Vallecchi, Firenze, 1923 (1a ed. 1921)
Allora, i treni che si inseguono sulle rotaie luccicanti [...] sembrano convogli funebri sospinti da un destino immane verso un limite di sventura; allora il pensiero della morte domina e spegne ogni impulso di entusiasmo, ogni sete di gloria, e si rivela lo spettacolo della guerra che sotto i suoi piedi di acciaio calpesta i più bei fiori della giovinezza. Allora, qualche viandante solitario, affacciandosi ai ponti di passaggio, ripiega il capo sulla spalletta per piangere.
Così mio padre, in quella notte di gennaio sul ponte del Pino, vedendo passare la mia tradotta pianse dirottamente e io, con due aranci dorati nelle tasche e con un buio presentimento nel cuore, mi avviavo alla cecità eterna.
Prima di spender due parole sul volume sarà utile inquadrare brevemente l'autore, che immagino sconosciuto ai più: volontario di guerra, rimane gravemente ferito alle braccia e perde la vista durante lo sminamento di un poligono di tiro (ma qualcuno avanzava illazioni sull'origine delle ferite, riportate qui), dedicandosi poi attivamente alla propaganda. Aderisce al fascismo dopo qualche tentennamento iniziale per finire poi eletto deputato nel partito monarchico nel 1953. Da questa traiettoria si capisce già molto di quel che si troverà nel libro, e quel molto non è incoraggiante, ma non è per un malcelato anelito autopunitivo che mi son letto - non senza reiterati sbadigli - le 354 pagine di questa "ricostruzione" storica: anche nei libri peggiori si trovano spunti, informazioni, aneddoti... insomma, c'è sempre da imparare, soprattutto se non ci si fa molte illusioni in partenza.
Le prime illusioni che è saggio lasciarsi alle spalle aprendo le pagine sono ovviamente quelle di trovarvi traccia seppur minima di obiettività. Certo, siamo nel 1923, i fatti sono troppo vicini ed il coinvolgimento personale è fortissimo, ma questa "istoria" finisce col trascendere le intenzioni iniziali (Io vorrei che tutti i fanciulli d'Italia [...] o almeno le nuove generazioni, quelle che dovranno mietere sui campi seminati dal nostro coraggio, imparassero quanto amore e quanto dolore costò a noi questa patria) e diventa l'ennesima apologia della retorica nazionalista, semplifica brutalmente il dibattito interno al Paese nel 1914 (le "dottrine vane" socialiste a fronte della "conquista dell'avvenire") e racconta la guerra come santo sacrificio del fante italiano che combatteva riempiendo di sangue tutte le doline senza saziarle, coprendo tutte le pietre di un tappeto di carne perché la vittoria potesse camminarvi a piedi nudi, con le baionette temprate nel sangue nemico. Nella spedizione punitiva gli austriaci trovarono una barriera di petti indomiti, una siepe di baionette inflessibili, e i nostri fanti conservando tutta l'umanità delle anime semplici [...] scattavano all'assalto con tutti gli ufficiali in testa mentre le truppe austriache, sotto lo stimolo dell'ubriachezza e della paura, marciavano [...] con alle spalle le mitragliatrici puntate e i condottieri indietro. Con tale ricostruzioni non c'è da sorprendersi se il fascismo si fregava le mani ogni volta che il Delcroix parlava, che lui se ne rendesse conto o no (non saprei quale sia l'ipotesi peggiore). Restando al libro, chiedo venia se non proseguo con gli esempi e lascio all'immaginazione e agli amanti del genere le descrizioni delle oscure e segrete manovre dietro Caporetto e quelle delle battaglie del Piave.
C'è un secondo aspetto di questo modo di raccontare la tragedia della guerra che è forse ancora più stucchevole, ed è l'insistenza del Delcroix sull'aspetto religioso: la trincea era la fossa del supplizio e il reticolato la corona di spine, i fanti sono "santi e martiri" il cui soffrire saliva come un'ardente preghiera, i fumi della guerra sono incensi, l'avanzata un sacro pellegrinaggio, la morte offerta in sacrificio, i battesimi nel sangue, ecc. ecc. (per non parlare della pagine dedicate a Battisti, Sauro ed altri). Intendiamoci, non è tanto il porre in esagerata evidenza un aspetto che era allora certamente molto più sentito di oggi che dà un senso di fastidio, quanto il constatare come il sì forte anelito religioso dell'autore si arresti sull'orlo della trincea, gl'impedisca di esprimere qualunque senso di umana pietà per gli avversari (che tra l'altro appartenevano ad un Impero forte sostenitore della cristianità), per non parlare del silenzio sotto cui passano le contraddizioni e i dilemmi del mondo cattolico di allora di fronte alla guerra (ma qui forse sarebbe subentrata la censura a bloccare tutto).
Dopo questi avvertimenti, veniamo a quel che vi ho trovato di positivo. Intanto, l'impostazione che è dettata già dal titolo: la guerra è "di popolo", e se non mancano le (acritiche) pagine dedicate ai Condottieri, vi sono capitoli dedicati al "popolo eroico", ai feriti e (comprensibilmente) ai mutilati. Vi è insomma il tentativo di dare un'immagine più vasta di quella delle operazioni militari, che appare piuttosto "moderno". Poi ci sono le cose che ignoravo, ad esempio l'entità del fenomeno della propaganda dei mutilati dopo Caporetto, i nomi di Paolucci di Calboli, Nicolodi e altri ormai sconosciuti come Beccastrini, Savorani, Lepore... a cui va aggiunto lo stesso Delcroix. E le storie, romanzate, ma pur sempre interessanti da leggere, degli "eroi" (Toti, Rizzo, Baracca), di altri a me meno noti come Decio Raggi (prima MO della Grande Guerra) e Giacomo Venezian e di ancora altri sfortunati giovani che andarono per scelta incontro al loro destino.
Non è molto, come dicevo all'inizio, ma era lo spirito del tempo; della gran retorica per coprire incapacità ad ogni livello. E non sarei così sicuro di esserci lasciata quest'abitudine alle spalle.
Le prime illusioni che è saggio lasciarsi alle spalle aprendo le pagine sono ovviamente quelle di trovarvi traccia seppur minima di obiettività. Certo, siamo nel 1923, i fatti sono troppo vicini ed il coinvolgimento personale è fortissimo, ma questa "istoria" finisce col trascendere le intenzioni iniziali (Io vorrei che tutti i fanciulli d'Italia [...] o almeno le nuove generazioni, quelle che dovranno mietere sui campi seminati dal nostro coraggio, imparassero quanto amore e quanto dolore costò a noi questa patria) e diventa l'ennesima apologia della retorica nazionalista, semplifica brutalmente il dibattito interno al Paese nel 1914 (le "dottrine vane" socialiste a fronte della "conquista dell'avvenire") e racconta la guerra come santo sacrificio del fante italiano che combatteva riempiendo di sangue tutte le doline senza saziarle, coprendo tutte le pietre di un tappeto di carne perché la vittoria potesse camminarvi a piedi nudi, con le baionette temprate nel sangue nemico. Nella spedizione punitiva gli austriaci trovarono una barriera di petti indomiti, una siepe di baionette inflessibili, e i nostri fanti conservando tutta l'umanità delle anime semplici [...] scattavano all'assalto con tutti gli ufficiali in testa mentre le truppe austriache, sotto lo stimolo dell'ubriachezza e della paura, marciavano [...] con alle spalle le mitragliatrici puntate e i condottieri indietro. Con tale ricostruzioni non c'è da sorprendersi se il fascismo si fregava le mani ogni volta che il Delcroix parlava, che lui se ne rendesse conto o no (non saprei quale sia l'ipotesi peggiore). Restando al libro, chiedo venia se non proseguo con gli esempi e lascio all'immaginazione e agli amanti del genere le descrizioni delle oscure e segrete manovre dietro Caporetto e quelle delle battaglie del Piave.
C'è un secondo aspetto di questo modo di raccontare la tragedia della guerra che è forse ancora più stucchevole, ed è l'insistenza del Delcroix sull'aspetto religioso: la trincea era la fossa del supplizio e il reticolato la corona di spine, i fanti sono "santi e martiri" il cui soffrire saliva come un'ardente preghiera, i fumi della guerra sono incensi, l'avanzata un sacro pellegrinaggio, la morte offerta in sacrificio, i battesimi nel sangue, ecc. ecc. (per non parlare della pagine dedicate a Battisti, Sauro ed altri). Intendiamoci, non è tanto il porre in esagerata evidenza un aspetto che era allora certamente molto più sentito di oggi che dà un senso di fastidio, quanto il constatare come il sì forte anelito religioso dell'autore si arresti sull'orlo della trincea, gl'impedisca di esprimere qualunque senso di umana pietà per gli avversari (che tra l'altro appartenevano ad un Impero forte sostenitore della cristianità), per non parlare del silenzio sotto cui passano le contraddizioni e i dilemmi del mondo cattolico di allora di fronte alla guerra (ma qui forse sarebbe subentrata la censura a bloccare tutto).
Dopo questi avvertimenti, veniamo a quel che vi ho trovato di positivo. Intanto, l'impostazione che è dettata già dal titolo: la guerra è "di popolo", e se non mancano le (acritiche) pagine dedicate ai Condottieri, vi sono capitoli dedicati al "popolo eroico", ai feriti e (comprensibilmente) ai mutilati. Vi è insomma il tentativo di dare un'immagine più vasta di quella delle operazioni militari, che appare piuttosto "moderno". Poi ci sono le cose che ignoravo, ad esempio l'entità del fenomeno della propaganda dei mutilati dopo Caporetto, i nomi di Paolucci di Calboli, Nicolodi e altri ormai sconosciuti come Beccastrini, Savorani, Lepore... a cui va aggiunto lo stesso Delcroix. E le storie, romanzate, ma pur sempre interessanti da leggere, degli "eroi" (Toti, Rizzo, Baracca), di altri a me meno noti come Decio Raggi (prima MO della Grande Guerra) e Giacomo Venezian e di ancora altri sfortunati giovani che andarono per scelta incontro al loro destino.
Non è molto, come dicevo all'inizio, ma era lo spirito del tempo; della gran retorica per coprire incapacità ad ogni livello. E non sarei così sicuro di esserci lasciata quest'abitudine alle spalle.
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