva che non ammette sogni, stasi e debolezze.

Qual è stato il primo libro italiano di storia dell'alpinismo? Se prescindiamo dai numerosi resoconti limitati a qualche gruppo montano, che appaiono regolarmente sulla Rivista Mensile del CAI sin dagli albori, il primo riferimento organico che mi viene in mente (ma correzioni sono ben accette!) è Lo sport dell'arrampicamento di Domenico Rudatis, del 1930-31. Bisogna poi certamente citare lo scritto (un'ottantina di pagine) Cento anni di alpinismo italiano di Massimo Mila, che apre il volume dedicato al primo secolo di vita del CAI nel 1963, e che fu allegato alla prima edizione italiana (1965) della storia dell'alpinismo di Claire-Éliane Engel per colmarne le vistose lacune. Nel 1977 De Agostini pubblica l'enciclopedia (come si usava allora...) La montagna, in otto volumi rilegati. Alla fine dell'opera, però, compaiono due volumi addizionali di una edizione speciale fuori commercio per gli abbonati a La Montagna (come riportato sull'antiporta) che scrivono davvero un nuovo capitolo - perdonate il gioco di parole - sul modo di raccontare l'alpinismo.

Sgombriamo subito il campo dalla parte dedicata allo sci: 136 pagine delle quali si leggono con interesse solo le prime 30-40 di impronta storica, seguite da un noiosissimo elenco di gare e relativi vincitori, e limitiamoci alla storia dell'alpinismo. L'autore è Gian Piero Motti, che si è già fatto conoscere, oltre che per la sua attività alpinistica, anche per i suoi scritti ormai famosi (I falliti compare sulla Rivista Mensile del CAI del 1972, Il nuovo mattino sulla Rivista della Montagna del 1974); una personalità complessa e travagliata su cui molto è già stato detto e scritto. L'approccio che egli dà all'opera è del tutto innovativo: vi è sì la cronologia dei principali alpinisti e delle loro salite, ma questo appare a volte come secondario, un dato accessorio, perché (p. 29, II)

questo non vuole essere un trattato di psicologia dell'alpinista, o forse vorrebbe anche esserlo

ed in effetti lo è! Molto interessanti da questo punto di vista sono le prime 40 pagine circa, dove Motti indaga il rapporto Uomo-Natura, Uomo-Montagna, Alpinista-Vetta, per giungere a chiedersi il perché delle fatiche e dell'eterna insoddisfazione che spesso affligge l'alpinista, che sovente non si sente inserito nella vita di tutti e di tutti i giorni (p. 9) e che, giunto in vetta, prova la breve illusione di essere al di sopra di tutte le cose mortali. Ma non sempre è così (p. 9). Perché (p. 13):

la si era vissuta [la vetta] come meta finale e liberatoria, quasi assoluta nella sua purezza. Per raggiungerla si è dato tutto, si è lottato fino allo spasimo [..]. Invece una volta giunti in vetta si comprende purtroppo che era solo un sogno, un fantastico sogno che si è cercato di materializzare nell'immagine della scalata: in vetta però non vi è nulla, vi sono pochi metri quadrati di roccia o di neve, sovente ci si sta anche scomodi, fa freddo, tira vento e forse non si vede alcun panorama. [...] In ogni caso la discesa il più delle volte sarà uno squallido rito da consumare, uno stanco e mesto ritorno verso usi e abitudini di un mondo mediocre e insoddisfacente dal quale si era creduto di fuggire con la scalata.

A questo punto, urge un minimo di contestualizzazione. L'ambiente alpinistico italiano di quegli anni era ad un punto morto, e Motti coglie lucidamente la crisi: le cime, le pareti, le vie delle Alpi sembrano sature di possibilità, ed il desiderio di "avventura" spinge ad un ulteriore aumento della difficoltà (ripudiando i mezzi artificiali, su cui torneremo), all'alpinismo solitario o invernale, o verso le montagne extraeuropee e gli Ottomila. Ma questo vuol dire elevare in maniera significativa il rischio e la fatica. A ciò sommiamo il fatto che tutto il pattume retorico degli anni Trenta sull'alpinismo eroico, la lotta coll'alpe, il sacrificio (che invero ha infettato anche altri e ben più importanti ambiti), comincia finalmente ad apparire per quello che è anche tra gli alpinisti, o almeno alle giovani generazioni (Motti è nato nel 1946), che cercano un senso diverso al loro andar per monti.

Le soluzioni che Motti vede germogliare sono diverse: ovviamente si può continuare lungo il filone tradizionale (e si cita l'esempio di Messner, riportando alcune simpatiche note in sinistrese sulla collettivizzazione e la critica materialista), oppure ci si può volgere verso un alpinismo spogliato del carattere retorico e drammatico, la pace coll'alpe di Carlo Possa, dove (p. 15)

appare chiaro il fine di smitizzare l'alpinismo e di umanizzarlo rendendolo un fatto sociale e non più individuale [...], portandolo alle masse come sana attività creativa e sportiva non alienante e soprattutto non asservita alle strumentalizzazioni del sistema (sul che si possono nutrire dubbi molto fondati...).

Si identifica infine una terza via, ispirata a quanto in quegli anni si sta compiendo in Yosemite (pp. 17-18), dove gli alpinisti non si pongono questi problemi:

Per essi arrampicare è (o per lo meno dovrebbe essere) un gioco [nota: nel 1979 uscirà la famosa guida Il gioco-arrampicata della Val di Mello di Ivan Guerini], dove non esiste una meta da raggiungere, ma semplicemente la gioia che si trae dall'arrampicare stesso. [...] È un gioco che può essere magnificamente condotto sulle solari muraglie granitiche della Yosemite Valley (California) o sulle fantastiche scogliere delle Calanques [nota: ormai untissime].
Vi è però un grande pericolo che si cela nella pratica di questo tipo di alpinismo: si può correre il rischio di mantenere la stessa ideologia dell'alpinismo tradizionale, trasferendo il simbolo della vetta nella difficoltà del singolo passaggio. La meta da raggiungere e superare non è più la vetta, ma la lunghezza di corda o il passaggio difficile e sempre più difficile
[...]. Così si genera una competitività con sé stessi ed un'angoscia di caduta ancora peggiore, sfociando quasi sempre nel tecnicismo più esasperato e nell'arido atletismo.

Si potrebbe dire che questa previsione si è avverata nell'arrampicata sportiva, anche se non bisogna dimenticare che il vituperato arido atletismo da falesia, portato sulle grandi pareti, ha giocato e gioca un ruolo fondamentale anche nell'evoluzione dell'alpinismo. Ad ogni modo, Motti riconosce il carattere anarchico dell'alpinismo, e lascia la soluzione (personale) di questo dilemma a ciascuno di noi.

Prima di iniziare con la Storia vera e propria, c'è ancora tempo per discutere del problema della difficoltà e degli inevitabili confronti tra alpinisti di ieri e di oggi. Motti insiste (e lo ripeterà molte volte nella trattazione, ad esempio per la salita della Cima Grande di Lavaredo e della E del Gran Capucin) sul carattere di rottura psicologica delle imprese principali, perché dopo la prima salita (p. 35)

a coloro che la vorranno ripetere [la via] apparirà già più addomesticata, più fattibile. In pratica non esisteranno più incognite sulle possibilità di realizzazione, ma unicamente difficoltà da superare. Ormai esiste la sicurezza di salire dove altri sono già saliti: una specie di incantesimo si è rotto, l'ignoto diviene conosciuto e dall'opera d'arte dei primi o del primo salitore rapidamente si passa al lavoro tecnico e atletico di chi segue e ripete.

Ogni epoca ha il suo limite, e indubbiamente oggi le difficoltà superate sono maggiori rispetto al passato (ci mancherebbe altro!), ma se caliamo le azioni nel loro tempo non vi è differenza, perché (p. 37) durante tutta la storia umana, l'abbattimento di un limite ha richiesto sempre lo stesso tributo di impegno fisico e psichico. E oggi? Dopo una critica sociale che sa un po' di "controcultura" anni '70 (ma non è da buttare), con l'alienazione, la presa di coscienza delle masse (oggi rintronate da TikTok), l'ideologia competitiva del sistema, si identifica nell'alpinismo (grazie alla libertà e al contatto con la Natura) una valvola di sfogo per fuggire allo squallore delle gerarchie aziendali e burocratiche (p. 44; Gian Piero sorriderà se dico che la frase suona oggi un po' Fantozziana). Il risultato di questa corsa alla montagna è validissimo anche oggi (basta sostituire l'alpinismo con lo sci o i trekking più alla moda):

Il risultato visibile è che tutta la catena alpina sta subendo un'aggressione violenta che non ha precedenti, dove ciascuno cerca di farsi spazio a gomitate. Tutti vogliono vincere, tutti cercano il loro giorno da leone, costi quel che costi, scaricando nell'alpinismo torrenti di violenza repressa [...]. Purtroppo le Alpi stanno diventando un gigantesco «luna-park» ed una pattumiera di colossali proporzioni [...]. E, cosa ancora più grave, gli incidenti sono innumerevoli [questi concetti sono ripresi alle pp. 94-95 del volume II].

Dopo questa lunga premessa, la Storia si dipana come di consueto, dal Monte Bianco alla transizione da alpinismo scientifico dei pionieri a quello romantico, dalle alpi occidentali alle Dolomiti dove nasce il piacere dell'arrampicata pura, ma sempre facendo attenzione al contesto sociale in cui le imprese alpinistiche si svolgono (si legga la discussione a p. 104, dove pure non manca qualche giudizio un po' pesante sulla società tedesca dell'epoca, o quella a p. 20 del volume II sulla salita alla N dell'Eiger o ancora a p. 39). Si arriva così alla salita del Dente del Gigante nel 1882 che, com'è noto, riuscì solo con l'aiuto di mezzi artificiali. Se sul fatto specifico Motti sorvola, esprimendo soltanto un giudizio di valore estetico e non certo etico (p. 172), torna prepotentemente sulla questione parlando di Preuss (pp. 203-204):

Non è vero che in questo genere di scalata [artificiale] non esiste l'avventura, ma esiste soltanto durante la prima ascensione, quando il capocordata deve fare un vero e proprio studio delle fessure da seguire, dove la scelta di ogni chiodo comporta esperienza, astuzia, ingegno e intelligenza, dove esistono tutte quelle incognite di passaggio e di impossibilità di ritirata che sono presenti anche nell'arrampicata libera. A meno che si accetti l'uso del chiodo ad espansione, nel qual caso l'avventura è veramente finita. [...]
Nella ripetizione di una via artificiale rimane il fattore atletico, che può avere indubbiamente i suoi aspetti piacevoli e positivi 
[...]. Comunque, nel salire lungo una fila di chiodi già piantati da altri, oppure nel piantare chiodi sfruttando gli evidenti segni di chiodatura lasciati dalle cordate precedenti vi è ben poca avventura, ma il più delle volte solo un lavoro noioso e monotono che non dà alcuna sensazione di libertà e leggerezza.

Il giudizio mi pare un po' ingeneroso, ma ricalca quanto detto sopra per l'arrampicata libera. Bisogna però rimarcare che le prime salite in artificiale (quando non sono solo un mezzo per cercare di salire dove non si passa più in libera) costituiscono (p. 207)

un'esperienza di estremo interesse: per la lentezza assoluta dell'azione, per le pause molto lunghe che separano l'azione stessa, per il controllo nervoso che la progressione richiede. Una somma di fattori che fa di una salita su una grande muraglia granitica o calcarea un sorta di «viaggio» nel subconscio, una specie di via per autoconoscersi.

Anche questa insistenza sull'artificiale va contestualizzata. La percezione (che peraltro si verifica in ogni epoca) di essere giunti al limite delle possibilità aveva portato negli anni 60-70 ad un impiego massiccio del chiodo ad espansione e della progressione artificiale (ricordiamo il celeberrimo assassinio dell'impossibile di Messner del 1968), fino alla riscoperta dell'arrampicata libera e al riconoscimento che (p. 206)

vi sarà progresso [...] quando le pareti che noi abbiamo vinto a vinciamo con abbondante uso di chiodi e di staffe saranno scalate da un arrampicatore solitario senza alcun mezzo artificiale.

Molto meno convincente mi pare invece la divagazione psicanalitica che segue, con la montagna come Grande Madre, i traumi infantili e l'angoscia di castrazione (che compare anche nell'analisi su Ruskin a p. 64), il chiodo come metafora della penetrazione e via dicendo (anche perché avrei qualche problema ad applicarla all'alpinismo femminile). Motti nutre ovviamente un grande interesse per la psicanalisi, che applica costantemente (si vedano ad esempio i capitoli riservati a Cassin, Gervasutti, Bonatti, e la parte su Hemming), senza dimenticare l'antipsichiatria (quella di Cooper e Laing, non quella dei cialtroni) e la sua critica al concetto di normalità. Un altro degli interessi di Motti che emerge periodicamente è quello per le filosofie orientali (contrapposte al freddo razionalismo citato più volte) ed il loro rapporto diverso con la Natura, la rinuncia alle cose materiali e l'ascesi (soprassediamo sull'ampia documentazione scientifica che comproverebbe chiaroveggenza, telepatia e compagnia bella; d'altronde nemmeno oggi la Scienza gode di ottima salute...), che lo rendono simpatetico verso Rudatis e la sua filosofia, dove (p. 239)

l'alpinismo e soprattutto l'arrampicata estrema erano il mezzo ideale per superare sé stessi, per uscire dalla vile condizione soggetta al destino e per scoprire una dimensione di libertà in cui ci si riuniva a tutte le forze del cosmo.

Ci sarebbero poi da notare un paio di punti che in retrospettiva fanno rabbrividire, in cui si può forse leggere il dramma di Gian Piero di ritornare da dove è venuto, ma il rispetto e l'affetto che tutti gli portiamo anche se non l'abbiamo conosciuto personalmente ci fanno fermare qui, chiudendo con un monito validissimo anche oggi (p. 277):

L'alpinismo è una delle più belle manifestazioni anarchiche che esistano sul pianeta, e tale deve rimanere: senza leggi, senza regole, senza imposizioni dall'alto, senza padroni e senza padreterni. Sarà merito degli alpinisti di oggi e domani combattere una lotta accanita contro ogni forma di strumentalizzazione, sia che venga dall'interessatissima industria, sia che venga dai confini politici di destra e di sinistra. I caratteri più belli e genuini dell'alpinismo sono la ricerca appassionata e forse disperata di libertà, l'insofferenza per ogni regola umana e per ogni legge che non sia dettata dalle forze supreme della Natura, la ricerca di spazio e di infinito, il desiderio di entrare in armonia con le forze cosmiche e terrestri. La vita di oggi cammina verso una pianificazione che porta all'esatto contrario.

Ricordiamo infine che nell'edizione 2013 di Priuli e Verlucca (dove sparisce la parte sullo sci e si aggiunge - ma perché? - un "La" al titolo) è presente un capitolo aggiuntivo di aggiornamento a cura di Enrico Camanni.

lunedì 15 settembre 2025

Arichi

Michele sul 1° tiro.
E sul 3° tiro.
Tracciato della via. La foto della parete è
estratta da Google Earth.
Parete di Sanico (Monte Pizzocolo)
Parete SE

Accesso: raggiungere Toscolano Maderno e salire alla soprastante frazione di Sanico (seguire inizialmente le indicazioni per Maclino). Alla frazione, dove la strada compie una svolta ad angolo retto verso sinistra e inizia a salire, proseguire dritti (indicazione Parete di Sanico) su stradina pianeggiante fino ad un bivio dove si ignora una strada con indicazione "strada privata" sulla sinistra, parcheggiando subito dopo il bivio, a destra o sinistra. Proseguire un poco lungo la strada fino ad un altro cartello di strada privata. Qui prendere il largo sentiero che sale a sinistra. Dopo pochi metri si vede a destra un cancello di legno ed una staccionata con filo spinato che difendono un capanno di caccia, che va aggirato. Proseguite quindi per poche decine di metri e scendete per traccia verso destra (ometti lungo la traccia, ma non sul sentiero) fino ad un altro largo sentiero che proviene dal cancello, che si segue verso sinistra fino alla parete, in corrispondenza dell'attacco di Melissa slimoncella. Appena prima di raggiungere la parete, salire per un canale sulla sinistra, seguendo una corda fissa dopo qualche metro. Portarsi poi verso sinistra fino a reperire le corde fisse ed i bolli arancio che conducono all'attacco delle vie Chela de Biass e Steno. Appena più a monte attacca la Via del ritorno (targhetta), e appena sopra attacca Arichi (scritta "A" visibile). Quaranta minuti circa.
In alternativa, poco dopo l'aggiramento del capanno, lungo il sentiero, bisogna identificare una traccia con corse fisse sulla sinistra. Seguendole, si giunge direttamente agli attacchi (soluzione comoda anche per la discesa).

Relazione: via breve ma molto piacevole che risale la parete per bellissime placche di calcare a buchi. La via è interamente attrezzata in stile classico (tranne l'ultima sosta), con protezioni su cordoni (non sempre nuovissimi...) in clessidre, sempre piuttosto ravvicinate, tanto che i friend restano sempre attaccati all'imbragatura; portatene comunque un paio per ogni evenienza.

1° tiro: salire dritti per muretto iniziale e placca, seguendo la lingua di roccia tra la vegetazione. 35 m; V, V+ (forse passo di VI-), V-; dieci cordoni in clessidra. Sosta su due cordoni in clessidre e maglia-rapida. Appena sopra a sinistra c'è una sosta più comoda su due cordoni in clessidre.
2° tiro: portarsi verso sinistra e continuare dritto lungo la placca a lame e buchi, uscendo su terra per rimontare un masso oltre cui vi è la sosta sulla sinistra. 35 m; V+, IV; sette cordoni in clessidra, una sosta. Sosta su cordoni in clessidre.
3° tiro: risalire la costola verso sinistra, superare un passo delicato (stare a sinistra rispetto al cordone) e continuare verso sinistra fino alla sosta. 20 m; IV, V+ (un passo), V; cinque cordoni in clessidra. Sosta su due cordoni in clessidre e maglia-rapida.
4° tiro: salire lungo una fessura e continuare verso sinistra e poi dritto su rocce più facili. Ignorare una sosta su cordoni, continuare e poco dopo portarsi a destra per risalire una facile placca che porta alla sosta. 35 m; V, IV, III+; quattro cordoni in clessidra, una sosta (due cordoni in clessidra). Sosta su due fix con cordoni e maglia-rapida.

Discesa: seguire la corda fissa verso destra fino ad un ancoraggio di calata (due fix, catena ed anello). Da qui si scende con tre calate da 25 m e l'ultima da 30 m. Basta una corda singola, ma fate attenzione all'ultima calata. Dalla base si seguono le corde fisse fino ad un sentiero pianeggiante, che si segue verso destra per trovare poco dopo altre corde fisse che riportano nei pressi del capanno di caccia.

Avvertenza: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

sabato 13 settembre 2025

Chianti Classico DOCG 2018 Castello di Verrazzano

Chi è stato a New York non può non aver visto il ponte di Verrazzano, che collega Brooklyn a Staten Island ed è dedicato all'esploratore Giovanni, nativo di Greve in Chianti (quindi provincia di FI) dove si trova ancora l'omonimo castello. Non sappiamo se il navigatore portasse seco alcune bottiglie di vino nei suoi viaggi perigliosi, ma sappiamo per certo che nella tenuta si coltiva vino dal 1170! L'azienda vitivinicola com'è oggi nasce però negli anni '60, e può contare su 52 ettari di vigneto, coltivati in regime biologico. Tra i vini prodotti, oltre a tre Chianti Classico (base, riserva e gran selezione, quest'ultima tipologia nata nel 2014), vi sono due Toscana Igt, un rosato ed un paio di bianchi, a cui aggiungere il canonico Vin Santo.

Stiamo sul Chianti e lasciamo, come spesso conviene, le riserve e le selezioni con i loro passaggi in barrique. Il Chianti Classico "base" è un vino tradizionale, che nasce dal 95% di Sangiovese ed un restante 5% non bene identificato (nella tenuta si coltivano anche Merlot, Cabernet, Canaiolo e Colorino; a voi la scelta), ed affina per (almeno) 18 mesi in botti da 33 hl, seguiti da 6 mesi in bottiglia.

Il vino si presenta di un bel colore rubino, con decisi aromi di frutti rossi, ciliegia su tutti, che si accompagnano a delle note speziate. Molto piacevole ed equilibrato al palato, con una componente alcolica che sostiene la struttura senza essere invadente. Finale un po' speziato che completa l'assaggio.

Di certo, l'avo esploratore avrebbe apprezzato! Ma noi non siamo da meno...

Gradazione: 14°
Prezzo di acquisto: 17 €

martedì 9 settembre 2025

Guffanti

Stefano sul 2° tiro.
Tracciato della via.
Torre conica del Barbisino (Gruppo dei Campelli)
Parete SO

Accesso: raggiungere i pressi del rif. Lecco dalla funivia dei Piani di Bobbio (alla modica cifra di ben 18 € A/R!) o da Ceresole di Valtorta e da qui risalire il lato sinistro del Vallone dei Camosci lungo la pista da sci, superando il capanno dove termina lo skilift e la parete S del Barbisino, dove salgono Gli antichi futuri e Avenida miraflores. Continuare fino ad un enorme ometto, dove si sale a sinistra per una vaga traccia fino a raggiungere un sentiero che si segue verso destra e che in breve conduce alla base della Torre. La via attacca subito dove giunge il sentiero, in corrispondenza di un fix per assicurazione. Proseguendo si trovano i fix delle altre vie che salgono sulla parete.

Relazione: breve via del 1971 (definita scalata da palestra sulla RM del 1972) che sale l'evidente fessura-camino della Torre, tutta concentrata nel bel secondo tiro, ottimamente chiodato a fix. Gli altri tiri, ben più facili, sono chiodati più distanziati. La roccia è ottima tranne che in alcuni punti del primo tiro dove è saggio fare attenzione. Tutte le soste sono su due fix con catena ed anello.

1° tiro: salire per erba ripida e rocce superando un paio di brevi diedrini più verticali. 25 m, IV, due fix.
2° tiro: salire tenendo verso destra fino a doppiare lo spigolino e proseguire in verticale lungo la fessura. 25 m, 6b (un passo), otto fix.
3° tiro: salire a destra del masso incastrato e continuare lungo la fessura o la placca a destra, raggiungere una cengia dove si ignora una sosta sulla sinistra (della via normale) per proseguire superando il muretto finale. 25 m, IV+, due fix.

Discesa: Spostarsi di pochi metri a destra ad una sosta su due fix con anelli. Con mezze corde, basta una calata singola da 55 m per giungere alla base. Altrimenti, è possibile fermarsi ad una sosta (due fix con maglia-rapida) dopo 35 m (attenzione se usate una corda singola da 70 m; si arriva alla sosta visto l'allungamento, ma fate i nodi alla fine!). Da qui si giunge alla base con una calata di 20 m circa.

Avvertenza: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

martedì 2 settembre 2025

Al forte

Tagliatelle con porcini e speck.
Carpaccio di cervo con finferli.
Strudel di mele.

Loc. Pezzei 66
Arabba (BL)

Chiunque abbia frequentato le Dolomiti, d'estate o d'inverno, per arrampicare, sciare, camminare o immergersi negli ormai ubiqui centri benessere non può non essersi imbattuto nella Grande Guerra: cimiteri, sacrari, trincee, gallerie, forti ne costellano il paesaggio, a ricordare una storia e una geografia di più di un secolo fa. Nell'alta val Cordevole o valle di Fodóm, alle pendici del Col di Lana, fu costruita a fine '800 dagli austroungarici la Tagliata di Ruaz, gravemente danneggiata durante il conflitto. Nel 1972 il forte è stato restaurato dagli attuali proprietari per adibirlo a ristorante e hotel. Superfluo quindi dire che l'ambiente è molto suggestivo, senza grandi stanzoni ricolmi di tavoli, e coniuga una piccola e parziale visita al forte con i piaceri della tavola.

La cucina ruota attorno ai piatti tipici ladini rivisitati con cura, con qualche incursione all'esterno ed una fattura sempre di ottima qualità. Scorriamo il menù: gli antipasti sono decisamente interessanti, tanto che decidiamo di sostituirli ai secondi, ed iniziamo quindi dai primi: a parte un'esotica lasagna alla bolognese si registrano minestra d'orzo, casunziei, canederli, ma le scelte del tavolo cadono sulle pappardelle alla cacciatora con ragù di cervo e, per quanto mi riguarda, su delle tagliatelle integrali con porcini, speck e crumble di noci: un piatto decisamente gustoso, con il condimento che si amalgama perfettamente alla pasta fatta in casa.

I secondi, a parte le ormai onnipresenti (ahimé) insalatone e un filetto di angus che fa il paio con le lasagne precedenti, includono un piatto ladino con polenta, funghi e pastin (carne tritata e speziata, tipica del bellunese), e un goulash di capriolo. Invitanti, ma non quanto gli antipasti, tra cui spiccano un carpaccio di manzo, un filetto di maiale affumicato con porcini, e soprattutto un carpaccio di cervo con finferli e balsamico ai lamponi che conquista entrambi. Il sapore appena selvatico del carpaccio si sposa magnificamente con l'acidulo del lampone e le note appena dolci dei finferli: da mangiarne a sazietà! Ai due carpacci abbiamo accompagnato un piatto di polenta e porcini, tanto per non farci mancare nulla.

Siamo giunti così al momento del dessert, meno ispirato dei piatti precedenti: semifreddi, sorbetti e gelati, tra i quali spiccano però due classici: la torta Linzer e lo strudel. Dopo un po' di esitazione, e dopo aver sbirciato a lungo le torte come un bambino davanti alla vetrina della pasticceria, decido per quest'ultimo. Delicatissimo e saporito, degno coronamento alla fine delle brevi vacanze dolomitiche! 

La carta dei vini è piuttosto interessante ed include soprattutto etichette del Triveneto. Scegliamo un Pinot noir di Salatin che affina in acciaio, con gradazione di 12,5° che si beve finalmente con piacere (qualche giorno prima, in altro luogo, un vino con la stessa gradazione sulla carta si era rivelato di ben 14° nella realtà, compromettendo la cena), anche se forse si poteva osare qualcosina di più.

Una nota finale è dovuta alla gentilezza e cordialità del personale, nonché dei proprietari. Un posto dove tornare assolutamente.

Il conto: 129 € per
2 primi
3 antipasti
2 dessert
1 bottiglia di acqua
1 bottiglia di vino (25 €)
2 amari

venerdì 29 agosto 2025

Ibex

Michele sul 1° tiro.
E qui sul 5° tiro.
Sul 6° tiro.
Sull'8° tiro.
Tracciato della via.
Piccolo Lagazuoi (Gruppo di Fanis)
Parete SO

Accesso: Si parcheggia nei pressi del passo di Valparola, all'altezza del Forte Tre Sassi, e si imbocca il sentiero dei Kaiserjaeger fino all'altezza del primo grande ghiaione, a sinistra dell'evidente torre 'Ntra i Sass con il suo evidente arco, oltre la quale sale la via Maurizio Speciale. Si raggiunge il culmine del ghiaione (qualche ometto) e si continua a seguire una traccia verso sinistra, che porta in breve ad una parete, all'altezza della via Pera forada. Pochi metri a sinistra sale Ibex (scritta alla base e cordini visibili).

Relazione: via piacevole e divertente, che sale la parete SO del Piccolo Lagazuoi senza particolari difficoltà. La chiodatura è ottima a fix sui passi più impegnativi (da qui l'utilizzo della scala francese nella valutazione), più distanziata nei tratti facili; non siamo comunque in falesia. La roccia è ottima nelle sezioni verticali, ma non mancano alcuni tratti delicati in prossimità delle cenge, soprattutto negli ultimi tiri: fate molta attenzione se vi sono cordate dietro di voi (e anche se ve ne sono davanti!).

1° tiro: salire la placca iniziale, superare un muretto e raggiungere la sosta. 50 m, 4a; quattro fix, due cordoni in clessidra. Sosta su due fix con anello.
2° tiro: Salire dritti sopra la sosta e portarsi verso sinistra su facili rocce fino a sostare su una terrazza. 35 m, 4a. Sosta su fix e cordone in clessidra.
3° tiro: attaccare a sinistra della sosta, salire dritti fino alla cengia e spostarsi alla sosta sulla sinistra. 50 m, 4a; un fix, tre cordoni in clessidra. Sosta su due fix con cordone.
4° tiro: ancora dritti per il muretto fino alla cengia; la sosta è appena sulla sinistra. 40 m, 4c; quattro fix, un cordino in clessidra. Sosta su un fix con cordone.
5° tiro: salire il muro a destra della sosta fino alla sosta. 50 m, 4c; cinque fix, un cordone in clessidra. Sosta su due fix.
6° tiro: salire per un diedrino fessurato a sinistra della sosta, traversare a sinistra e salire fin sotto la parete giallastra, dove si traversa a sinistra alla sosta sullo spigolo. 40 m, 4c; quattro fix, un chiodo, due cordoni in clessidra. Sosta su due fix con cordone.
7° tiro: salire il canale-rampa appena dietro lo spigolo fino alla cengia di sosta. 40 m, 4a, un cordone in clessidra. Sosta su fix con cordino.
8° tiro: si sale il pilastrino a sinistra della sosta fino ad una terrazza dove si sosta sulla sinistra. 30 m, 4a; un fix, un cordone su masso incastrato. Sosta su due fix.
9° tiro: salire per il diedro, spostarsi a destra e traversare, salendo poi alla sosta. 30 m, 4a, due fix. Sosta su due fix con cordone.
10° tiro: salire la facile paretina a sinistra della sosta (o aggirarla a sinistra) e proseguire per cengia verso sinistra fino ad uscire dalla parete. 70 m circa; II, I. Se non volete fare qualche metro in conserva, allestite una sosta intermedia.

Discesa: seguire il sentiero verso destra puntando al rifugio dove giunge la funivia del Lagazuoi. Prima di raggiungerlo, prendere a destra il sentiero dei Kaiserjaeger (indicazione) che si segue fino al parcheggio.

Avvertenza: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

martedì 26 agosto 2025

Valerio Giordano

Michele sul 1° tiro.
Sul 4° tiro.
Sul 5° tiro.
Michele sul 7° tiro.
Tracciati della Valerio Giordano (arancio) e delle Vonbank,
Orizzonti di gloriaAlice.
Piccolo Lagazuoi (Gruppo di Fanis)
Parete SE

Accesso: da passo Falzarego, al parcheggio della funivia del Lagazuoi, si segue il sentiero che risale la pista da sci per prendere poco dopo a sinistra il sentiero dei Kaiserjaeger (indicazione). Lo si segue fino ad un grosso masso in corrispondenza dell'evidente ghiaione erboso di foggia triangolare che marca la base della via, alla sinistra della parete, ben visibile dal parcheggio. Qui si lascia il sentiero per salire alla parete, dove si trova la trincea e due gallerie (visitabili) della postazione austriaca Vonbank. La via parte tra le due gallerie, appena a destra della Vonbank (evidentissima targa metallica con nome). Mezz'oretta circa.
All'attacco si può anche giungere parcheggiando nei pressi del Forte Tre Sassi e prendendo il sentiero dei Kaiserjaeger fino a che questo non inizia a salire a tornanti, più o meno all'altezza della base della parete. Lo si lascia traversando a destra per traccia giungendo in breve all'attacco.

Relazione: via recente (del 2023) che risale la parete a destra della via Vonbank su muri verticali di ottima roccia e difficoltà contenute, regalando un'arrampicata di soddisfazione. La via si muove quasi sempre intorno al 4c/5a, con chiodatura un po' distanziata, e qualche passo intorno al 5c/6a, ottimamente protetto a fix. Friend non strettamente necessari, ma ovviamente valutate voi in base alla vostra confidenza. A mio modesto parere, i gradi indicati nella relazione degli apritori sono un po' strettini, e li ho ritoccati nel seguito (ma la mia forma in questo periodo è peggiore del solito). Passi obbligati di 6a. Tutte le soste sono su due fix con catena ed anello.

1° tiro: superare il muretto iniziale, portarsi verso destra e continuare in verticale. 40 m, 5c (uno/due passi); sei fix, un chiodo, un cordone (marcio) in clessidra.
2° tiro: salire in verticale per il muretto e uscire sulla destra alla sosta. 20 m, 6a (un passo), tre fix.
3° tiro: ancora in verticale lungo il muro fino alla sosta. 40 m, 5b, cinque fix (uno con cordone).
4° tiro: spostarsi a destra, salire un vago e breve diedrino e continuare per facili rocce fino alla sosta. 25 m, 6a (un passo); quattro fix, un chiodo.
5° tiro: salire il muretto fino alla sosta su cengia. 45 m, 6a+ (un passo facilmente azzerabile o aggirabile al primo fix, poi 5a),  sette fix. Tiro molto bello e divertente.
6° tiro: spostarsi a destra e salire l'evidente spigolo fino alla sosta. 40 m, 4a, cinque fix.
7° tiro: proseguire brevemente e salire il corto diedro, uscendo dalla parete. 20 m, 4c, un fix. Sosta su fix con anello.

Discesa: si segue il sentiero dei Kaiserjaeger in discesa fino al punto di partenza.

Avvertenza: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

domenica 24 agosto 2025

Molino del torchio

Selezione di salumi
Gnocchi con salsiccia e funghi
Coscia d'anatra arrosto
Torta al cioccolato

Via Molino del torchio 17
Cuasso al Monte (VA)

Siamo sulla strada che da Varese reca a Porto Ceresio; poco prima di giungervi si svolta a sinistra e si segue uno sterrato che in breve conduce al vecchio mulino di più di un secolo fa, ora trasformato in ristorante con possibilità di alloggio. L'interno conserva la struttura e gli arredi in stile tradizionale, con tavoli ben distanziati, e la cucina è di impronta lombarda, con attenzione all'origine delle materie prime utilizzate.

Il menù propone quattro-cinque proposte per ogni portata, ma una volta tanto mi oriento per il menù degustazione, decisamente conveniente e che propone una scelta tra due proposte per piatto. Un delicato antipasto di salumi misti locali apre la cena, accompagnato da verdurine in agrodolce e un paté di vitello: piatto senza troppi fronzoli, come tutti quelli proposti, ma ricco di sostanza.
La scelta sui primi cade tra dei ravioli farciti di toma di capra e gli gnocchi con salsiccia e funghi, che scelgo senza esitazione. Posso solo dire che l'unica nota un po' stonata è la foggia del piatto, poco invitante per i miei gusti, mentre quello che ci sta dentro si amalgama perfettamente!
E siamo così ai secondi, dove fa capolino un filetto di pesce persico contro una coscia d'anatra arrosto con patata duchessa. Tocca così mettere da parte il mio amore per i pesci di lago e gustarmi una generosa coscia d'anatra, che raramente ho occasione di assaggiare, insieme ad un'altrettanto - per me - inusuale patata duchessa (ma chi ricordava che erano così buone?).

Tra i dolci mi oriento, ormai senza fantasia, tra sorbetti, bavaresi e torte, pescando una canonica torta al cioccolato, che non delude mai.

La lista dei vini ha tra l'altro una buona selezione di etichette lombarde, incluse alcune bottiglie della provincia di Varese, non tra le più rinomate per quanto riguarda il vino (mi perdonino gli autoctoni). Mi lascio così tentare da un Sebuino (uvaggio di Croatina, Merlot, Barbera e Vespolina) della Cascina Piano, che soddisfa la mia richiesta di non assaggiare il solito vino che affoga nel legno piccolo, ma resta un po' scarico rispetto alle pietanze.

La prossima volta non resta che assaggiare il menù alla carta!

Il conto: 150 € per:
3 antipasti
3 primi
3 secondi
3 dessert
3 caffè
1 bottiglia di acqua
1 bottiglia di vino (20 €)

Treni 2218 e 2275 (Bergamo-Milano Lambrate): ritardi maggio-luglio 2025

Fig. 1: distribuzioni cumulative dei ritardi per il treno 2218
delle 8:02 nei trimestri maggio-luglio dal 2015 al 2025.
Fig. 2: Ritardi nel bimestre in esame per il treno 2218 (8:02).
Fig. 3: Come in Fig. 1 ma per il treno 2275 (17:40).
Fig. 4: Come in Fig. 2 ma per il treno 2275 (17:40).

La notizia del trimestre ci dice - chi l'avrebbe mai detto? - che le richieste di rimborso per i ritardi di Trenord sono drasticamente diminuite a seguito dell'introduzione del nuovo criterio, senza che ciò corrisponda ad un aumento della puntualità. Da antologia poi la risposta di Lucente (assessore ai trasporti) riportata, che dà la colpa all'ignoranza dei viaggiatori: "Quando la gente capirà che deve fare la richiesta, i numeri aumenteranno"! L'unico commento che mi sento di fare lo prendo a prestito da quelli presenti sotto l'articolo: "Terzo mandato subito per fontana!!!!!!"

Andiamo ora a vedere il dettaglio della linea di nostro interesse, iniziando dal treno 2218: puntualità all'8% e al 68% entro 5' di ritardo; massimo ritardo di 33' il giorno 8/5 per ritardo del treno precedente. L'andamento della curva cumulativa (Fig. 1) conferma quanto registrato nell'ultimo bimestre, ovvero un miglioramento rispetto agli anni precedenti (curve rosse). I dati sintetici sono riportati in Fig. 2 in funzione dell'anno: dopo i valori decisamente impresentabili degli anni 2022-23, si comincia a vedere un miglioramento, con la media di poco superiore ai 5' ed il nono decile sotto i 10 (non si vedeva dal 2020!). Quando anche la curva blu scenderà sotto i 5' potremo finalmente dire di avere un servizio puntuale. Aspettiamo fiduciosi... ma neanche troppo.

Passiamo ora al 2275: puntualità al 31% e al 69% entro 5'; massimo ritardo di 33', verificatosi ben tre volte (6, 12 e 19 maggio) per treno cancellato oppure fermato a Verdello per eccessivo ritardo e conseguente arrivo a Bergamo con il successivo 2237. Non è una novità: fino a circa 10' di ritardo il comportamento non è così diverso da quello del 2218; oltre ciò, i ritardi aumentano spaventosamente. Questi dati si vedono anche in Fig. 4, dove media e mediana sono anche migliori del 2218, ma il dato al 90% continua ad essere inaccettabile... anche con i nuovi, ridicoli, standard di valutazione!

Ed eccoci al capitolo delle giustificazioni: su sedici segnalazioni per ritardi sopra i 10', quattro sono relative a guasti o lavori alla linea, una allo sciopero del 23/5, il resto sono affari di Trenord: sei per guasti al treno o altre non meglio precisate esigenze tecniche, cinque per ritardo di altri treni.

Nota: i dati sono raccolti personalmente o da app Trenord. Per correttezza, bisogna specificare che i ritardi sopportati dai pendolari su questi due treni non sono indicativi dei ritardi complessivi, che sta ad altri raccogliere e rendere pubblici. Idem per i rimpalli di responsabilità tra Trenord, Rfi, e quant'altri. Qui si cita spesso Trenord in quanto è ad essa che i poveri pendolari versano biglietti ed abbonamenti, e ai quali dovrebbe rispondere del servizio.