sabato 12 marzo 2022

Treni 2218 e 2275 (Bergamo-Milano Lambrate): ritardi gennaio-febbraio 2022

Fig. 1: distribuzioni cumulative dei ritardi per il treno 2218 delle 8:02
nei bimestri gennaio-febbraio dal 2015 al 2022.
Fig. 2: andamento mensile dei ritardi per il treno 2218 (8:02).
Fig. 3: come in Fig. 1, ma per il treno 2275 delle 17:41.
Fig. 4: come in Fig. 2, ma per il treno 2275 delle 17:41.
Fig. 5: questi manco sanno perché i loro treni fanno ritardo!!
La notizia... no, la comica del bimestre è una mail del 2/2 di Trenord diretta agli sfortunati pendolari, come se non gli bastassero le altre sciagure che subiscono per causa di questa nefasta azienda. Se proprio ne desiderate copia, chiedetemela. La mail è una di quelle excusatio non petita (con quel che ne consegue) che fanno incazzare fin nel profondo. Contiene alcune (poche) cose sensate, tipo la carenza di personale ed il calo di traffico dovuti al Covid, la saturazione della linea (piena quasi come le palle dei pendolari), ma poi si arrampica sugli specchi per contrabbandare i soliti indici di puntualità misurati un po'... ad minchiam (cioè a modo loro; si veda il rapporto del Politecnico già indicato nelle puntate precedenti...) e piazzare alcune affermazioni che paiono trovate da avanspettacolo, ad esempio che nel periodo 2018-2021 la puntualità sarebbe aumentata (davvero??) e le soppressioni di treni diminuite (dite sul serio??), che tutto sta migliorando (certo, basta misurare i ritardi come fa comodo...) e chi dice il contrario è in malafede. Nella mail si afferma senza pudore che la puntualità negli anni 2018/19/21 è del 78%, 80% e 84%; valori decisamente opinabili! Ora, come detto più volte, i dati su due treni potrebbero non essere rappresentativi del totale, ma certo non sono incoraggianti: se guardiamo le figure 4 e 8 qui, vediamo dati reali ben diversi: la media sui due treni è 23%, 30% e 17%! Se poi stiriamo la definizione di puntualità includendo 5' di ritardo (assurdo: è il 13% del tempo di percorrenza!) si ha 47%, 77%, 74%. Nello stesso link si vede poi distintamente che le ore di ritardo continuano ad aumentare anno dopo anno; dov'è il miglioramento? Nello stipendio di chi firma quella mail?
Naturalmente il 2022 non va meglio; anzi! I ritardi del 2218 (Fig. 1) sono pure peggiori che nel 2021: puntualità al 10% (al 56% entro 5' di ritardo), massimo ritardo pari a 46 (quarantasei!) minuti: lontanissimi dagli standard minimi di decenza, come si vede in Fig. 2, e in particolare dalla curva verde (che va allegramente fuori scala a gennaio!).
Nel pomeriggio non ci sono tracce di miglioramento. Si vede chiaramente (Fig. 3) che il dato è inqualificabile; il peggiore con l'esclusione del 2018: puntualità al 14% (al 50% entro 5') e ritardo massimo di "solo" 28'. Inutile commentare il trend mensile di Fig. 4 senza che cadano... diciamo le braccia!
Se la puntualità proprio non si riesca a garantire, a Trenord devono aver sviluppato un notevole senso del comico, non solo per la mail di cui sopra, ma per gli avvisi alla clientela, tipo quello in Fig. 5: il treno ritarda, ma non si sa perché! Come si potrà mai essere in grado di fornire un servizio accettabile?

Nota: i dati sono raccolti personalmente o da app Trenord. Per correttezza, bisogna specificare che i ritardi sopportati dai pendolari su questi due treni non sono indicativi dei ritardi complessivi, che sta ad altri raccogliere e rendere pubblici. Idem per i rimpalli di responsabilità tra Trenord, Rfi, e quant'altri. Qui si cita Trenord in quanto è ad essa che i poveri pendolari versano biglietti ed abbonamenti, e ai quali dovrebbe rispondere del servizio.

domenica 6 marzo 2022

Sociologia del gusto letterario

di Levin Ludwig Schücking
Rizzoli, Milano, 1977 (1a ed. italiana 1968)
Traduzione di Vittoria Ruberl
All'artista la fede nel trionfo finale del Bene sarà forse utile, ma lo storico della letteratura e il sociologo che l'accettino senza riserve mancano di senso critico. A chi crede nel trionfo del Bene si può solo opporre il dubbio se non accada spesso proprio il contrario, che cioè quello che ha trionfato venga poi considerato come il Bene.
Mettiamo subito le mani avanti e diciamo che il titolo fa molto "anni sessanta", con l'annessa aura di mattone illeggibile. Niente di più sbagliato: il volumetto di poco più di 100 paginette scorre piacevolmente e presenta un'interessante visione del rapporto tra il gusto letterario/artistico e la composizione sociale. La domanda di partenza è semplice: cosa determina il gusto di un'epoca? Perché certi autori sono osannati in un dato periodo storico per poi finire nel dimenticatoio, e viceversa?
L'analisi di Schücking ha il pregio della concretezza, e parte dal rapporto tra artista e pubblico nei secoli passati: nel Medioevo il maggiore (se non l'unico) committente dell'artista è il nobile, l'unico che possa garantirgli una sopravvivenza, sì che per molti secoli la poesia è stata una specie di bel parassita degli alberi all'ombra dei quali fioriva la vita politica ed economica (p. 16). Salvo rare eccezioni di mecenatismo illuminato, l'artista produce opere per l'aristocrazia, opere che ne rispecchiano i valori tradizionali (come tradizionale è il mantenimento dei privilegi): l'arte deve tener conto del pane (p. 22). Le cose iniziano a cambiare con l'ascesa della borghesia, che consente all'artista di svincolarsi dal mecenate per rispondere ad un pubblico più vasto; questo processo si realizza secondo LS dapprima con il teatro elisabettiano, e intorno al '700 per la letteratura (e, aggiungerei io, anche per la musica). Da lì, lentamente, con la crescita del pubblico cresce anche la considerazione sociale dell'artista, che nella seconda metà dell'Ottocento assurge addirittura a vate, a individuo di sensibilità superiore, soprattutto nella poesia. L'artista si svincola così dal pubblico e non deve accettare consigli dagli sciocchi. Il tempo rovescia il giudizio della folla idiota (p. 34, frase attribuita a Shelley). Dal genio sopra la folla si giunge così all'estetismo e all'arte per l'arte, che risponde solo ad una funzione estetica e dove il pubblico è ammesso solo come estimatore (e sostenitore).
Siamo quindi alla fine dell'Ottocento e alla nascita del naturalismo, il più grande cambiamento del gusto avvenuto da secoli (p. 40; l'autore si riferisce alla Germania), che fotografa la comparsa nella società di gruppi che si oppongono alla borghesia, ormai depositaria dell'arte "tradizionale". Secondo LS in quel periodo si assiste ad una disgregazione della società, conseguenza di vari fattori: inurbamento, aumento della scolarizzazione, diversità di condizioni economiche, che si riflette in una differenziazione di idee ed in un frazionamento di quello che il pubblico chiede all'arte.
Da qui in poi (siamo circa a metà libro) si passa all'analisi dei vari fattori che influenzano la produzione artistica. Per la nascita dell'opera d'arte si parla del rapporto (di accordo o contrasto) dell'artista col gusto dominante e dell'importanza delle scuole di pensiero, per la sua diffusione si discute del ruolo degli editori, del commercio librario e della pubblicità. Per bilanciare il ruolo non proprio oggettivo della pubblicità si inserisce la critica letteraria, che dovrebbe fungere da mediatore tra pubblico e artista, con un processo simile a quello che si è avuto nella religione, quando fra il fedele e la divinità s'inserì il sacerdote (p. 71). Qui LS si lancia in un pamphlet contro la critica, accusata di esautorare il pubblico da ogni giudizio e di metterlo sotto tutela dal punto di vista del gusto, in virtù di una sua - vera o presunta - incapacità di comprendere l'artista, accompagnando ciò ad una critica ai... chiamiamoli "eccessi" dell'arte contemporanea (anche se LS non la chiama mai in questo modo):
Sono infatti venute meno le premesse implicite del termine "genio", e chi fa dell'arte pretende a tutti i costi che si approvi il suo gusto. Una perfetta dittatura del gusto ci prescrive di trovare bella l'espressione degli istinti di chi pretende di essere artista, qualsiasi forma egli ritenga opportuno scegliere a questo scopo. [...] Così l'arroganza del re sopravvive nelle pretese degli artisti (p. 80).
Se entrate in un qualunque museo e visitate la sezione di arte contemporanea, qualche simpatia per la veridicità di queste affermazioni vi verrà. L'ultima parte è destinata all'accoglienza da parte del pubblico, dove si riprendono un po' i concetti precedenti, con qualche excursus interessante sul pubblico maschile e femminile, sull'esistenza o meno di opere d'arte "universali", e sul ruolo dell'Università e della scuola nella formazione del gusto, identificate come "custodi della tradizione" dall'autore.

L'unico neo di questa trattazione è la sua età: l'opera nasce nel 1923 ed è "risistemata" nel 1961 per un'edizione successiva: per questo la parte storica si ferma al naturalismo o poco oltre; manca praticamente tutta la contemporaneità, anche se è vero che molte delle affermazioni mantengono una validità anche oggi. Ogni tanto non si può non provare un senso di tenerezza (come quando si sentono i nonni raccontare), ad es. quando LS sembra dispiacersi (p. 46) che oggi i giovani non si creano più un'immagine rosea l'uno dell'altro gettando sguardi furtivi e spesso ingannevoli in quella che si ritiene l'altrui vita spirituale, in un raffinato ambiente mondano o in circoli di lettura, ma possono conoscersi a fondo nel mondo dello sport e in quello del lavoro, e pensare cosa direbbe delle numerose dating apps. Anche i numerosi esempi ed aneddoti che accompagnano l'illustrazione delle idee di LS, tratti dalla storia della letteratura e del teatro, con incursioni nell'arte figurativa, fanno spesso riferimento a figure oggi pressoché dimenticate: un esempio per tutti sono alcuni riferimenti al valore letterario di Annette Droste, che fu legata allo zio dell'autore. Senza volerci necessariamente vedere della malizia, ciò appare come una evidente dimostrazione della mutevolezza del gusto raccontata dall'autore stesso. Inoltre, molti riferimenti si rifanno all'area germanofona e inglese; la Francia vi appare sporadicamente, l'Italia conquista solo un paio di riferimenti a Dante e Petrarca, a dimostrazione del carattere provinciale della nostra letteratura nel quadro europeo. E dubito che questo sia cambiato negli ultimi 50-60 anni.

martedì 25 gennaio 2022

Riviera ligure di ponente DOC Rossese 2014 Anfossi

Dici Rossese e pensi subito a Dolceacqua. E invece no! O meglio, non solo: il Rossese si produce anche al di fuori dell'area attorno allo splendido comune della Val Nervia, allargandosi alle province di Imperia e Savona.
Tra i numerosi produttori si deve certamente menzionare Anfossi, azienda che opera dal 1919 vicino ad Albenga. L'azienda produce ortaggi, basilico, e vino, con una produzione annua di circa 70000 bottiglie. Pochi (quattro) i vini imbottigliati, il che va a mio parere a vantaggio di una focalizzazione sulla qualità. Tra essi, un unico vino rosso: questo.
Il vino nasce da uva Rossese in purezza ed affina in acciaio per sei mesi. Il colore è un rosso rubino, abbastanza chiaro. Aromi non particolarmente intensi, ma si percepisce la viola (non lo strumento musicale... a meno che non siate propensi ad un po' di sinestesia) e qualche frutto rosso. Al gusto si conferma un vino quotidiano nella sua accezione migliore: morbido, piacevole, con alcool ben calibrato e tutto sommato ben invecchiato (il vino, non l'alcool; cioè, non solo l'alcool). Il finale sfoggia il caratteristico sentore amarognolo del Rossese, che richiama subito alla mente i paesaggi del ponente, le colline a due passi dal mare, gli aromi che si incontrano appena ci si addentra nell'entroterra. E infine, altro punto da non sottovalutare, il buon prezzo di vendita.

Gradazione: 13°
Prezzo: 9€

lunedì 3 gennaio 2022

Pasto nudo

di William S. Burroughs
Adelphi, Milano, 2010 (1a ed. italiana Sugar, 1964)
Traduzione di Franca Cavagnoli

Ma la noia U.S.A. non ha eguali. Non si vede, non si sa da dove viene. Prendi una di quelle sale da cocktail in fondo a una via: ogni isolato ha il suo bar, il suo mercato e negozio di alcolici. Tu entri e lei ti stende. Ma da dove viene? Non il barista, non i clienti, non la plastica color crema che ricopre gli sgabelli davanti al banco, non la fioca luce al neon. Nemmeno la TV.
E poi alla noia ci si assuefa, così come ci si assuefa a dosi sempre maggiori di cocaina. La roba cominciava a scarseggiare. Eccoci dunque in 'sto buco di città a farci di sciroppo per la tosse. Per poi vomitarlo e andare avanti, sempre avanti, con il freddo vento primaverile che soffiava nella discarica intorno ai nostri corpi in astinenza, sudati e tremanti, e il freddo che sempre senti quando nel corpo non circola più la roba... avanti attraverso il paesaggio sbucciato, armadilli morti in mezzo alla strada, avvoltoi sopra la palude e ceppi di cipresso. Motel con pareti di compensato, riscaldamento a gas, sottili coperte rosa.
Forse il modo migliore per iniziare a parlare di questo libro è descriverne la genesi. Tutto nasce da una fuga in Messico (pare per evitare problemi a seguito di un traffico di droga) che l'autore compie con la moglie, Joan Vollmer, da noi sconosciuta, ma in realtà personaggio importante della beat generation. Il matrimonio non è propriamente tranquillo, tra alcool e droghe di cui entrambi fanno uso, e tendenze omosessuali di lui sempre più esplicite. Fatto sta che la sera del 6/9/51, ad un party, William le spara. La prima versione fornita è che i due stessero giocando a Guglielmo Tell, ma lui - ubriaco - sbaglia mira. Poi, cambia versione (te credo!!) e parla di un incidente. Fu condannato a due anni con la condizionale (la vicenda è raccontata ad esempio qui).
Negli anni successivi WB vive tra Messico, Europa e la Zona internazionale di Tangeri, dove, tra le allucinazioni della tossicodipendenza, scrive una serie di note che saranno poi "riordinate" e integrate, diventando Pasto nudo.
Riassumere la trama è alquanto problematico, sia perché parliamo (anche) di allucinazioni e di deliri, sia perché secondo l'autore i diversi episodi raccontati possono essere letti in qualunque ordine; tuttavia, almeno la parte iniziale è abbastanza chiara: io partirei dall'ultimo (!) episodio, hauser e o'brien (p. 212), due poliziotti che tentano di arrestare il protagonista (uno dei tanti), il quale riesce a fuggire (vi risparmio i dettagli per non rovinarvi la lettura). Ora torniamo all'inizio e leggiamo della fuga da NY verso il west e poi il Messico. I primi episodi sono quelli più lineari, e sono secondo me tra i migliori dal punto di vista dello stile della scrittura (ma bisogna almeno citare i due aneddoti alle pp. 135-140 in uomini e donne qualsiasi).
Da qui in poi (e siamo solo a p. 32) la linearità della trama cede via via il passo alla potenza evocativa delle visioni e della paranoia, frammentandosi in episodi. Dal Messico si passa a Terralibera e poi a Interzona, un luogo traboccante di depravazione, dipendenza, esperimenti sadici e oscure trame politiche, dove si concentrano tutte le paure e i tabù dell'America (e non solo) di quegli anni (e non solo): omosessualità e promiscuità, relazioni interrazziali, violenza/tortura, sacrilegi, sinistri esperimenti "scientifici", il tutto inframmezzato da umorismo (nero) e tratti paradossali (la gara di degradazione, l'uomo vestito da pene ambulante, etc.).

In questi episodi si possono identificare alcuni temi ricorrenti: uno è certamente quello del controllo, esercitato tramite droga, soldi, sesso, su su fino alla burocrazia peggio-che-kafkiana del sistema totalitario di Annexia (p. 33), alle pratiche mediche di ricondizionamento del dott. Benway e al Congresso internazionale di psichiatria tecnologica (p. 112) dove si presenta l'uomo "deansiogenizzato", ovvero lobotomizzato. Più e oltre che una parodia critica dei sistemi totalitari e una visione paranoica dell'apparato statale (che prenderà piede tra i postmoderni), mi pare che l'ossessione di WB sia rivolta ai potenziali condizionamenti che la tecnologia può operare sul cervello (ricordiamo che in quegli anni si sviluppano i primi mainframe computer): nella Conferenza nazionale di Elettronica di Chicago (p. 164) un oratore dice (tra la felicità dei somari che oggi blaterano sui microchip sottocutanei):
Poco dopo la nascita un chirurgo potrebbe installare delle connessioni nel cervello. Si potrebbe inserire un radioricevitore in miniatura in modo che i trasmettitori controllati dallo Stato possano controllarlo a loro volta. [...] Come vedete il controllo non può mai essere un mezzo per perseguire un fine pratico... non può mai essere un mezzo per perseguire qualcosa che non sia un controllo maggiore... come la droga.
Accanto alla tecnologia ci sono ovviamente le leggi, le religioni (tutte ridicolizzate in diversi passaggi sacrilegi), le istituzioni, la burocrazia (assimilata al cancro). Da notare en passant come la distopia tecnologica non vieti a Burroughs di intravedere qualcosa (p. 70): Tra un po' le operazioni si faranno col telecomando su pazienti che non vedremo nemmeno... non faremo altro che premere bottoni, e, in tutt'altro ambito, assai poco politicamente corretto, la Islam Inc. (p. 152) dove i martiri nazionalisti con le granate su per il culo si frammescolano ai convenuti e di colpo esplodono causando ingenti perdite di vite umane.

Un secondo tema è quello del male, stigmatizzato dalle scene di violenza, mutilazione, linciaggio, malattia, putrefazione, ripetute alla noia (viene in mente De Sade). Se non vogliamo fermarci all'intenzione deliberata dell'autore di urtare qualunque lettore (che pure esiste), se vogliamo trovare un significato allegorico (ma non tutti sono d'accordo), possiamo rifarci all'interpretazione data a questi passaggi sin dagli anni del processo per oscenità, che nasce da quanto dice l'autore riguardo al titolo (p. 239): pasto NUDO - l'istante, raggelato, in cui si vede quello che c'è sulla punta della forchetta, ovvero il momento "della verità", in cui ci rendiamo conto di ciò che accade nel nostro mondo, di come funziona la nostra società. WB ripete ossessivamente queste scene ispirando disgusto e repulsione; repulsione per le scene, ma soprattutto per l'oscenità del mondo reale (alla quale, ad essere pignoli, lo stesso WB non era del tutto estraneo, visto che raccontava l'omicidio della moglie come "necessario" alla sua nascita come scrittore, ma su questo ci sarebbe molto da dire). Certo, leggere la "battuta" a p. 181 su quelli che danno fuoco ad un nero e non pagano la benzina è rivoltante, ma è così diverso da quello che è successo a Emmett Till e tanti altri? E mettere la sedia elettrica in un museo della prigione o venderne modellini da costruire (accade veramente, ma mi rifiuto di indicare i link!) non è altrettanto schifoso, roba che non sarebbe venuta in mente nemmeno a Burroughs? Impossibile o quasi citare dei brani senza essere censurati; limitiamoci a questo, nel finale (p. 226):
I senatori balzano in piedi e invocano berciando la Pena di Morte con l'inflessibile autorità della fregola virale... morte per i tossicomani, morte per i froci (intendo i maniaci del sesso), morte per lo psicopatico che offende la carne intimidita [...] La manica a vento nera della morte ondeggia sulla terra, sentendo, annusando il crimine della vita separata, motori della carne raggelata dalla paura tremano sotto un'ampia curva di probabilità...
Le parti che dopo 50 anni appaiono meno problematiche sono quelle relative al sesso, escluso quando (spesso...) si colora di sadismo, e dove traspare un bel po' di misoginia. Vale però la pena di spendere due parole sulle aggiunte al testo: la lucida Testimonianza di una malattia (scritta in occasione della prima edizione americana nel 1962) e la Lettera di un supertossicomane da droghe pericolose (scritta negli anni di Tangeri), forse aggiunti per tentare di evitare la censura. Ci sono poi le Riflessioni su una deposizione (1991), dove il significato del libro cambia ancora, dall'abuso di stupefacenti all'uso della guerra alla droga da parte dei governi per reprimere gli individui (p. 253):
Ora l'isteria antidroga si è diffusa in tutto il mondo e rappresenta ovunque una minaccia mortale per le libertà personali e per la corretta applicazione delle garanzie di legge.
Comunque la si voglia vedere, io leggerei queste parti prima della parte testuale del libro, a mo' di introduzione. E, per finire, un commento al volo (ma ci sarebbe da parlarne a lungo) sulla versione cinematografica di David Cronenberg del 1991, che in realtà non è e non vuole essere un (impossibile) adattamento del libro, ma una riflessione sulla sua genesi, o sulla genesi dell'opera d'arte in generale, con elementi biografici di WB (l'omicidio della moglie, anche qui letto in chiave discutibile di affermazione artistica), parti tratte da altri lavori e lettere, e un notevole contributo originale del regista (ad es., tutta la parte sulla mutazione delle macchine da scrivere). Peccato solo per il pupazzone che rappresenta il Mugwump (il Moscibecco in questa traduzione italiana), che ha ben poco a che vedere con le allucinazioni del libro.

sabato 1 gennaio 2022

Treni 2218 e 2275 (Bergamo-Milano Lambrate): ritardi novembre-dicembre 2021 e riassunto annuale

Fig. 1: distribuzioni cumulative dei ritardi per il treno 2218 delle 8:02
nei bimestri novembre-dicembre dal 2015 al 2021.
Fig. 2: andamento mensile dei ritardi per il treno 2218 (8:02).
Fig. 3: come in Fig. 1, ma per il treno 2275 delle 17:41.
Fig. 4: come in Fig. 2, ma per il treno 2275 delle 17:41.
Bimestre novembre-dicembre 2021:

La "notizia del bimestre", anzi dell'anno, stavolta la do io, anticipando quanto andremo a vedere: rullo di tamburi... attenzione, attenzione... ce l'abbiamo... anzi, ce l'hanno fatta: è stato superato il muro delle cinquanta ore di ritardo annue!! Lo so che tutti pensavamo che sarebbe stato difficile fare peggio del 2020, che era peggio del 2019, e invece... l'accoppiata Trenord/Rfi non ci ha deluso e ha chiuso l'anno in... enorme ritardo!

Che le cose non andassero proprio secondo l'orario scritto per quei creduloni di pendolari lo si vede già dal mattino: la Fig. 1 dice chiaramente che il 2218 si è comportato allo stesso modo che nel 2018, dove però i ritardi erano dovuti (così ci dicevano...) all'incidente di Pioltello; sarebbe interessante sapere quale incidente sia successo quest'anno. Riassumiamo: puntualità al 6% (SEI!!), ritardo entro 5' per il 17% (quasi un treno su sei, gli altri fanno peggio), massimo ritardo di 31'.
La pessima aria che tira la si vede in Fig. 2, dove è riportato l'andamento mensile: netto peggioramento di tutti gli indicatori (che già non erano brillantissimi) negli ultimi quattro mesi, con ritardo medio che arriva a 12 (DODICI) minuti a dicembre, ovvero il 32% del tempo di percorrenza nominale!

Voi mi direte: "Ma di sicuro il treno del pomeriggio ha fatto meglio!" "Sì, 'sto cXXXo!!" vi risponderei, additandovi malinconicamente la Fig. 3. Qui addirittura si riesce a fare peggio del 2018 più di una volta su tre, arrivando ad una puntualità del 6% pure qui, che sale al 43% entro 5' di ritardo. Massimo ritardo di ben 41 (QUARANTUNO) minuti; praticamente un raddoppio del tempo di percorrenza, che non ci sta nemmeno nella scala scelta per la figura.
Se guardiamo l'andamento mensile in Fig. 4 notiamo un'unica, magrissima, consolazione di questo desolante panorama è il non vedere in questo caso un deciso peggioramento, che però c'era già stato ad ottobre! Di fatto questo 2021 resta il peggior bimestre finale tra tutti quelli analizzati. Complimenti vivissimi!

Fig. 5: come Fig. 1, ma per tutti i 12 mesi.
Fig. 6: come Fig. 5, ma in scala lognormale.
Fig. 7: come Fig. 5, ma per il treno 2275 (17:41).
Fig. 8: come Fig. 7, ma in scala lognormale.
Fig. 9: ore di ritardo annue.
Riepilogo annuale:

Eccoci quindi giunti al fatidico momento di tirare le somme e di confrontare l'intero 2021 con i suoi predecessori. La Fig. 5 riporta la distribuzione cumulativa dei ritardi del treno 2218, come al solito su "scala normale". Si vede subito che l'anno è stato il peggiore con l'eccezione del 2018: puntualità al 6% (e dagli!), ritardo entro 5' per il 41% dei treni, ritardo massimo di 31 minuti.
Parentesi statistica: devo dire che questa rappresentazione mi ha sempre dato un po' fastidio, perché ovviamente una distribuzione normale non sembra tanto adatta per rappresentare i ritardi. Un altro approccio potrebbe essere quello di usare una distribuzione lognormale traslata, ottenendo la Fig. 6: direi che le distribuzioni sono ragionevolmente approssimabili con delle rette, a dimostrare che il modello funziona. Naturalmente le conclusioni sono le stesse della Fig. 5, visto che si tratta degli stessi dati in una diversa rappresentazione (e scala). Lo "studio" dell'andamento dei parametri della lognormale in funzione dell'anno lo rimando ad un'altra volta; mi limito a far presente che l'asse delle ascisse (i ritardi) è su scala logaritmica (traslata di 5' per evitare valori negativi)!
Guardiamo ora il 2275 (Fig. 7), iniziando con il classico approccio, ovvero su scala normale. Anche in questo caso si nota come l'anno 2021 si situi più a destra (quindi: male) rispetto alle altre curve, anche se la differenza appare meno marcata rispetto al 2218. Inoltre, si continua a notare un andamento a gradini, con dei "salti" separati tra loro nella regione di coda (problemi legati all'istradamento del treno?). Se infatti applichiamo anche qui l'approccio lognormale (Fig. 8), vediamo che l'accordo non è così buono come nel caso precedente, con le curve che si piegano dopo circa 5' di ritardo. Mi sa tanto che qui l'unico modo di spiegare i dati è il ricorrere a diverse distribuzioni (sempre che i ritardi di Trenord/Rfi siano "spiegabili"!).

E siamo giunti al gran finale, ovvero alla valutazione del ritardo totale accumulato durante l'anno: come preannunciato, e come si vede in Fig. 9, abbiamo infranto il muro delle cinquanta ore, con un aumento di poco meno di una decina di ore rispetto all'anno scorso! Si vede anche che l'importante traguardo che spinge questi treni della tratta Bergamo-Milano all'avanguardia del disservizio è dovuto ad un drastico peggioramento del treno 2218 del mattino (la giornata del pendolare si prefigura di m***a già alle 8:02). Al pomeriggio c'è stato un lievissimo miglioramento rispetto all'anno scorso, ma un peggioramento di quasi sei ore rispetto agli anni precedenti.

La domanda sorge spontanea: perché porsi dei limiti? Per il 2022 Trenord/Rfi possono puntare serenamente alle sessanta ore di ritardo; noi ci crediamo e siamo fiduciosi che con il duro lavoro ed impegno che contraddistingue questi treni, nessun ritardo sia impossibile. Impossibile è solo la puntualità!

Nota: i dati sono raccolti personalmente o da app Trenord. Per correttezza, bisogna specificare che i ritardi sopportati dai pendolari su questi due treni non sono indicativi dei ritardi complessivi, che sta ad altri raccogliere e rendere pubblici. Idem per i rimpalli di responsabilità tra Trenord, Rfi, e quant'altri. Qui si cita Trenord in quanto è ad essa che i poveri pendolari versano biglietti ed abbonamenti, e ai quali dovrebbe rispondere del servizio.

mercoledì 29 dicembre 2021

Riviera ligure di ponente DOC Pigato 2019 Vigneti a prua e Lupi

Ricordo, molti anni fa, qualche assaggio deludente di questo vitigno, che mi allontanarono per un po' dalla sua "frequentazione". Poi, con calma, mi sono riavvicinato ai suoi sentori erbacei e floreali, legandolo stabilmente insieme al rossese alle memorie delle mie "spedizioni" nel ponente ligure, ai capodanni passati tra la ricerca delle falesie a buchetti del finalese e di quelle verticali dell'albenganese (si dice?).
Se gli ultimi tempi non sono stati prodighi dal punto di vista dalla scalata per via di un infortunio ad un braccio, questo non ha inciso sulla capacità di usare un cavatappi (eccetto per i primi giorni) e un bicchiere. E così, tra una lunga serie di assaggi che non avrò mai tempo di riportare, c'è spazio per parlare di un paio di bottiglie di Pigato che mi hanno fatto compagnia di recente.

La prima bottiglia nasce dal marchio Vigneti a prua, che dovrebbe appartenere all'azienda Punta Crena, forse come ennesima private label per la GDO (ma non solo). Praticamente impossibile per me reperire informazioni (mi riprometto di farci un giro la prossima volta che passerò da quelle parti); l'etichetta sul retro indica l'imbottigliamento a Cisano sul Neva, retroterra di Albenga, ovvero una delle zone più vocate per il Pigato.
Il colore è un bel giallo paglierino un poco scarico; al naso presenta aromi floreali, limone, note di pesca bianca, mediamente intensi. All'assaggio è molto fresco e piacevole, con una buona acidità e qualche sentore minerale. Nel finale si aggiunge una nota un po' amarognola che rimanda vagamente alla mandorla, non spiacevole. Buona la persistenza.

Il secondo Pigato è dell'azienda Lupi, che produce vino da più di cinquanta anni con circa 70000 bottiglie all'anno. Qui siamo un poco più ad ovest e più all'interno rispetto ai Vigneti a prua; il vino nasce da vigneti di 30 anni, vinificato in acciaio (c'è anche il Vignamare che affina in barrique, ma tendenzialmente me ne terrò alla larga).
Il colore è più carico rispetto al precedente, con dei bei riflessi dorati assai invitanti. Anche l'aroma mi è parso più intenso, soprattutto sul lato fruttato; poi erbe, salvia ed agrumi (che vabbè, sono dei frutti, ma amen...). Molto piacevole all'assaggio, anche qui con un buon supporto acido.

Sono decisamente due Pigati da assaggiare e da ricordare!

Gradazione: 13° entrambi
Prezzo: 11 e 14 €, rispettivamente

mercoledì 15 dicembre 2021

Sui campi di battaglia - la nostra guerra

L'occhiello
Il re Vittorio Emanuele III
Luigi Cadorna
Armando Diaz
Pietro Badoglio
AA.VV.
TCI, Milano, 1931 (1a ed. 1930)

Parecchi anni fa, credo all'interno del Libraccio di Bergamo, rinvenni questo volume e lo acquistai al volo. Non tanto perché la sua versione della storia della Grande Guerra fosse particolarmente interessante, ma perché appena apertolo vidi tutta una serie di commenti manoscritti che mi fecero pensare che potesse essere appartenuto ad un ignoto reduce, forse un ragazzo del '99. Purtroppo non si tratta di ricordi o vere note personali che abbiano un qualche valore storico, ma in massima parte di sfoghi e insulti contro i generali italiani, scritti molti anni dopo i fatti. E, ad essere onesto, non ho prove che detti commenti siano di mano di un reduce e non di un semplice lettore, che però doveva essere stato molto vicino alla guerra, vista l'enfasi. In ogni modo, per omaggio a questi commenti ed al loro ignoto autore, stralciai questo volume quando un anno e mezzo fa, costretto in casa dalla prima ondata del virus, lessi (quasi) tutta la serie del TCI sui campi di battaglia della Grande guerra, ripromettendomi di dedicargli uno spazio separato.

Premessa: nonostante per lavoro mi trovi spesso a dover decifrare calligrafie che farebbero volentieri a meno del prefisso calli-, qui mi sono perso un bel po' di parole (suggerimenti sono ovviamente benvenuti). Apriamo quindi il libro. Nell'occhiello si legge:
Caro ricordo dell'Egregio Dott. Annibale Correggio[?] e molto [?], Cav. Vitt. Veneto oltre la dolorosa prigionia. Deceduto nel 1976.
Caro
[?]
A leggere questi raccontini fa stringere il cuore fra quelli che come lei hanno vissuto e provato - ragazzo del 99
1930 ancora tutta falsa propaganda niente verità, niente precisazioni reali
Poveri noi, poveri morti invano come ancora li vilipendono in questo falso libretto!! - ragazzo 99
Si legga il libro di
[?] Riflessioni e Ricordi senza nominare gli altri suoi stessi[?] che sono un monumento di onesta e triste verità - ragazzo 99
Le pagine del libro sono riempite di note e commenti critici (a dir poco) verso la versione ufficiale: le pinze tagliafili (p. 55) sono le famose pinze che sotto sforzo si piegavano i manici! A margine dell'elenco delle piccole azioni nella zona Carnia si legge (p. 67): tutta retorica e [?] frammentari raccontini delle varie sterili azioni, mentre riferito ai capisaldi di S. Lucia e S. Maria: mai potuti neanche un po' scalfire! Cadorna sei grande asino! e ancora il Luigi con tutte queste sterili offensive distrusse quasi tutto il suo stesso esercito! Fellone traditore! e così via. Assai lucida la chiosa all'affermazione (p. 25) secondo cui sacrifici ed eroismo "restituirono alla Patria i suoi termini sacri": fesserie. altri odi odi e null'altro, accompagnata da un esaltato e vile! riferito a Mussolini (p. 37).
Ma sono Cadorna e gli altri generali, con l'eccezione di Caviglia (il cui diario è citato spesso come fonte di informazione), ad essere coperti di contumelie nelle pagine con le loro fotografie: senza fosforo, come il grande Caviglia definiva questi ruderi di grandi condottieri. E se il gen. Etna se la cava (si fa per dire) con un giudizio poco lusinghiero (Non ispira fiducia! Sembra più un buon guardiano di buoi!!!), peggio va agli altri. Cominciamo con il re, che sulla fascia ha scritto: S. M. Fellone - [?] 8-9-43 la fuga. Tutt'intorno si legge
Sei morto in esilio ed hai proprio fatto una fine miseranda e ingloriosa

Girava sempre con una grossa macchina fotografica ma non ha mai fotografato le fucilazioni dei suoi fanti di S. Maria la longa perché reclamavano
(nota: ci si riferisce all'ammutinamento della brigata Catanzaro)

Un po' di riposo dopo mesi e mesi di trincea
Poveri fanti del 141-142 fant. Brigata Catanzaro

Al Piave non ti ho mai visto, perché?! Mentre l'Imperatore Carlo d'Austria andava sempre fra i suoi soldati

Mai una parola per fermare le fucilazioni indiscriminate del Luigi. Che stratega!!
Per "il Luigi", ovvero Cadorna c'è una bella croce sulla faccia e un breve giudizio poco lusinghiero:
Grande Condottiero fesso!
buono per il 1848!!
ignobile
[?] e fellone
mentre ci si domanda da dove fosse spuntato Diaz:
Si conoscevano i Generali Petitti di Roreto, Pecori Giraldi, quello della IV Armata Carnia e vari altri. Diaz era un illustre sconosciuto e fortunato

Ad ogni fatto grave aveva il mal di pancia!! Vedi Caviglia nel suo diario è preciso a pag 108-9
anche in una cartolina con il ritratto di Diaz c'è scritto: unico merito in tutta la sua vita: fortunatissimo!

Naturalmente nemmeno il gen. Porro se la passa bene: Sarà stato un gran prof di geografia intelligente ma asino a far la guerra e poi fesso forte! non si è mai sentito parlare da parte sua di strategia né di piani d'attacco. Ma più di tutti (non senza ragione) il bersaglio del nostro reduce è Badoglio. Alla firma Pietro badoglio del Sabotino, il monte è cancellato e si legge: non era opera sua! Geniale poi la sostituzione di Marchese del Sabotino con Marchese di Caporetto. Tutt'attorno si legge:
Abile intrigante!

Il fuggiasco g. 24-25-26 era a Caporetto più
[?] fuggito dove?

da cancellare dalla memoria questo fuggiasco tanto a Caporetto quanto nel 943 a Pescara prima del Re

è lo scaltro contadino!! avido di denari e venale in modo vergognoso!!!
Alla fine, non mancano alcuni commenti alla bibliografia: sotto il riferimento a Guerra di popolo di Delcroix si legge (riferito all'autore): caduto nell'oblio perché le sue ferite se le ha [sic] fatte da se per non essere stato capace di gettare una bomba a mano!!! Si definisce poi bellissimo ed esatto libro su Caporetto l'opera (che devo ancora leggere) di Pirazzoli ed esatta critica all'opera di quel fesso di Cadorna il libro di Ettore Viganò.

Resta il mistero su chi fosse l'autore: un reduce o qualcuno che era stato molto vicino ad uno di essi?

lunedì 6 dicembre 2021

Osteria storica Morelli

Interno del locale
Antipasto di salumi misti
Canederlotti ai funghi
Camoscio con polenta
Tortino di castagne
Piazza Petrini 1
Canezza di Pergine Valsugana (TN)

Troviamo la frazione di Pergine ov'è ubicato il locale sotto una pioggia battente, ed entrando sentiamo di essere finalmente in salvo: aspetto da osteria classica con attestati storici alle pareti, tavoli ben distanziati, unico neo il povero cervo imbalsamato, buono forse nell'800 ma non oggi, anche se l'osteria si dice storica. E lo può dire a buon diritto, vantando la sua origine al 1751, allargandosi di lì a poco a salumificio.
Se secoli fa era giocoforza appoggiarsi ai prodotti locali, oggi è una scelta consapevole, portata avanti con attenzione e ricerca. Il menù è infatti basato sui prodotti regionali, legato alle valli e alla montagna, con qualche proposta lacustre, con cinque-sei scelte per portata. Iniziamo dividendo un antipasto di salumi misti, stagionati in loco, molto saporiti e delicati, ai quali non avrebbero certo nuociuto un paio di parole di illustrazione (questo problema si presenterà per tutti i piatti).
Tra i primi spiccano ovviamente i canederli, sia in brodo che ai funghi, ma si può scegliere tra risotto, tagliatelle e casonziei. Entrambi optiamo per i canederlotti di funghi locali con fonduta di formaggi dei Lagorai: piatto buono, ma non come speravo. I canederli mancano un po' di gusto, mi sono sembrati opachi... per carità; un piatto onesto, ma non memorabile.
La lista dei secondi piatti è dominata dalla carne: vitello, castrato e camoscio. La scelta per me non può che cadere sul camoscio con polenta, e qui torniamo ad un ottimo livello: succulenti bocconi di carne, accompagnati da una polenta di mais spinato (qui chiamato semplicemente spin). Anche l'assaggio dello stufato di castrato conferma la qualità della materia prima e la potenzialità di una cucina fortemente legata alla tradizione e al territorio. Da segnalare anche il pane fatto in casa, servito in tre variazioni.
Tra i non numerosi dessert sono tentato dalla rosada, un antico budino, ma poi chissà perché vado a pescare un tortino di castagne che è buono, ma che potrei mangiare in cento altri posti. Mi rifarò la prossima volta.
Interessante la lista dei vini, ovviamente focalizzata sul Trentino. Manco a dirlo, vado dritto sul pinot noir, cercando qualche produttore ignoto (cosa non difficile). Pesco il Silbrarii di Villa Piccola, che fa sì un po' di barrique, ma per lo meno di secondo-terzo passaggio (ormai pare quasi impossibile trovare un vino non barricato, più difficile ancora che trovare un sommelier che sappia se i vini che ha in cantina facciano barrique o no). Il legno si sente un filo troppo, ma non in maniera esagerata: tutto sommato una scelta ragionevole.

Il conto: 113 € per
1 antipasto
2 primi
2 secondi
2 dessert
1 bottiglia di vino (25 €)
1 bottiglia di acqua
1 caffè

sabato 13 novembre 2021

Grande guerra, piccoli generali

di Lorenzo Del Boca
UTET, Torino, 2007

I soldati avevano un'altra storia da raccontare: indubbiamente parziale e frammentaria perché non riusciva ad alzare lo sguardo oltre i cinquanta metri quadrati dove ognuno di loro si sforzava di restare vivo, pur rischiando, ogni secondo, di non farcela. Lì non esistevano visioni strategiche né sguardi d'insieme ma non mancava il dolore, quello vero - straziante - perché apparteneva al compagno di camerata che, giusto il giorno prima, aveva raccomandato: "se non ce la faccio, manda questo alla mia famiglia..."
Questo è un libro che ha un'intenzione anche condivisibile, ma che la porta avanti in maniera talmente maldestra da ottenere l'effetto contrario! Scopo del libro, definito "scomodo" dall'autore, è mettere in evidenza l'impreparazione della classe politica e militare italiana di fronte alla Grande Guerra; per farlo però riduce tutta la storia della guerra sul fronte italiano a generali e graduati del tutto incapaci (o anche peggio: i dispregiativi non mancano) che mandano allegramente i soldati a morire, mentre nel resto del Paese albergano politici altrettanto inadatti, industriali truffatori, imboscati, ecc. ecc.
Intendiamoci: non sono cose inventate. È ormai risaputo (e non è scomodo dirlo) che le grandi battaglie isontine sono state delle carneficine, che l'impreparazione militare (soprattutto nel 1915, ma non solo) è costata migliaia di vite umane, che decisioni scellerate di generali (o anche semplici malintesi) sono state pagate a carissimo prezzo dalle truppe, e così via. Fa quindi bene l'autore a ricordare una serie di episodi tragici (con alcune interessanti denunce tratte da l'Avanti! dell'immediato dopoguerra), a rimarcare l'inadeguatezza (e anche la criminale colpevolezza) di alcuni figuri o il cinismo di Governo e Comando italiani verso i prigionieri di guerra, lasciati morire di fame per scoraggiare le diserzioni (tutti fatti peraltro ben noti).

Quello che non funziona è l'unilateralità. Tutto, ma letteralmente tutto, è piegato alla teoria dell'autore, senza che ci sia il minimo sforzo di stabilire una verità storica, di valutare spiegazioni alternative o anche solo di confrontarsi con quello, molto simile, che accadeva in altri teatri di guerra: sempre e solo un esercito formato da soldati comandati da imbecilli. Per questo è fondamentale leggere questo libro avendo accanto qualche altro riferimento, ad esempio questi due libri tra i tanti disponibili, su cui verificare alcune affermazioni. Ed i problemi nascono subito, già dal primo capitolo, dove leggiamo (p. 14)
E la riscossa di Vittorio Veneto esiste soltanto sulla carta perché, in quella settimana [...] non ci fu nessun assalto e nessuno sfondamento. Gli italiani avanzarono perché gli austriaci si stavano ritirando
Vado a prendere il libro di Pieropan: inizio della battaglia il 24 sul Grappa, primi tentativi sul Piave il 26, passaggio del fiume tra il 28 e il 29 per causa della piena e della resistenza nemica. Le perdite italiane (morti, feriti, dispersi) nell'ultima battaglia ammontano a quasi 37000 uomini (p. 848); certo molto meno dei circa 143000 dell'XI battaglia o dei più di 200000 inglesi di Passchendaele (anche loro comandati da asini?), ma non sono comunque troppi per una battaglia soltanto sulla carta? Gli ammutinamenti delle truppe ci furono (perlopiù di quelle ungheresi), ma nei giorni successivi, dopo che Caviglia era penetrato nello schieramento nemico. Ma Vittorio Veneto evidentemente non va giù a Del Boca, se alla fine del libro riporta una famosa fesseria di A. J. P. Taylor secondo cui (p. 213) a Vittorio Veneto gli italiani sbucarono dietro i francesi e gli inglesi. Facciamo due conti: 61 divisioni totali, di cui 1 francese e 2 inglesi; non serve aggiungere altro.
Il tono non cambia negli altri capitoli: si procede molto per aneddoti e divertenti pettegolezzi, meno per fatti. Si irride alla politica italiana del 1914, ma - a proposito di fedeltà e di cialtronate - non si ricorda che il gen. Conrad progettava un attacco a tradimento all'Italia già nel 1908, quando i due Paesi erano ben lontani dalla guerra, sfruttando la situazione conseguente al terremoto di Messina, per non parlare delle balle raccontate all'Italia la settimana prima dell'ultimatum a Belgrado (ancora Pieropan, p. 26). Si evidenziano tentennamenti, divisioni e quant'altro dando a tutti del somaro, ma non si dice che quello che affonda un accordo tra Italia e Austria non sono i continui rilanci dell'Italia, ma l'indisponibilità/impossibilità dell'Austria a cedere territori "etnicamente italiani" (come si diceva allora) pena la disgregazione dell'Impero, mirando invece a dilazionare l'inevitabile entrata in guerra dell'Italia con l'Intesa nella speranza di vincerla prima.
Un altro banale esempio del modo di procedere del libro lo troviamo a p. 45, dove leggiamo del gen. Caneva che
era nato a Udine e veniva dall'esercito austriaco. Se Vienna aveva lasciato che si congedasse, non doveva valere granché...
Ma che razza di deduzione è? E cosa avrebbero dovuto fare? Metterlo in galera per non farlo congedare (peraltro come sottotenente)? Pretendere di scrivere un libro scomodo farcendolo di insinuazioni è disarmante. E possiamo continuare con Cadorna, uno dei bersagli preferiti di Del Boca insieme a Badoglio ed al Re. Non ho simpatia per alcuno dei tre, ma nonostante il vergognoso bollettino a valle di Caporetto vorrei spendere due parole sul primo (gli altri sono oggettivamente indifendibili). A p. 68 si legge
Alla vigilia di Caporetto, [...] ai reparti italiani vennero ritirate le licenze, sospesi i permessi e raddoppiati i turni di servizio. Lui [Cadorna], dopo aver dato disposizioni ferree perché nessuno si muovesse dal suo posto, partì per Vicenza in una vacanza.
Il problema è che non è vero! Ancora Pieropan, dopo aver spiegato le vere ragioni del trasferimento a Vicenza, definisce questa ipotesi (p. 381) come dovuta a certa saggistica di parte, o quantomeno votata ad inguaribile pressappochismo. E ad un giudizio reiterato fino alla nausea di incapacità e criminalità degna del plotone di esecuzione (comprensibile se proferito dai soldati in prima linea, meno da uno storico a distanza di un secolo), preferisco quello assai più argomentato di Isnenghi/Rochat, di cui riporto la conclusione (p. 198):
Non ha senso addebitargli la strategia offensiva, gli orrori della trincea, gli esiti deludenti delle grandi battaglie: se si doveva fare la guerra, non era possibile farla diversamente. Gli si deve riconoscere la fermezza nella condotta della guerra e nello sviluppo dell'esercito; ma [...] la fiducia in sé, necessaria per comandare, divenne chiusura e disprezzo verso l'esterno. [...] L'aspetto più negativo (e più triste) [...] fu l'incapacità di rispettare i soldati, oggetto soltanto di repressione e di denunce, non mai di interesse e di riconoscimenti.
Si potrebbe continuare all'infinito, sulla Strafexpedition, su Caporetto, ecc. ecc., ma credo che il senso sia chiaro. Mi soffermo solo su un ultimo aspetto divertente, ovvero una certa idiosincrasia di questo libro per i nomi. Si comincia a p. 54 con il forte di Lucerna (che è invece Luserna, dove tra l'altro l'autore si dimentica di ricordare che anche gli austriaci spararono sui loro soldati all'apparire della bandiera bianca), ma poco prima (p. 50) era spuntato il fucile Metterli (che sarebbe poi Vetterli). A p. 146 compare il generale inglese Thomas Woodrow Wilson, che è il nome dell'allora Presidente degli USA, che diventa William di nome nell'indice finale, e che non compare nemmeno negli altri libri, dove c'è un Henry Hughes Wilson che dovrebbe essere finalmente quello giusto (ma di cui Robertson non era certo il secondo; altro svarione). E terminiamo con un Alessandro Diaz a p. 210 e, alla pagina precedente, con la fine anticipata della guerra: l'8 giugno 1918, a guerra finita... Speriamo che le edizioni successive abbiano corretto almeno queste leggerezze!

Resta giusto il tempo di notare che le considerazioni dell'autore non si fermano alla Grande Guerra; c'è spazio anche per le campagne d'Africa e per l'Italia di oggi, i futuristi, Dario Fo, e chi più ne ha, più ne metta. Riassumo: il libro contiene degli spunti interessanti e riporta fatti che è bene ricordare, ma è un libro a tema, che alla fin fine risulta altrettanto noioso di quelli improntati ad una stolida propaganda ai quali si vorrebbe contrapporre.

lunedì 8 novembre 2021

Ristorante Belvedere

Tortelli di zucca
Faraona al forno alle olive
Torta morbida al cioccolato e amaretti
Loc. Santa Lucia ai monti 12
Valeggio sul Mincio (VR)

Dal punto di vista gastronomico, Valeggio è conosciuta per la pasta ripiena, ed assai numerosi sono i pastifici ed i ristoranti dove la si può gustare. A ciò dovremmo aggiungere il vino coltivato nelle colline moreniche dei dintorni, parte delle DOC Custoza e Bardolino, ed ovviamente la vicinanza con la Valpolicella. Trovandoci a transitare per la zona, decidiamo quindi di fare una breve deviazione e ci dirigiamo al ristorante Belvedere. L'ora e la stagione ci impediscono di gustare il panorama richiamato dal nome del locale, e non ci resta che accomodarci direttamente al tavolo.
Il locale è accogliente e sembra un misto tra tradizionale e moderno, con i pavimenti in graniglia ed alcuni muri con mattoni a vista, ed altri particolari come il soffitto o i faretti che non sempre si intonano perfettamente. Qualche quadro ci ricorda che siamo nella zona delle battaglie risorgimentali, purtroppo non molto fortunate per le truppe italiane. La cucina è quella caratteristica del territorio (poi c'è la fiorentina, ma è un peccato veniale...), con predilezione verso le carni. Sette-otto scelte per portata.
Iniziamo con un antipasto di carne salata con fagioli (purtroppo non fotografata per via della fame che ce l'ha fatta sbranare) davvero delicatissima; così tanto che me la sono mangiata senza nemmeno un filo d'olio di condimento!
Tra i primi la fanno da padrone i tortelli, declinati in brodo, burro e salvia, e di zucca, o in alternativa i classici bigoli. Io non resisto alla tentazione dei tortelli di zucca in brodo, con una sfoglia sottilissima, molto gustosi e piacevoli.
La lista dei secondi piatti include il pollo alla griglia (pare sia una specialità del posto), la classica carne di cavallo, e del manzo. Io però mi oriento su un piatto che non mangio molto spesso, ovvero una faraona al forno con olive. Ottimamente cotta e molto saporita, è un'ottima alternativa ai piatti più comuni.
La proposta dei dolci include una torta di mele, millefoglie, gelati e sorbetti. Io scelgo una torta morbida al cioccolato ed amaretti molto buona, che conclude degnamente la cena.
La cantina è ben fornita, e ruota ovviamente attorno ai vini della zona e della Valpolicella. Scegliamo due Ripasso (Monti Gabri di Tenuta S. Antonio e I quadretti di La Giaretta), troppo forti per i tortellini ma ottimi con le carni... e del resto, chi poteva sapere all'inizio che avremmo scolato due bottiglie in tre, quando tutti i commensali si sperticavano in affermazioni del tipo: io bevo solo un bicchiere...

Il conto: 188 € per
2 antipasti
3 primi
3 secondi
2 contorni
2 dessert
1 caffè
1 bottiglia di acqua
2 bottiglie di vino (44 €)
2 grappini (9 €)

giovedì 4 novembre 2021

Alto Adige DOC Pinot noir 2013 Alois Lageder

Alto Adige e Pinot nero sono un connubio classico, fatto da un territorio bellissimo, con montagne da scalare, terme con Aufguss da frequentare, borghi da visitare, cucina e vini da assaggiare, e da un vino che qui ha trovato, senza nulla togliere alle pregevoli realizzazioni che spuntano sempre più numerose nella penisola (e ovviamente altrove), una patria d'elezione.
Tra i numerosi Pinot noir altoatesini degni di nota, spicca quello della cantina di Alois Lageder, che produce vini da una novantina di anni circa, e che da diversi decenni lavora in regime biodinamico i vigneti di proprietà, raccogliendo inoltre le uve da diversi viticoltori della zona.
La produzione riflette il territorio, con i classici Pinot bianco, Chardonnay, Traminer, Sauvignon, e gli immancabili Lagrein, Schiava, e ovviamente Pinot noir. Di quest'ultimo, la cantina produce tre esemplari: la linea base, il Mimuet, ed il Krafuss (parzialmente affinato in barriques). La versione base compie la macerazione in acciaio ed affina per 12 mesi in botti grandi e cemento.
Il Pinot noir non è vino da grande invecchiamento, ma otto anni sono un tempo ragionevole, ed apro la bottiglia senza indugi, ricordando la prima volta che assaggiai questa etichetta in un ristorante della Val di Fassa. Il colore è il classico rosso rubino, invitante, cristallino, con solo qualche riflesso granato.
Al naso si sentono piacevolmente i caratteristici frutti rossi, ma è all'assaggio che sembra quasi di bere il territorio altoatesino, con tutto il suo fruttato e delle note speziate e di terra, di sottobosco. Tannini morbidi, rotondi, in buon equilibrio, per un vino ancora fresco e piacevolissimo da bere, con una buona persistenza. Uno dei migliori Pinor nero dell'Alto Adige!

Gradazione: 13°
Prezzo: 14 €

sabato 30 ottobre 2021

Treni 2218 e 2275 (Bergamo-Milano Lambrate): ritardi settembre-ottobre 2021

Fig. 1: distribuzioni cumulative dei ritardi per il treno 2218 delle 8:02
nei bimestri settembre-ottobre dal 2015 al 2021.
Fig. 2: Andamento mensile dei ritardi per il treno 2218 (8:02).
Fig. 3: Come in Fig. 1, ma per il treno 2275 delle 17:41.
Fig. 4: Come in Fig. 2, ma per il treno 2275 delle 17:41.
La segnalazione del bimestre è relativa ad un articolo apparso su MilanoToday, Perché così Trenord è un disastro perenne, relativo allo sciopero di domenica 24 ottobre, che ha il solo difetto di avere un titolo fin troppo generoso. Riporto un paio di passi salienti: con la nascita di Trenord il monopolio ferroviario venne soltanto spostato (da nazionale o regionale), e di innovativo c’è solo il fatto che con i soldi dei contribuenti ai lavoratori vennero accordati trattamenti di maggior favore rispetto agli altri ferrovieri italiani, prima ancora di aumentare la produttività di sistema dell’azienda, sempre sotto di 20 punti rispetto a quella di aziende ferroviarie europee. E ancora: Il costo del treno/km lombardo è anche il più alto d’Italia. Da allora, nonostante tutto questo, si contano una decina di scioperi all’anno, e una crescita esponenziale dei disservizi (ritardi e soppressioni dei treni).

Che il servizio sia ben peggio che disastroso lo sanno da sempre i pendolari, e ne ha avuto ulteriore conferma - di cui avrebbero volentieri fatto a meno - chi è salito sui due treni in esame in questo bimestre, il peggiore degli ultimi sette anni! Le cose cominciano male già dalla mattina, come si vede in Fig. 1: puntualità al 7% e al 27% entro 5', ritardo massimo di 23 minuti; di fatto solo nel 2018 (anno dell'incidente di Pioltello) i ritardi erano stati così alti. Anche i ritardi alla partenza (non mostrati) sono aumentati in questo bimestre, a dimostrare che è tutto il servizio che è inqualificabile.
Il dato è evidente anche dallo "storico" di Fig. 2: gli ultimi due mesi vedono un aumento di tutte le metriche, con il 10% peggiore che riesce pure a superare in quarto d'ora di ritardo in entrambi i mesi.

Come se questo non bastasse, passiamo al viaggio di ritorno. Qui ci sarebbe veramente da denunciare qualcuno: treno sempre, perennemente in ritardo; una cosa mai vista. La curva è completamente insensata, assai peggiore del solito, pur penoso, andazzo. Puntualità al 16% e al 51% dopo 5' (era sempre sopra il 70%), con ritardo massimo di 53 (cinquantatré!) minuti. Mai, dico MAI si è visto un disservizio simile tra ritardi, cancellazioni e scioperi, su un treno vetusto che dovrebbe essere dismesso invece di continuare a fare danni. 
L'ultima figura permette di notare come il drastico peggioramento si sia verificato ad ottobre, mese in cui il treno è arrivato puntuale tre, dico TRE volte, collezionando ritardi sopra i 10' per ben DIECI giorni, ovvero praticamente la metà dei 21 giorni lavorativi.

La domanda senza risposta è sempre la stessa: ma per quanto ancora i pendolari dovranno sopportare (e pagare!) un non-servizio come questo?

Nota: i dati sono raccolti personalmente o da app Trenord. Per correttezza, bisogna specificare che i ritardi sopportati dai pendolari su questi due treni non sono indicativi dei ritardi complessivi, che sta ad altri raccogliere e rendere pubblici. Idem per i rimpalli di responsabilità tra Trenord, Rfi, e quant'altri. Qui si cita Trenord in quanto è ad essa che i poveri pendolari versano biglietti ed abbonamenti, e ai quali dovrebbe rispondere del servizio.

mercoledì 27 ottobre 2021

Vuoto d'aria + Via del rifugio

Sul 1° tiro di Vuoto d'aria
Teo sul 2° tiro
Sul 3° tiro
Sul 2° tiro della Via del rifugio
Teo sul 3° tiro
tracciato delle vie Vuoto d'aria (arancio) e Del rifugio (rosso)
Porte Neigre (Gruppo del Catinaccio)
Parete S

Accesso: fino a poco tempo fa si poteva prendere la navetta per il rif. Gardeccia. Ora che il servizio è sospeso, bisogna salire a piedi, lasciando l'auto a Muncion (pochi parcheggi), oppure utilizzare la seggiovia. In questo caso si prendono i primi due tronchi della seggiovia che da Pera di Fassa porta a Pian Pecei (A/R ben 13€) e da qui si segue il sentiero per il rifugio Gardeccia (non prendere il sentiero panoramico al bivio con l'indicazione, ma tenere la destra). Dal rifugio si prosegue su sterrato verso i rifugi Vaiolet e Preuss. Le due vie si sviluppano sulla parete sottostante i rifugi, a destra, ben evidente dalla strada. Quando iniziano i tornanti, si taglia verso destra e si raggiunge la parete. Vuoto d'aria attacca a destra, dopo aver guadato e risalito brevemente il torrente (ometti). La Via del rifugio attacca invece più a sinistra, in corrispondenza di un marcato diedro.
Relazione (Vuoto d'aria): bella via in stile plaisir, adatta per le giornate di tempo incerto. Chiodatura ottima a fix; portare solo rinvii e cordini per collegare le soste.
1° tiro: salire lungo il diedro e spostarsi verso destra, continuando poi in verticale fino alla sosta. 25 m, 4b, nove fix. Sosta su un fix con anello.
2° tiro: spostarsi a destra e superare un diedrino, proseguire per placca verso destra e salire in direzione dello spigolo dove si sosta. 30 m, 4c, undici fix. Sosta su due fix con anello.
3° tiro: salire lungo la placca puntando alla spaccatura centrale tra due massi strapiombanti. Superarla e sostare sulla sommità del torrione. 30 m, 5a, nove fix. Sosta su due fix con anello.
4 tiro: traversare il "ponte tirolese" su corde statiche e sostare subito dopo.
5° tiro: salire verso destra in direzione di una forcella, proseguire e sostare presso un masso sulla destra. 30 m, II, quattro fix. Sosta su due fix.
Discesa: raggiungere i rifugi ed imboccare il sentiero che riporta al rifugio Gardeccia.
Relazione (Via del rifugio): via di carattere identico alla prima, ma leggermente più difficile.
1° tiro: salire la placca, prima dritto e poi a destra, uscendo poi tramite delle lame (fare attenzione) sul terrazzo di sosta. 30 m, 4c, nove fix. Sosta su due fix e cordone con maglia-rapida.
2° tiro: salire la placca a sinistra della sosta e passare uno spigolino, salire (passo-chiave ben protetto) e continuare sul muro uscendo in cima al pilastro dove si sosta. 25 m, 6a+ (passo), dieci fix. Sosta su due fix con moschettone e maglia-rapida.
3° tiro: salire lungo lo spigolo e superare un camino, uscendo alla sosta sulla sinistra. 25 m, 5a, otto fix. Sosta su due fix e maglia-rapida.
4° tiro: superare la paretina sopra la sosta e proseguire per un canalino erboso, portarsi a sinistra (sosta possibile) e salire una rampa erbosa fino alla sosta. 30 m; 5a, I; quattro fix, una sosta su due fix e cordone. Sosta su due fix e maglia-rapida.
5° tiro: salire lungo la cresta fino all'anticima, abbassarsi e salire alla terrazza erbosa dove si trova la sosta (masso sulla destra). 25 m, II, due fix. Sosta su due fix.
Discesa: come sopra.

Nota: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.