Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1977 e 1978
In un silenzio, che non è più delle nostre Alpi, potrebbe esser bello liberare la fantasia ed immaginare, per qualche istante, le emozioni di quegli uomini davanti alla grande montagna. Una montagna oggi conosciuta in ogni minimo dettaglio, salita e risalita, aggredita sistematicamente, oggetto di sfogo per uomini che vivono in una società in costante tensione, strumento e terreno di colossali e volgari speculazioni che agiscono in nome del progresso e del turismo, dimenticando sempre più il rispetto e l'armonia con l'ambiente, assillati dal nevrotico desiderio di avere tutto e subito, senza fatica alcuna e senza soffrire. Eppure è bello immaginare lo stupore, lo smarrimento e la meraviglia infantile di questi uomini davanti ad un mondo assolutamente nuovo ed un po' misterioso, di fronte alla promessa di avventure e scoperte, al sorgere di quel turbamento interiore che sempre si prova a contatto con qualcosa di sconosciuto.
Riaprendo gli occhi [...] si assiste ad una lotta sempre più nevrotica ed individuale, dove la dolcezza dell'armonia con l'elemento naturale va scomparendo sotto l'assalto della violenza competitiva che non ammette sogni, stasi e debolezze.
Qual è stato il primo libro italiano di storia dell'alpinismo? Se prescindiamo dai numerosi resoconti limitati a qualche gruppo montano, che appaiono regolarmente sulla Rivista Mensile del CAI sin dagli albori, il primo riferimento organico che mi viene in mente (ma correzioni sono ben accette!) è Lo sport dell'arrampicamento di Domenico Rudatis, del 1930-31. Bisogna poi certamente citare lo scritto (un'ottantina di pagine) Cento anni di alpinismo italiano di Massimo Mila, che apre il volume dedicato al primo secolo di vita del CAI nel 1963, e che fu allegato alla prima edizione italiana (1965) della storia dell'alpinismo di Claire-Éliane Engel per colmarne le vistose lacune. Nel 1977 De Agostini pubblica l'enciclopedia (come si usava allora...) La montagna, in otto volumi rilegati. Alla fine dell'opera, però, compaiono due volumi addizionali di una edizione speciale fuori commercio per gli abbonati a La Montagna (come riportato sull'antiporta) che scrivono davvero un nuovo capitolo - perdonate il gioco di parole - sul modo di raccontare l'alpinismo.
Sgombriamo subito il campo dalla parte dedicata allo sci: 136 pagine di cui si leggono con interesse solo le prime 30-40 di impronta storica, seguite da un noiosissimo elenco di gare e relativi vincitori, e limitiamoci alla storia dell'alpinismo. L'autore è Gian Piero Motti, che si è già fatto conoscere, oltre che per la sua attività alpinistica, anche per i suoi scritti ormai famosi (I falliti compare sulla Rivista Mensile del CAI del 1972, Il nuovo mattino sulla Rivista della Montagna del 1974); una personalità complessa e travagliata su cui molto è già stato detto e scritto. L'approccio che egli dà all'opera è del tutto innovativo: vi è sì la cronologia dei principali alpinisti e delle loro salite, ma questo appare a volte come secondario, un dato accessorio, perché (p. 29, II)
questo non vuole essere un trattato di psicologia dell'alpinista, o forse vorrebbe anche esserlo
ed in effetti lo è! Molto interessanti da questo punto di vista sono le prime 40 pagine circa, dove Motti indaga il rapporto Uomo-Natura, Uomo-Montagna, Alpinista-Vetta, per giungere a chiedersi il perché delle fatiche e dell'eterna insoddisfazione che spesso affligge l'alpinista, che sovente non si sente inserito nella vita di tutti e di tutti i giorni (p. 9) e che, giunto in vetta, prova la breve illusione di essere al di sopra di tutte le cose mortali. Ma non sempre è così (p. 9). Perché (p. 13):
la si era vissuta [la vetta] come meta finale e liberatoria, quasi assoluta nella sua purezza. Per raggiungerla si è dato tutto, si è lottato fino allo spasimo [..]. Invece una volta giunti in vetta si comprende purtroppo che era solo un sogno, un fantastico sogno che si è cercato di materializzare nell'immagine della scalata: in vetta però non vi è nulla, vi sono pochi metri quadrati di roccia o di neve, sovente ci si sta anche scomodi, fa freddo, tira vento e forse non si vede alcun panorama. [...] In ogni caso la discesa il più delle volte sarà uno squallido rito da consumare, uno stanco e mesto ritorno verso usi e abitudini di un mondo mediocre e insoddisfacente dal quale si era creduto di fuggire con la scalata.
A questo punto, urge un minimo di contestualizzazione. L'ambiente alpinistico italiano di quegli anni era ad un punto morto, e Motti coglie lucidamente la crisi: le cime, le pareti, le vie delle Alpi sembrano sature di possibilità, ed il desiderio di "avventura" spinge ad un ulteriore aumento della difficoltà (ripudiando i mezzi artificiali, su cui torneremo), all'alpinismo solitario o invernale, o verso le montagne extraeuropee e gli Ottomila. Ma questo vuol dire elevare in maniera significativa il rischio e la fatica. A ciò sommiamo il fatto che tutto il pattume retorico degli anni Trenta sull'alpinismo eroico, la lotta coll'alpe, il sacrificio (che invero ha infettato anche altri e ben più importanti ambiti), comincia finalmente ad apparire per quello che è anche tra gli alpinisti, o almeno alle giovani generazioni (Motti è nato nel 1946), che cercano un senso diverso al loro andar per monti.
Le soluzioni che Motti vede germogliare sono diverse: ovviamente si può continuare lungo il filone tradizionale (e si cita l'esempio di Messner, riportando alcune simpatiche note in sinistrese sulla collettivizzazione e la critica materialista), oppure ci si può volgere verso un alpinismo spogliato del carattere retorico e drammatico, la pace coll'alpe di Carlo Possa, dove (p. 15)
appare chiaro il fine di smitizzare l'alpinismo e di umanizzarlo rendendolo un fatto sociale e non più individuale [...], portandolo alle masse come sana attività creativa e sportiva non alienante e soprattutto non asservita alle strumentalizzazioni del sistema (sul che si possono nutrire dubbi molto fondati...).
Si identifica infine una terza via, ispirata a quanto in quegli anni si sta compiendo in Yosemite (pp. 17-18), dove gli alpinisti non si pongono questi problemi:
Per essi arrampicare è (o per lo meno dovrebbe essere) un gioco [nota: nel 1979 uscirà la famosa guida Il gioco-arrampicata della Val di Mello di Ivan Guerini], dove non esiste una meta da raggiungere, ma semplicemente la gioia che si trae dall'arrampicare stesso. [...] È un gioco che può essere magnificamente condotto sulle solari muraglie granitiche della Yosemite Valley (California) o sulle fantastiche scogliere delle Calanques [nota: ormai untissime].
Vi è però un grande pericolo che si cela nella pratica di questo tipo di alpinismo: si può correre il rischio di mantenere la stessa ideologia dell'alpinismo tradizionale, trasferendo il simbolo della vetta nella difficoltà del singolo passaggio. La meta da raggiungere e superare non è più la vetta, ma la lunghezza di corda o il passaggio difficile e sempre più difficile [...]. Così si genera una competitività con sé stessi ed un'angoscia di caduta ancora peggiore, sfociando quasi sempre nel tecnicismo più esasperato e nell'arido atletismo.
Si potrebbe dire che questa previsione si è avverata nell'arrampicata sportiva, anche se non bisogna dimenticare che il vituperato arido atletismo da falesia, portato sulle grandi pareti, ha giocato e gioca un ruolo fondamentale anche nell'evoluzione dell'alpinismo. Ad ogni modo, Motti riconosce il carattere anarchico dell'alpinismo, e lascia la soluzione (personale) di questo dilemma a ciascuno di noi.
Prima di iniziare con la Storia vera e propria, c'è ancora tempo per discutere del problema della difficoltà e degli inevitabili confronti tra alpinisti di ieri e di oggi. Motti insiste (e lo ripeterà molte volte nella trattazione, ad esempio per la salita della Cima Grande di Lavaredo e della E del Gran Capucin) sul carattere di rottura psicologica delle imprese principali, perché dopo la prima salita (p. 35)
a coloro che la vorranno ripetere [la via] apparirà già più addomesticata, più fattibile. In pratica non esisteranno più incognite sulle possibilità di realizzazione, ma unicamente difficoltà da superare. Ormai esiste la sicurezza di salire dove altri sono già saliti: una specie di incantesimo si è rotto, l'ignoto diviene conosciuto e dall'opera d'arte dei primi o del primo salitore rapidamente si passa al lavoro tecnico e atletico di chi segue e ripete.
Ogni epoca ha il suo limite, e indubbiamente oggi le difficoltà superate sono maggiori rispetto al passato (ci mancherebbe altro!), ma se caliamo le azioni nel loro tempo non vi è differenza, perché (p. 37) durante tutta la storia umana, l'abbattimento di un limite ha richiesto sempre lo stesso tributo di impegno fisico e psichico. E oggi? Dopo una critica sociale che sa un po' di "controcultura" anni '70 (ma non è da buttare), con l'alienazione, la presa di coscienza delle masse (oggi rintronate da TikTok), l'ideologia competitiva del sistema, si identifica nell'alpinismo (grazie alla libertà e al contatto con la Natura) una valvola di sfogo per fuggire allo squallore delle gerarchie aziendali e burocratiche (p. 44; Gian Piero sorriderà se dico che la frase suona oggi un po' Fantozziana). Il risultato di questa corsa alla montagna è validissimo anche oggi (basta sostituire l'alpinismo con lo sci o i trekking più alla moda):
Il risultato visibile è che tutta la catena alpina sta subendo un'aggressione violenta che non ha precedenti, dove ciascuno cerca di farsi spazio a gomitate. Tutti vogliono vincere, tutti cercano il loro giorno da leone, costi quel che costi, scaricando nell'alpinismo torrenti di violenza repressa [...]. Purtroppo le Alpi stanno diventando un gigantesco «luna-park» ed una pattumiera di colossali proporzioni [...]. E, cosa ancora più grave, gli incidenti sono innumerevoli [questi concetti sono ripresi alle pp. 94-95 del volume II].
Dopo questa lunga premessa, la Storia si dipana come di consueto, dal Monte Bianco alla transizione da alpinismo scientifico dei pionieri a quello romantico, dalle alpi occidentali alle Dolomiti dove nasce il piacere dell'arrampicata pura, ma sempre facendo attenzione al contesto sociale in cui le imprese alpinistiche si svolgono (si legga la discussione a p. 104, dove pure non manca qualche giudizio un po' pesante sulla società tedesca dell'epoca, o quella a p. 20 del volume II sulla salita alla N dell'Eiger o ancora a p. 39). Si arriva così alla salita del Dente del Gigante nel 1882 che, com'è noto, riuscì solo con l'aiuto di mezzi artificiali. Se sul fatto specifico Motti sorvola, esprimendo soltanto un giudizio di valore estetico e non certo etico (p. 172), torna prepotentemente sulla questione parlando di Preuss (pp. 203-204):
Non è vero che in questo genere di scalata [artificiale] non esiste l'avventura, ma esiste soltanto durante la prima ascensione, quando il capocordata deve fare un vero e proprio studio delle fessure da seguire, dove la scelta di ogni chiodo comporta esperienza, astuzia, ingegno e intelligenza, dove esistono tutte quelle incognite di passaggio e di impossibilità di ritirata che sono presenti anche nell'arrampicata libera. A meno che si accetti l'uso del chiodo ad espansione, nel qual caso l'avventura è veramente finita. [...]
Nella ripetizione di una via artificiale rimane il fattore atletico, che può avere indubbiamente i suoi aspetti piacevoli e positivi [...]. Comunque, nel salire lungo una fila di chiodi già piantati da altri, oppure nel piantare chiodi sfruttando gli evidenti segni di chiodatura lasciati dalle cordate precedenti vi è ben poca avventura, ma il più delle volte solo un lavoro noioso e monotono che non dà alcuna sensazione di libertà e leggerezza.
Il giudizio mi pare un po' ingeneroso, ma ricalca quanto detto sopra per l'arrampicata libera. Bisogna però rimarcare che le prime salite in artificiale (quando non sono solo un mezzo per cercare di salire dove non si passa più in libera) costituiscono (p. 207)
un'esperienza di estremo interesse: per la lentezza assoluta dell'azione, per le pause molto lunghe che separano l'azione stessa, per il controllo nervoso che la progressione richiede. Una somma di fattori che fa di una salita su una grande muraglia granitica o calcarea un sorta di «viaggio» nel subconscio, una specie di via per autoconoscersi.
Anche questa insistenza sull'artificiale va contestualizzata. La percezione (che peraltro si verifica in ogni epoca) di essere giunti al limite delle possibilità aveva portato negli anni 60-70 ad un impiego massiccio del chiodo ad espansione e della progressione artificiale (ricordiamo il celeberrimo assassinio dell'impossibile di Messner del 1968), fino alla riscoperta dell'arrampicata libera e al riconoscimento che (p. 206)
vi sarà progresso [...] quando le pareti che noi abbiamo vinto a vinciamo con abbondante uso di chiodi e di staffe saranno scalate da un arrampicatore solitario senza alcun mezzo artificiale.
Molto meno convincente mi pare invece la divagazione psicanalitica che segue, con la montagna come Grande Madre, i traumi infantili e l'angoscia di castrazione (che compare anche nell'analisi su Ruskin a p. 64), il chiodo come metafora della penetrazione e via dicendo (anche perché avrei qualche problema ad applicarla all'alpinismo femminile). Motti nutre ovviamente un grande interesse per la psicanalisi, che applica costantemente (si vedano ad esempio i capitoli riservati a Cassin, Gervasutti, Bonatti, e la parte su Hemming), senza dimenticare l'antipsichiatria (quella di Cooper e Laing, non quella dei cialtroni) e la sua critica al concetto di normalità. Un altro degli interessi di Motti che emerge periodicamente è quello per le filosofie orientali (contrapposte al freddo razionalismo citato più volte) ed il loro rapporto diverso con la Natura, la rinuncia alle cose materiali e l'ascesi (soprassediamo sull'ampia documentazione scientifica che comproverebbe chiaroveggenza, telepatia e compagnia bella; d'altronde nemmeno oggi la Scienza gode di ottima salute...), che lo rendono simpatetico verso Rudatis e la sua filosofia, dove (p. 239)
l'alpinismo e soprattutto l'arrampicata estrema erano il mezzo ideale per superare sé stessi, per uscire dalla vile condizione soggetta al destino e per scoprire una dimensione di libertà in cui ci si riuniva a tutte le forze del cosmo.
Ci sarebbero poi da notare un paio di punti che in retrospettiva fanno rabbrividire, in cui si può forse leggere il dramma di Gian Piero di ritornare da dove è venuto, ma il rispetto e l'affetto che tutti gli portiamo anche se non l'abbiamo conosciuto personalmente ci fanno fermare qui, chiudendo con un monito validissimo anche oggi (p. 277):
L'alpinismo è una delle più belle manifestazioni anarchiche che esistano sul pianeta, e tale deve rimanere: senza leggi, senza regole, senza imposizioni dall'alto, senza padroni e senza padreterni. Sarà merito degli alpinisti di oggi e domani combattere una lotta accanita contro ogni forma di strumentalizzazione, sia che venga dall'interessatissima industria, sia che venga dai confini politici di destra e di sinistra. I caratteri più belli e genuini dell'alpinismo sono la ricerca appassionata e forse disperata di libertà, l'insofferenza per ogni regola umana e per ogni legge che non sia dettata dalle forze supreme della Natura, la ricerca di spazio e di infinito, il desiderio di entrare in armonia con le forze cosmiche e terrestri. La vita di oggi cammina verso una pianificazione che porta all'esatto contrario.
Ricordiamo infine che nell'edizione 2013 di Priuli e Verlucca (dove sparisce la parte sullo sci e si aggiunge - ma perché? - un "La" al titolo) è presente un capitolo aggiuntivo di aggiornamento a cura di Enrico Camanni.
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