Lo slogan finale, dopo che l'attrice ha tracannato fino all'ultima goccia; anzi, fino al risucchio, un succo di frutta, è: "Solo in una cucina così posso fare tutto quello che voglio".
Lo spot è certamente di abile concezione, e gioca su due piani sovrapposti: da un lato la raffinatezza dell'attrice, testimoniata anche dal suo vestito, che va a sovrapporsi a quella della cucina; dall'altro il desiderio di non apparire troppo formali o chic, instillando un pizzico di malizia (il sorriso complice, il risucchio, lo slogan). Solo un pizzico, però; senza esagerare (pensate per confronto allo spot di cucine di un'altra nota marca, dove lui sogna di giocarvi a rugby cogli amici).
Questo è il punto: per non voler esagerare, la fantomatica trasgressione (sì lo so, è un vocabolo abusato che andrebbe posto in quarantena per un lustro almeno) diviene stucchevolezza, ed il sorriso finale suscita in me solamente un moto di compatimento. Chi, trovandosi solo in cucina, si preoccuperebbe (e men che meno compiacerebbe) di un gesto simile? D'altra parte, nell'immaginario di chi progetta questi slogan, la cucina non è probabilmente un oggetto ad uso e consumo prevalentemente maschile, il che rende, Deo gratias, meno appetibile la sciapa variante sensuale. Ma non sarebbe stato sufficiente far accadere il "fattaccio" in presenza, ad es., di un ospite?
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