venerdì 25 luglio 2025

Dibona

Teo alla partenza del 2° tiro.
Ancora lui sul 4° tiro.
Sul 5° tiro.
Sul 7° tiro.
Tracciato della via (la foto della parete è
presa da Google Earth).

Torre Innerkofler (Gruppo del Sassolungo)
Parete SE

Accesso: parcheggiare a Passo Sella e scendere verso la val Gardena (qualche sporadico parcheggio), tenendo una scorciatoia sulla sinistra che conduce verso il rif. Valentini (possibilità di parcheggio a pagamento). Continuare lungo la strada sterrata (sbarra), puntando alla stazione di arrivo della seggiovia. Per via di uno sterrato a destra e una traccia si raggiunge l'evidente crinale, che si segue verso sinistra, superando la Punta Grohmann dove sale la via Dimai e giungendo in vista della parete E della Torre Innerkofler, alla cui base si nota un evidente avancorpo grigiastro. Salire il canale tra l'avancorpo e la Torre vera e propria, superando diversi salti rocciosi e qualche residuo nevoso, fino ad identificare due chiodi con cordino rosso a poca distanza l'uno dall'altro. Un'ora e mezza circa.

Relazione: via che supera la parete della Torre con un percorso piacevole e mai difficile, dove spiccano un divertente terzo tiro in traverso in camino e una bella fessura nel settimo, scovato dall'intuito del grande Angelo Dibona con Luigi Rizzi, accompagnati dai due fratelli Mayer, il 6 agosto 1910 (sulla guida CAI-TCI del Sassolungo di Ivo Rabanser del 2001 si dice per errore 1911). La roccia è discreta nei primi due tiri per poi migliorare sensibilmente (ma ovviamente serve sempre un po' d'attenzione), e la chiodatura è abbastanza essenziale: utile qualche friend per integrare i passi più delicati. L'avvicinamento, la salita fino alla vetta e la lunga discesa la rendono comunque una salita remunerativa, da affrontare solo con buone condizioni meteorologiche.

1° tiro: Salire la fessura obliqua verso destra in corrispondenza del chiodo più a monte, uscirne su una rampa e salire ancora verso destra fino a quando è possibile piegare a sinistra facilmente. Puntare ad un muro giallo, alla cui base di trova la sosta. 45 m; IV, III; una sosta intermedia (due chiodi con cordino e maglia-rapida) vicino ad un cordino in clessidra (un po' fuori via; allungare la protezione). Sosta su due chiodi (uno a pressione) con cordino e maglia-rapida.
2° tiro: Superare la lama appena a sinistra della sosta e salire per placca fino alla sosta. 20 m, IV. Sosta su due chiodi.
3° tiro: Salire appena a sinistra della sosta, traversare a destra per una lama ed entrare in un camino. Salire brevemente e atttraversarlo uscendo in corrispondenza di una terrazza. Alzarsi per pochi metri fino a identificare la sosta sulla roccia giallastra a sinistra. 30 m; IV, IV-, III, II; due chiodi, un cordone su masso incastrato. Sosta su due chiodi.
4° tiro: Traversare a sinistra e continuare in obliquo lungo una rampa fino a giungere alla base di un camino nascosto, dove si trova la sosta. 35 m; IV+, IV, III; due clessidre con cordone. Sosta su due chiodi con cordone.
5° tiro: Salire in verticale ed imboccare il canale/camino sulla sinistra, che si segue fino alla sosta sulla sinistra. 35 m; IV, III+, IV; due  chiodi, un cordone in clessidra. Sosta su chiodo con anello e cordone in clessidra.
6° tiro: Continuare lungo il canale/camino fino a raggiungere una forcella, dove si sosta sulla destra. 55 m; IV-, IV+; due chiodi, due clessidre con cordone.  Sosta su due chiodi con cordone.
7° tiro: Portarsi dal lato opposto della forcella e salire a sinistra dell'evidente fessura per pochi metri, fino a quando è possibile traversare a destra, superando la fessura per salire alla sua destra, sfruttando una seconda fessura meno marcata. In alto si ritorna a sinistra per gli ultimi metri. 25 m; IV (un passo di IV+); un cordone in clessidra, due chiodi. Sosta su cordone su spuntone.
8° tiro: Abbassarsi sul canale di destra e salire tenendo inizialmente la destra e spostandosi poi più a sinistra, fino a raggiungere una forcella dove si sosta. 40 m; III, IV, III, IV; un chiodo con cordone. Sosta su due chiodi.
9° tiro: Salire sopra la sosta e spostarsi a destra per entrare in un canale. Seguirlo fino a quando questo si chiude e sostare sulla sinistra (ometto poco visibile). 50 m; IV-, III. Sosta da attrezzare su spuntone.
10° tiro: Alzarsi sopra la sosta e proseguire in obliquo fino a quando è possibile passare sul versante opposto. Abbassarsi qualche metro e attrezzare una sosta su spuntone. 30 m, III.

Per raggiungere la vetta ed il percorso di discesa bisogna abbassarsi qualche metro fino ad una forcella. Salire sul muretto opposto e ridiscendere dall'altro lato ad una seconda forcella. Proseguire fino a quando è possibile salire a sinistra lungo facili risalti rocciosi. Raggiunto un muro giallo, traversare a sinistra seguendo qualche ometto per circa una decina di metri e salire in verticale fino a raggiungere il filo di cresta che dà su un ampio canale. NON scendere verso il canale, ma affrontare un breve passaggio (III+), per proseguire lungo il filo di cresta fino ad una forcellina. Spostarsi pochi metri a sinistra e guadagnare un'altra forcella, da dove ci si abbassa per entrare nel canale, che si risale seguendo tracce di passaggio e qualche ometto fino alla vetta. 300 m circa di sviluppo.

Discesa: Lunga e non banale se le condizioni meteo non sono buone. Dalla vetta ritornare sui propri passi (sud) fino all'ampia terrazza. Qui piegare a sud-est (destra; direzione Pozza di Fassa) e abbassarsi seguendo i vari ometti di roccia e qualche bollo rosso. In corrispondenza di uno sperone si trova la prima sosta di calata (spuntone + cordino + chiodo). Scendere per 25 metri.
Continuare tendendo verso destra (viso a valle - numerosi ometti) e doppiare uno spigolino, oltre il quale si trova un'evidente sosta di calata (chiodi e clessidra), pochi metri a destra della quale ve n'è una seconda su fittoni resinati). Scendere per 25 metri.
Dal termine della calata bisogna risalire una rampa verso destra (viso a valle) che conduce ad un bollo ben evidente dalla sosta di calata. Noi abbiamo invece seguito la linea di soste di calata ben evidenti (che dovrebbero appartenere a L'apparizione): se seguite questa soluzione, bisogna scendere con tre calate tra i 20 e 30 metri su chiodi e/o clessidre con cordoni, fino a raggiungere una sosta con fix e cordoni con maglia-rapida. Da qui, calarsi per poco meno di 60 metri.
Guadagnata una sosta con cordini, chiodo, e maglia-rapida su spuntone, scendere per 55 metri fino ad arrivare nel canale tra la Torre ed il Dente. Non resta che scendere a sinistra lungo il canale e ritrovare il sentiero di avvicinamento che riporta a passo Sella. Tre ore circa.

Lo schizzo sulla guida [3].

Piccola nota bibliografica: La salita di Dibona e Rizzi è menzionata per la prima volta nel notiziario (Mitteilungen) del DOEAV del 1911 [1], a cura di Max Mayer, ed è ripetuta dal fratello Guido, che partecipò all'ascensione, all'interno di una lunga monografia di quasi 70 pagine sul Sassolungo pubblicata nell'Annuario (Zeitschrift) del DOEAV del 1913 [2]. Se parliamo di guide alpinistiche, la prima menzione che sono riuscito a reperire si trova nel terzo volume della guida delle Dolomiti di Julius Gallhuber (da cui fu estratta la parte relativa al Catinaccio, tradotta e pubblicata meritoriamente dal CAI Bergamo intorno al 1929-30) [3]. Ecco la relazione (traduzione molto approssimativa):

Per la parete sud-est e lo spigolo sud-est. (via senza ghiaccio, ma con un punto estremamente difficile)
Attraverso i prati fino all'inizio della gola che si estende da sud verso la forcella Grohmann
[nota: è la sella tra la punta Grohmann e la Torre Innerkofler], divisa in basso da uno sperone. Nel primo ramo, salire brevemente fino a quando la parete orientale si dissolve leggermente in ghiaioni. Ora attraverso una fessura stretta, che diventa più profonda in alto, con due gradini (aperti verso la forcella) e per una spaccatura verso sud per 30 m, fino ad un alto camino con gradoni. Dopo 150 m di salita fino ad una forcella e 30 m molto difficili, per fessura o per placca alla sua destra, si sale verso nord fino a una cresta. Da qui a destra in un camino simile a una gola e attraverso questo, un po' frammentato, verso lo spigolo SE e per ripidi gradoni fino alla cima, 3 ore.

Per una guida italiana della zona del Sassolungo bisogna aspettare il 1944, con il volume della Guida dei Monti d'Italia di Tanesini [4]. In esso, la Torre è chiamata col toponino italiano Punta Pian de Sass. L'itinerario è definito il migliore della montagna, di III+ con un passaggio di IV+, da farsi in cinque ore.

[1] Mitteilungen des Deutschen und Osterreichichen Alpenvereins n. 18, 1911, p. 215
[2] Zeitschrift des Deutschen und Osterreichichen Alpenvereins 1913, p. 295
[3] Julius Gallhuber, Dolomiten, Vol. 3, Vienna, 1928, p. 159
[4] Arturo Tanesini, Sassolungo Catinaccio Latemar, CAI-TCI, Milano, 1944, pp. 209-210


Avvertenza: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

domenica 6 luglio 2025

L'ora di lezione - per un'erotica dell'insegnamento

di Massimo Recalcati
Einaudi, Torino, 2024 (1a ed. 2014)
Non è in questo che consiste, in ultima istanza, la posta in gioco di tutta la partita dell'insegnamento? La Scuola non dovrebbe avere questo come suo proprio compito? Rendere il sapere un oggetto in grado di muovere il desiderio, un oggetto erotizzato capace di funzionare come causa del desiderio, in grado di spostare, attirare verso, mettere in movimento l'allievo. Non è questa la funzione [...] che dobbiamo riconoscere a un sapere che si rivela erotico, cioè capace di mobilitare il desiderio di sapere?

Tutti noi (o almeno, i più fortunati) abbiamo incontrato un docente che ha cambiato, se non la nostra vita, almeno la nostra relazione con il sapere, che ha dato un senso alle ore passate in classe, stimolando non solo l'apprendimento di concetti, ma la passione stessa per l'apprendimento e lo sviluppo di un metodo critico da seguire nella propria ricerca personale. Forse il più fortunato dei numerosi saggi di Recalcati, L'ora di lezione è un omaggio a questi docenti.

Il libro è diviso in quattro parti, iniziando da un'introduzione alle diverse "scuole" che si sono susseguite nei decenni, da quella frequentata dai "diversamente giovani" di oggi, frutto di alleanza tra insegnanti e genitori, gerarchica ed autoritaria, alla scuola di oggi, post-contestazione, dove l'alleanza si stabilisce invece tra genitori e figli (pp. 25-27):

I genitori si alleano con i figli e lasciano gli insegnanti nella più totale solitudine [...] a supplire alla funzione latitante del genitore, cioè a fare il genitore degli allievi.
La nuova alleanza tra genitori e figli disattiva ogni funzione educativa da parte dei genitori che si sentono più impegnati ad abbattere gli ostacoli che mettono alla prova i loro figli per garantire loro un successo nella vita
[che non ad educarli...]. I figli si confondono con i padri, [...] le ore di lezione sono dedicate a rincorrere un silenzio e un'attenzione che sembrano impossibili da raggiungere, gli esami all'università non possono superare un certo numero di pagine, i voti considerati ingiusti dai figli mobilitano le proteste accorate dei genitori, [...] la parola [...] viene sopraffatta da una cultura delle immagini, che tende a favorire un'acquisizione passiva e senza sforzo. [nota mia: opinabile]

La soluzione, o per meglio dire l'auspicio, di Recalcati è una scuola che faccia da sintesi alle prime due, dove l'autorità dell'insegnante si costruisca "dalla testimonianza della forza della parola" (p. 35) che vivifica il sapere. Il resto del libro è dedicato alla disamina di questo concetto secondo due direttrici strettamente legate: la prima indica il sapere non come semplice trasferimento di nozioni dal maestro all'allievo, ma come fine di un percorso di ricerca individuale che il maestro deve saper indicare (la "mancanza" del sapere che causa il desiderio) (p. 43):

L'apprendimento non avviene per travaso passivo da un bicchiere più pieno a uno più vuoto, perché il modello sul quale si fonda non è mai quello di un vuoto da riempire - le teste vuote degli allievi dentro le quali si deve versare il cemento del sapere - quanto di un vuoto da aprire.

Il secondo concetto è quello del sottotitolo: l'insegnamento non è indottrinamento, non è clonazione di discepoli, non è ascolto passivo di "verità", ma il generatore di una ricerca personale. L'insegnamento deve generare amore per il sapere, e l'insegnante è il testimone di questo desiderio (p. 47):

Un insegnamento degno di questo nome non inquadra, non uniforma, non produce scolari, ma sa animare il desiderio di sapere. Per questa ragione ogni insegnamento che sia tale muove l'amore, è profondamente erotico, è in grado di generare quel trasporto in cui consiste in ultima istanza il fenomeno che in psicanalisi chiamiamo ‭«transfert». Non c'è trasmissione del sapere che possa avvenire senza passare dal transfert. [...] Solo che il maestro è colui che sa dislocare il transfert amoroso mobilitato dall'allievo dalla sua persona all'oggetto del sapere. Egli è amato in quanto ama il sapere [...].

Già da questi termini si intravede poi un'interessante analogia che percorre tutto il volume, ovvero quella tra insegnamento e psicanalisi. Come il maestro, anche l'analista deve dislocare il transfert, deve permettere al soggetto di trovare la propria strada, anche se talvolta l'autore si lascia trascinare dal gergo e dall'influenza di Lacan (p. 68): La pulsione sembra rifiutare l'obbligo della separazione introdotto dalla Legge della castrazione per mantenersi aderente alla Cosa materna e ai suoi surrogati incestuosi, per rimarcare che la scuola separa dalla famiglia, generando sì un trauma, ma per aprire nuovi mondi.

La seconda parte del libro focalizza (non senza qualche ripetizione) questi concetti sulla Scuola, le sue funzioni e motivazioni. Infatti, se l'allievo deve trovare la sua strada, a che serve il maestro, in fin dei conti? Attenzione: non bisogna farsi ingannare dal mito ipermoderno dell'autogenerazione di sé stesso (p. 63), e riconoscere il debito che abbiamo con i nostri maestri, evitando l'uccisione del padre (simbolico), che funziona in psicanalisi ma non nell'insegnamento: il motore del nostro interesse al sapere si origina sempre dal sapere ricevuto da altri. Ed è proprio come forma di resistenza a questo mito (l'Autodidatta de La nausea citato nel libro, ma anche Frank Drummer di Spoon Riveril matto di De André) e all'iperedonismo acefalo che governa la nostra società (p. 68) che si configura la Scuola, che agisce quindi in controtendenza rispetto alle pulsioni che feticizzano "alcool, droga, psicofarmaci [vabbè...], l'immagine del proprio corpo, oggetti estetici e tecnologici" (p. 69). A tutto ciò si oppone un piacere diverso, meno immediato ma più duraturo: lettura, scrittura, la cultura nelle sue diverse forme. Tutto largamente condivisibile, a parte qualche nota retorica e un approccio che evita volutamente di scendere nel concreto, con forse qua e là un tono un po' troppo negativo verso la tecnologia, cui sembra negata qualunque possibilità di integrazione nell'insegnamento, che deve avvenire sempre e solo attraverso la Legge della parola.

Dopo aver toccato la relazione tra insegnamento e vincoli dell'istituzione scolastica, stile del docente ed esperienza (nota a tutti) di "parlare ai muri", così come quella del dono (la trasmissione implica sempre la dimensione del dono; p. 114) e del mistero dell'apprendimento, il libro si chiude con un ricordo personale, dove l'autore ripercorre le sue difficoltà scolastiche e l'incontro salvifico con una professoressa. Ecco, questa è la cifra principale del volumetto: non una disamina di come nascano questi insegnanti "speciali", quasi psicoterapeuti, di come tutto questo si possa/debba inserire in un'ora di lezione, particolarmente nelle assai eterogenee scuole superiori, ma piuttosto un sentito grazie a tutti questi docenti, che faccio mio (magari prima o poi aggiungerò qualche aneddoto personale) ed estendo per assurdo anche agli "altri", a quelli che stavano in classe con meno voglia di noi studenti, che trasmettevano noia e frustrazione, per avermi spinto a cercare nei libri quello che non potevo/volevo sentire in classe.

venerdì 13 giugno 2025

Il pilastro Micheluzzi della Marmolada - 3: gli altri

Per finire questa ricognizione, dopo le parti dedicate a Tita Piaz e a Walter Stosser, non resta che raccogliere qualche informazione su alcuni tra i restanti personaggi di questa vicenda. Ovviamente non su Micheluzzi e Piaz, su cui molto è già stato scritto, e nemmeno su Stosser, per cui vale più o meno altrettanto. Peraltro, non sono nemmeno riuscito a raccogliere informazioni sui suoi compagni di cordata, Schütt e Kast, colpa certamente anche della mia ignoranza del tedesco (e non solo di quello). Restano tre persone:

Roberto Perathoner (?, 14-12-1937)

Non ho trovato molte informazioni su di lui. Compare nell'elenco delle guide della Val di Fassa ed è menzionato diverse volte in operazioni di salvataggio di alpinisti in difficoltà. Un brevissimo ritratto si trova in Alpinismo goliardico 1936 di Vittorio Cesa De Marchi [1], dove si legge (p. 409):

Al « Vajolet » viveva accanto a noi anche un altro bel tipo — montanaro ed intrepido scalatore di crode della Val di Fassa — nonchè guida patentata del C. A. I.: Roberto Perathoner — giovane strano, irrequieto e chiassoso al cento per cento durante le ore di sosta, quanto audace impetuoso e deciso sul terreno della lotta, lungo pareti, spigoli e fessure. Anch'egli è cresciuto alla scuola del grande maestro fassano [ovvero Tita Piaz] e, per quanto di carattere diverso, un poco gli assomiglia.

Non ho trovato tracce di altre sue prime salite oltre a quella in questione, durante la quale (cito dal libro di Dante Colli [2]) Roberto si fa carico di portarsi sotto il tetto e di far passare la corda nel foro, passando in testa alla cordata per i camini successivi e cedendo di nuovo l'onere/onore di capocordata a Micheluzzi nella parte finale. In occasione della fallita ripetizione con Glück e Tutino Steel, citata nella parte 1, pare che Perathoner sia stato perculato da Micheluzzi, che condusse il complesso recupero [3]. Ci sta, ma fino ad un certo punto: la cordata si bloccò perché il foro era ostruito, non per mancanza di capacità! Anche Castiglioni e De Tassis si ritrovarono nelle stesse condizioni, e patirono non poco per incidere i gradini e forare il vetrato.

L'articolo su Lo Scarpone [5].

Purtroppo, le uniche altre menzioni sono relative all'incidente che gli sarà fatale: ne Lo Scarpone del 1937 [4] si legge

Gruppo di sciatori decimato da una valanga al Sasso Beccè
Al momento di impaginare il giornale ci è giunta la notizia della grave sciagura avvenuta l'altro ieri in val di Fassa, lungo le pendici del Sasso Beccé. Una comitiva di 21 allievi maestri di sci, sotto la guida di Giovanni Steger, stava compiendo un'escursione a sud del Passo del Pordoi, dirigendosi in località Belvedere, quando verso le 14,30 venne travolta da un'immane slavina lunga oltre 150 metri
[...]
Fra gli scomparsi la figura più nòta è Roberto Peratoner, guida di Canazei. Egli infatti aveva compiuto ascensioni di grado superiore nei gruppi del Sella, del Catinaccio e del Pordoi, che conosceva, si può dire, in ogni anfratto. La sua impresa più importante, che lo pose fra i più forti alpinisti italiani, è quella del settembre 1929 allorché, insieme a Luigi Micheluzzi e a Cristomanno, aprì una nuova via sulla Marmolada e cioè sullo spigolo sud, una delle classiche vie di sesto grado nelle Dolomiti.

Sempre ne Lo Scarpone del 1938 [5] si può leggere un resoconto più dettagliato degli eventi, che costarono la vita a ben otto persone: la valanga non era di grandissime dimensioni, tanto che gli sciatori non se ne preoccuparono, ma scendendo trascinò con sé diversi macigni che furono la causa principale delle morti. Che sfiga!

Demeter Walther Christomannos (1903, 1977?)

Christomannos con Olga Signorini (da qui).

Figlio di Theodor Christomannos, il famoso antesignano del turismo dolomitico nonché ideatore della Strada delle Dolomiti, Demetrio lascia ancora meno tracce di sé di Roberto. Il suo anno di nascita si trova qui. Sulle riviste di montagna non compare più, ed è lecito pensare che dopo un simile exploit abbia appeso gli scarponi al chiodo. Il nome è presente in una lista di maestri di sci [6] e, stando a [3], fu sciatore agonista, partecipò al principio della spedizione Nobile al Polo Nord ritirandosi subito (ed infatti di lui non vi è traccia nei relativi documenti), e aderì al fascismo diventando responsabile del settore Pusteria. Conclude Magalotti: chiuse la sua esistenza terrena alla fine degli anni Settanta in un paese della collina pistoiese.

Al riguardo, è interessante segnalare una notevole coincidenza: In questo resoconto di eventi della Seconda guerra mondiale nella linea gotica compare un capitano tedesco:

Victor Demetrio Christomannos era di origine greca, ma proveniva dal Lago di Carezza in Alto Adige e faceva parte degli Alpini tedeschi; nel ’38 prese la doppia cittadinanza e unì al suo nome anche Hermann. Nonostante fosse un ufficiale tedesco fu molto amato dagli abitanti di Collina, perché riuscì con il suo operato a proteggere e salvaguardare il paese. Uomo di cultura, parlava cinque lingue, era laureato in economia. Aveva partecipato in gioventù alla spedizione di Nobile al Polo Nord.

Incaricato di sovrintendere ai lavori per la Linea Gotica, Demetrio conosce Olga Signorini, proprietaria di un albergo in zona, e diserta l'esercito tedesco per restare con lei. Sarebbero poi mancati entrambi nel 1977. Molti dati coincidono e fanno pensare che si tratti della stessa persona (purtroppo, una email inviata al riguardo al sito in questione è ancora in attesa di una risposta). Certo, è bello pensare che l'amore per l'Italia di Demetrio lo abbia portato dalla parete della Marmolada al ripudio dell'esercito tedesco (e sperabilmente delle deliranti idee che aveva abbracciato in gioventù).

Hulda Jane Tutino Steel (?, ?)

Anche in questo case le informazioni non sono numerose. In questo link alla biografia di Paula Wisinger la si definisce "milionaria", citando [7]. Inglese, ma sconosciuta agli annuari dell'Alpine Club (anche di quello americano), afferisce alla sezione CAI di Bolzano e lega la sua attività alpinistica alle Dolomiti, in compagnia di Piaz, Comici, del Torso, Gluck, e altri. Sulla Rivista Mensile del 1935 [8] c'è un ritratto un po' irridente di Giordano Bruno Fabian:

Mi voltai e ravvisai nel veloce centauro il caro amico Comici, mio maestro e compagno di tante avventure alpine. Portava dietro al suo sellino qualche cosa di non ben definito ma che, dall'aspetto, sembrava una persona non troppo in confidenza con un tale mezzo di locomozione.
Era infatti una donna, e che donna! Nientemeno che la celebre arrampicatrice J. H. Tutino Steel, nome di vasta risonanza nell'ambiente alpinistico, anche perché pareva che gli incidenti avessero una particolare predilezione per questa simpatica signora, ed in segno di questo sviscerato affetto sovente la mandavano a riposare, per un po' di tempo, in qualche luogo di cura.
Presentazioni. M'informai subito, naturalmente, dello stato della sua salute.
Mi rispose in un italiano masticato come lo masticano gli inglesi quando parlano l'italiano: « Non c'è male, grazie. Sono uscita sessanta giorni fa dall'ospedale, dove ero ricoverata in seguito ad una caduta, ed ora mi sento un po' debole ma passerà ».
« I suoi progetti, signora? »
« Ma ho bisogno di un po' d'allenamento e di una forte reazione alla mia debolezza, vado perciò con Emilio a fare la Stoesser della Grande e poi si vedrà ».

Dopo il rientro, la cordata capitanata da Comici che include anche Jane Hulda tenta la salita alla Punta Frida ma deve ritirarsi per il maltempo. Riprova il 2 agosto 1934 senza Tutino Steel:

Riprendemmo la scalata il giorno 2 agosto con una variante nella comitiva. L'amico Pompei, un ragazzo che accomuna alla passione molte buone disposizioni a diventare un ottimo alpinista, sostituì l'amabile signora H. J. Tutino Steel che, per una diversità di vedute sul modo di scendere a corda doppia, sorta fra lei e Comici, rassegnò le sue dimissioni onde appoggiare energicamente la sua affermazione. Non la rividi più, ma seppi che esattamente sessanta giorni dopo essa rioccupava il suo posto all'ospedale in seguito ad un'ennesima sfortunata caduta.

Via Tutino-Lezuo al Sass Becè
(da [9])
Se il racconto di Fabian è velato da un po' di cattiveria, molto più simpatico è quello di Sandro del Torso [9]:

Una donna e un'impresa
Ci siamo incontrati in luglio dell'anno scorso al Pordoi, da Tita Piaz. La montagna è tutto per Jane Tutino Steel e, nel parlarne, il suo sguardo, a tratti assorto — forse nella visione di lontani paesi e vicende — s'illumina, scintilla e dalla sua persona spira energia, volontà. Sono racconti senza fine; poich'ella tutto sa e conosce delle Dolomiti tra cui ormai ha fissato dimora.
Ascoltiamo a lungo, poi Tita estrae l'orologio e lo depone sul tavolo: tre quarti d'ora... un'ora sono passati. L'antica allieva ammutolisce e sorride.
Arrampicavamo assieme per allenamento, studiando e combinando varianti alle vie note dei gruppi prospicienti il Passo.. Una sera, percorrendo il sentiero che fiancheggia il versante Sud-Est del Sass Beccé, nello scrutare la parete incombente scopro una nuova via alla vetta lungo la fessura che solca lo spigolo.
— Guardi — dico.
La luce radente aveva posto in rilievo ciò che ordinariamente sfuggiva all'occhio e la cosa appariva d'alto interesse.
— Una meraviglia! — risponde.
— Sarà per domattina — soggiungo.
Ma il giorno seguente piovve e l'indomani altri impegni mi richiamarono in Friuli.
Una settimana dopo mi raggiunge una laconica cartolina: « Ho fatto la fessura. Jane ».
Ritrovatici al Pordoi a fine agosto, mi narra come, all'insaputa di Piaz, preso con sè per compagno Emilio Lezuo, aveva compiuto la scalata, superando passaggi che, soggiungeva, era assai desiderosa sentire come sarebbero stati giudicati e, in contrasto con la sua abitudine, accennava a quelli con una parsimonia di parole sconcertante. Non ci voleva altro per destare, oltre la mia, la curiosità di Tita e una mattina, senza dire un bel nulla alla compagna, ci si trova noi due soli all'attacco di quella che ormai è la « Via Tutino; diretta al Sass Beccé, spigolo Sud-Est ».
Fin dagli approcci, Piaz aggrotta le ciglia. Un canalone marcio ci porta sotto un arduo strapiombo cui sovrasta un imponente masso triangolare. Dalla base di questo partono divaricando due fessure.
La Tutino doveva essere salita a sinistra; così appariva dall'unico chiodo di sicurezza ancora infisso, ma Tita non vuole persuadersi; giura che non è possibile; si butta verso la fessura di destra e la vince, da me trattenuto, con lavoro di tre chiodi ed un cordino. A mia volta proseguo, ma preferisco assaggiare l'altro percorso. In arrampicata delicatissima, d'estrema difficoltà, che avrebbe impegnato chiunque, raggiungo il compagno.
— Caro mio — gli dico — se quella donna è passata, c'è da farle tanto di cappello!
E il vecchio amico a spergiurare sempre: — È uno scherzo: non c'era che il chiodo del tentativo.
Mezza cordata più sopra, ci troviamo all'inizio d'un caminone, svasato in basso, schiacciato a metà, notevolmente strapiombante. Non si scorgono tracce.
— Vedi, ho ragione io — esclama Piaz.
— Avrà levato i chiodi Lezuo — gli dico — E poi sbagli: Jane m'ha detto d'averne lasciato infisso un altro solo dopo il camino.
Non ottengo risposta. Scuotendo il capo e brontolando. Tita batte un chiodo, poi un secondo, s'insinua nel camino che non era arrampicatile esternamente, fa una fatica d'inferno perchè la sua giacca alla cacciatora s'impiglia più volte nella strettoia, e guadagna l'uscita.
— Perdio, è vero! — sento gridare dall'alto.
Mi affretto lungo il passaggio durissimo e sbuco fuori. Nella parete giallastra sovrastante, solcata da un'incrinatura, l'ultimo chiodo della Tutino irrideva all'incredulità di Piaz.

NOTA TECNICA

SASS BECCÈ, m. 2535 (Dolomiti Occidentali - Pordoi) - Via diretta Tutino-Lezuo, sul versante Sud- Est, 23 luglio 1934-XII.
Attacco al limitare del pendio erboso. 20 m. circa a Sud della perpendicolare calata dalla fessura. Su per roccia marcia diagonalmente a destra fino a raggiungere lo strapiombo sormontato dal caratteristico blocco triangolare. Superare la fessura obliqua di sinistra (estrem. diff.: chiodo), indi raggiungere l'imbocco del grande camino schiacciato. Uno o due chiodi per lo strapiombo iniziale di questo: prosecuzione all'interno (straord. diff.) e uscita su comoda terrazza. Vincere la parete gialla sovrastante lungo la fessura che la solca (due chiodi; oltrem. diff.). Guadagnare l'orlo superiore in leggero strapiombo. Prosecuzione per roccia facile in vetta. (Ore 2,30 a 3 altezza m. 180 circa).

Terminiamo con un elenco di prime salite:

1928-8-14 - Piz Ciavazes, parete S, Via dei camini o Via Glück-Tutino, con Ferdinand Glück e Hans (Giovanni) Demetz [10]

1929-6-13 - Odla da Cisles, parete S, Camino del diavolo, con Ferdinand Glück e Moz Demetz [11]

1929-9-30 - Quarta Torre del Sella, parete O, Via Demetz-Glück, con Ferdinand Glück e Moz Demetz [12]

1931-7-23 - Seconda Torre del Sella, parete SO, con Ferdinand Glück [13]. In realtà i due seguirono praticamente lo stesso itinerario percorso da G. Delago e Moz Demetz il 25-9-1930 [14]

1931-? - Mésules da las Biesces, parete O, Via della Y, con Ferdinand Glück [15]

1934-7-20 - Torre gialla del Pordoi, parete NO, Con Sandro del Torso. Bepi Pellegrinon propone di chiamare il pinnacolo Guglia Sandro [16]

1934-7-23 - Sass Becé, parete E, Via Tutino-Lezuo, con Emilio Lezuo [9]

? - Sass Becé, spigolo S, variante alla via Piaz, con Sandro del Torso [17]

In questo sito è riportato un elenco che include diverse vie con Ettore Castiglioni nella zona della Croda di Toni negli anni 1941-42 che in realtà furono compiute da Saverio Tutino (che di Ettore era nipote) [18]. Si riporta inoltre la prima salita femminile allo spigolo NO (direi Dibona) della Cima Grande di Lavaredo, con Emilio Comici nel 1934, ma al riguardo non sono riuscito a trovare alcun riferimento bibliografico.

Bibliografia

[1] Vittorio Cesa De Marchi, Alpinismo goliardico 1936, Rivista Mensile del CAI 1936, n. 10, pp. 406-412.
[2] Dante Colli, Storia dell'alpinismo fassano, Tamari (Bologna), 1999, pp. 73-80.
[3] Tommaso Magalotti, Marmolada regina. Pagine di storia alpinistica, Gribaudo (Milano), 1993, p. 179.
[4] Gruppo di sciatori decimato da una valanga al Sasso Beccè, Lo Scarpone 1937 n. 24, p. 1.
[5] La valanga del Pordoi nella relazione del magg. Zanelli, Lo Scarpone 1938 n. 3, p. 1.
[6] Dove trovare un maestro di sci?, Lo Scarpone 1939 n. 3, p. 3.
[7] Martin Krauß: Der Träger war immer schon vorher da: die Geschichte des Wanderns und Bergsteigens in den Alpen, Nagel & Kimche (Monaco, DE), 2013, p. 115.
[8] Giordano Bruno Fabian, "Direttissima Sud" alla Punta di Frida, Rivista Mensile del CAI 1935, n. 12, pp. 615-620.
[9] Sandro del Torso, Una donna e un'impresa, Rivista Mensile del CAI 1936, n. 6, pp. 266-267.
[10] Rivista Mensile del CAI 1928 n. 7-8, p. 276.
[11] Ettore Castiglioni, Odle Sella Marmolada, CAI-TCI (Milano), 1937, p. 274.
[12] Ettore Castiglioni, Odle Sella Marmolada, CAI-TCI (Milano), 1937, p. 373.
[13] Rivista Mensile del CAI 1931 n. 10, p. 629.
[14] Fabio Favaretto, Andrea Zannini, Gruppo di Sella, CAI-TCI 1991, pp. 84-85.
[15] Fabio Favaretto, Andrea Zannini, Gruppo di Sella, CAI-TCI 1991, p. 173.
[16] Bepi Pellegrinon, Quaranta vie sul massiccio del Sass Pordoi, Bollettino del CAI 1967, p. 213.
[17] Bepi Pellegrinon, Marmolada, Nuovi Sentieri (Belluno), 1979, p. 103.
[18] Antonio Berti, Dolomiti orientali vol. I, CAI-TCI (Milano), 1950

venerdì 6 giugno 2025

Sperone centrale

Michele sul 2° tiro.
Sul 7° tiro.
Sul 12° tiro.
Francesco sul 13° tiro.
Vallone di Bourcet - Val Chisone
Parete E

Accesso: si raggiunge Torino e Pinerolo e si sale lungo la strada provinciale della val Chisone (quella che porta al bellissimo forte di Fenestrelle e all'assai meno bello abitato di Sestriere). Si supera Perosa Argentina e si giunge a Roreto, frazione del "comune sparso" di Roure. Poco dopo uno spiazzo con parcheggio sulla sinistra si infila una stretta stradina sulla sinistra (via dei romani), appena prima di una curva a sinistra con bar. Si attraversa il fiume e si parcheggia subito dopo il ponte a destra. Da qui si segue la sterrata fino all'indicazione per lo sperone centrale, appena prima di una bacheca in legno. Si segue la traccia con ometti fino alla parete dove attacca la via (targhetta metallica con nome).

Relazione: una delle vie più lunghe del Vallone, che risale lo sperone per placche e diedri collegati da qualche cengia che interrompe un po' la continuità della salita. Bella la seconda parte, dove le placche cedono il passo ai diedri pur senza scomparire del tutto. La chiodatura è ottima a fix e spit (indicati per semplicità come fix nel seguito) nei tratti più impegnativi, con un grado obbligato intorno al 5b/c, ma alcuni tratti di IV sono chiodati un po' più lunghi; valutate voi se munirvi di un paio di friend BD 1/2. Il percorso è sempre ovvio e indicato da segni blu dove c'è qualche ambiguità. Tutte le soste sono su due fix con catena e maglia-rapida od anello tranne ove indicato.

1° tiro: salire dritti per placca fino alla sosta. 25 m, 5b, sei fix.
2° tiro: continuare verso destra lungo la placca, rimontare un corto strapiombo sempre sulla destra e proseguire in placca delicata fino alla sosta. 25 m, 5a, cinque fix.
3° tiro: salire dritti sopra la sosta, spostarsi a sinistra e proseguire per muretti e rocce più facili. 25 m, 5b, cinque fix.
4° tiro: superare la placca iniziale e continuare fino alla cengia di sosta. 25 m, 6a, cinque fix.
5° tiro: superare il muretto e proseguire per uno sperone fino a sostare sulla sinistra. 25 m, 5b, quattro fix.
6° tiro: salire il muretto e proseguire per rocce più facili. 15 m, 5b, tre fix.
7° tiro: salire per una fessura e continuare per placca fino alla sosta. 20 m, 5b, tre fix.
8° tiro: salire il muro a buchi e proseguire fino alla cengia di sosta. 20 m, 6a, sei fix.
9° tiro: spostarsi a destra, salire lungo una fessurina e una facile placca, e camminare fino ad un murettino oltre il quale si sosta. 25 m, 4b, tre fix. E' possibile proseguire verso destra nel bosco e sostare su un cordone su pianta.
10° tiro: traversare nel bosco fino alla base di un diedro, salirlo e uscire verso destra per sostare poco dopo. 30 m, 6a+ (passo in uscita); cinque fix (uno con cordone), un cordone su pianta. Sosta su cordoni ed anello su pianta.
11° tiro: camminare verso sinistra, alzarsi e passare sull'altro versante per traversare fino alla sosta. 20 m, 3b; un fix, un friend incastrato.
12° tiro: traversare a sinistra, salire un diedro e portarsi ancora a sinistra per salire un secondo diedro fino alla sosta. 20 m, 5b; cinque fix, due chiodi. Tiro molto bello.
13° tiro: Salire ancora nel diedro fino a dove questo è chiuso da un tettino. Spostarsi a destra con passi in placca e proseguire per rocce più semplici fino alla sosta. 25 m, 6a, quattro fix (uno con cordone).
14° tiro: Salire lo spigolo fino alla sommità. 25 m, 4b, quattro fix. Sosta su cordone con anello su pianta.

Discesa: seguire la traccia con ometti verso sinistra, prima in piano e poi in salita, e scendere seguendo dei cavi metallici.


Avvertenza: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

giovedì 29 maggio 2025

Miralago + Assalto alla diligenza (con variante)

Michele sul 2° tiro della Miralago.
Sul 3° tiro.
Michele sul primo tiro di Assalto.
Sul 2° tiro.
Michele emerge dalla vegetazione nel 3° tiro.
Tracciati delle vie Miralago (rosso) e Assalto
con variante (azzurro)
Coste di Loppio (Valle di Loppio)
Parete S

- Vuoi dare un'occhiata alla relazione?
- Ma no, seguo i fix...

Dopo un bel po' che ravano tra terra ed erba, dopo aver superato un fix con maglia-rapida senza essere nemmeno sfiorato dall'intelligenza che mi avrebbe fatto calare per tornare sulla via giusta, vengo colto dal dubbio tardivo di essere fuori via. Troppo tardi; non resta che continuare ad arrampicare... e ad imprecare. Un buon motivo per tornare a concludere Assalto alla diligenza... magari guardando la relazione!

Accesso (Miralago): raggiungere il passo S. Giovanni da Nago o da Mori e parcheggiare in una delle piazzole. Tornare in direzione Nago e prendere la prima sterrata a destra dopo l'hotel. Seguirla costeggiando il vigneto fino al termine, dove si prende una traccia che sale sulla destra (ometto). Seguirla tenendo la destra ad un evidente bivio, superando un ricovero di guerra ed un grande ometto. Poco oltre vi è una traccia che sale a sinistra alla parete, in corrispondenza di un ometto, e conduce all'attacco della via (scritta). Mezz'oretta scarsa circa.

Relazione (Miralago): via molto piacevole con un bellissimo terzo tiro, ottimamente chiodata e mai troppo impegnativa (le difficoltà sono concentrate in singoli passi). Il percorso è ovvio (attenzione al secondo tiro), la roccia è ottima e le soste sono attrezzate con due fix, cordone ed anello.

1° tiro: salire sul terrazzino, superare il diedro e continuare per rocce più facili fino alla sosta. 30 m, 6a; cinque fix, tre cordini in clessidra, un cordino su pianta.
2° tiro: salire la bella placca grigia e uscire a destra sulla cengia (non salire alla sosta visibile in alto). 20 m, 5c; quattro fix, un cordone su pianta.
3° tiro: bellissimo traverso a destra con fessura orizzontale. 30 m, 5c, otto fix.
4° tiro: spostarsi a sinistra e salire una fessura, poi ancora a sinistra a superare un muretto o il diedro alla sua sinistra, e per rocce facili raggiungere  la sosta. 15 m, 6a (un po' più difficile se non arrivate subito alla presa buona in alto nella fessura); sei fix, un cordino su pianta.
5° tiro: superare il breve strapiombo fessurato e proseguire dapprima nel diedro e poi in placca a sinistra fino alla sosta finale. 30 m, 6b, sette fix.

Discesa: seguire la traccia (ometti) che conduce ad un sentiero che si segue a sinistra (discesa) e riporta in breve al bivio incontrato in salita.

Accesso (Assalto): proseguire oltre la deviazione che porta all'attacco di Miralago fino ad un'altra evidente traccia che sale a sinistra alla parete, in corrispondenza di un ometto (scritta alla base).

Relazione (Assalto): abbiamo percorso solo i primi due tiri, anch'essi ottimamente chiodati e solo con roccia un po' meno buona della Miralago. Dalla seconda sosta in poi ci siamo infilati (per errore mio) su un'altra via, interessante ma troppo sporca di erba e terra per essere davvero raccomandabile, con chiodatura buona ma appena più distanziata delle precedenti.

1° tiro: superare il breve strapiombo, proseguire per rocce facili e un po' rotte e traversare per placca a destra. 25 m, 6b; nove fix, un cordone in clessidra. Sosta su due fix con cordone ed anello.
2° tiro: salire la bella placca verso destra e raggiungere la sosta. 10 m; quattro fix, un cordone su pianta. Sosta su due fix con cordone ed anello.
3° tiro: la via originale va decisamente a destra. Io invece ho seguito (a mia insaputa, come si dice...) un'altra via incognita che attacca a destra di Assalto, salendo per placche lavorate fino alla sosta. 40 m, 6a, nove fix. Sosta su due fix con vecchio cordone. Il tiro sarebbe bello se non fosse molto sporco di erba e terra, che rendono complicata anche la valutazione della difficoltà...
4° tiro: salire la placchetta e lo spigolo a destra della sosta e portarsi verso sinistra, per continuare per muretti intervallati da gradoni fino ad una cengia dove si sosta. 30 m, 5b, cinque fix. Sosta su due fix.
5° tiro: salire il muretto sopra la sosta (lame un po' dubbie) e traversare a destra verso il cordone, salire e proseguire a sinistra superando un saltino, continuando su terra fino al pianoro. 25 m, 4c; un fix, un cordone su pianta. Sosta da allestire su pianta.

Discesa: come la precedente; la traccia nel bosco è meno evidente ma è impossibile sbagliarsi.


Avvertenza: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

giovedì 15 maggio 2025

Moon bears

Francesco sul 2° tiro.
Sul 4° tiro.
Francesco e Michele sul 4° tiro.
Sul 5° tiro.
Francesco e Michele sul 5° tiro.
Michele sul 7° tiro.
Piccolo Dain (parete della Centrale) - Valle del Sarca
Parete S

Accesso: da Arco risalire la valle del Sarca fino al paese di Sarche e prendere a sinistra al bivio, seguendo le indicazioni per Tione e Madonna di Campiglio (SS 237). Poco prima del ponte sul fiume Sarca si prende a sinistra la via Laghetto che conduce ad un comodo parcheggio con fontana. Si risale alla strada, la si attraversa e si imbocca una sterrata sull'altro lato, seguendola fino al cancello della diga. Poco prima partono le vie Il sole di David e Michelangelo e La scuola pitagorica e Hans Dulfer.

Relazione: guardando la parete da destra, si notano tre vie a carattere misto sportivo-alpinistico, seguite da altre tre in stile più plaisir: due (Amazzonia e Orizzonti dolomitici) sono molto frequentate, l'altra un po' meno: Moon bears sale a destra delle prime due, seguendo la direttrice di un diedro obliquo con qualche passaggio in placca. Rispetto alle sue vicine, la chiodatura a fix è un poco più distanziata (direi S1+), ed i passi, anche se non difficili, sono obbligati: un moschettone ed un maglia-rapida abbandonati lungo la via testimoniano che qualche cordata ha sottovalutato l'impegno, anche perché alcuni passi sono un po' unti dalle ripetizioni, e capita (come a noi) di trovare un po' di bagnato. Tutte le soste (tranne la prima, che noi abbiamo saltato) sono su due fix con anelli di calata. Il percorso è sempre logico e indicato dai fix.

1° tiro: salire i primi metri dal cancello (roccia unta) e spostarsi verso sinistra. Raggiungere un anello cementato (sosta possibile) e continuare a sinistra fino alla sosta. 50 m, 4a; dodici fix, una sosta intermedia.
2° tiro: A sinistra corrono le altre vie. Per la nostra bisogna invece salire per il vago diedro un po' erboso a destra della sosta fino a raggiungere un terrazzo dove si sosta. 25 m, 4a, sei fix.
3° tiro: si sale seguendo la direttrice del diedro tra placchette e fessura, per poi traversare fino alla sosta sulla sinistra. 30 m, 5b, sette fix.
4° tiro: continuare lungo il diedro fessurato sulla destra fino a spostarsi in placca a sinistra e raggiungere la sosta. 30 m, 5c, dieci fix.
5° tiro: alzarsi e spostarsi a sinistra a superare una placca con tratti delicati, proseguire ancora su placca o alla sua destra e raggiungere la sosta. 25 m, 5c, sette fix.
6° tiro: continuare per rocce facili ed erbose fino alla sosta. 20 m, 3c, quattro fix.
7° tiro: salire a sinistra della sosta, superare un muretto e continuare verso destra su rocce più facili fino ad un diedro cbe si risale fino al terrazzo di sosta. 35 m, 5b (un passo), undici fix.
8° tiro: salire ad un breve strapiombo che si supera (o si aggira a sinistra) per continuare su facili rocce fino alla sosta finale. 25 m, 4b, sei fix.

Discesa: continuare verso destra fino ad una terrazza. Da qui salire dritti fino ad incrociare il sentiero di salita al Dain. Prenderlo a destra (discesa) e seguirlo fino al paese di Sarche.


Avvertenza: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

sabato 10 maggio 2025

Treni 2218 e 2275 (Bergamo-Milano Lambrate): ritardi marzo-aprile 2025

Fig. 1: distribuzioni cumulative dei ritardi per il treno 2218
delle 8:02 nei bimestri marzo-aprile dal 2015 al 2025.
Fig. 2: Ritardi nel bimestre in esame per il treno 2218 (8:02).
Fig. 3: Come in Fig. 1 ma per il treno 2275 (17:40).
Fig. 4: Come in Fig. 2 ma per il treno 2275 (17:40).

Una volta tanto, la notizia del bimestre è positiva: l'Autorità di regolazione dei trasporti ha fatto presente a Trenord (che evidentemente non lo capiva da sé) che non conteggiare i treni soppressi nel computo dei rimborsi era una fesseria. Da qui il cambio dei criteri, sbandierato come "opportuno" dall'Assessore ai trasporti (e allora perché non farlo prima?) ma in realtà imposto dall'Autorità. Nessuno ha ancora obiettato, invece, alla soglia assurda dei 15' oltre il quale si conteggia il ritardo... aspettiamo che qualche altra Autorità se ne accorga prima o poi!

A fronte di tutto ciò, si deve - incredibilmente - registrare una notizia positiva anche sul fronte dei ritardi!  Il 2218 raggiunge una puntualità del 10% che sale al 68% entro 5', valore che non si vedeva da un pezzo! Il massimo ritardo è di ben 42' il 18/3 per un guasto alla linea. La Fig. 1 con la distribuzione cumulativa (scala lognormale) mostra chiaramente il miglioramento rispetto alle curve degli ultimi anni, che si può osservare nitidamente dai dati sintetici nella Fig. 2: sia la media che la mediana scendono sotto i 5' di ritardo, mentre il dato al 90% si localizza intorno ai 10', comunque elevato ma in miglioramento.

I dati per il 2275 sono i seguenti: puntualità al 25% e al 73% entro 5', seguiti dalla solita coda infinita. Diciamo che il comportamento "normale", quando non si verificano problemi, è tutto sommato accettabile... ma il fatto è che i problemi si verificano spesso e volentieri! Così il massimo ritardo è di ben 136' il 2/4, quando un guasto all'infrastruttura ha cancellato ben tre treni (2275, 2237 e 2277), costringendo i pendolari a rientrare (non oso pensare in che stato) con il 2239 delle 19:13, ovviamente partito in ritardo. Ed infatti la distribuzione dei ritardi (Fig. 3) evidenzia una parte "bassa" della curva con ritardi contenuti, seguita dal solito disastro nei casi più sfigati. Se guardiamo l'andamento storico (Fig. 4) vediamo anche per questo treno un miglioramento rispetto al 2024: bene il 50% dei treni anche rispetto agli anni precedenti (curva gialla), un po' meno bene il resto. Accontentiamoci...

Resta il capitolo finale sulle cause dei ritardi: solo dieci segnalazioni pervenute in questo bimestre, delle quali cinque legate a guasti e cancellazioni del treno, altre tre relative comunque a problemi dei convogli (rotardi dei treni precedenti, il solito comico traffico intenso), e tre relative a problemi della linea.

domenica 20 aprile 2025

Carema DOC Riserva 2017 Cantina Produttori Nebbiolo di Carema

Mi è capitato di recente di assaggiare due vini dealcolati, visto il gran parlare che se ne fa. Il primo era una specie di imitazione del Prosecco, troppo dolce per i miei gusti, ma tutto sommato meglio di quello che mi aspettavo (che non era granché). Galvanizzato da questa esperienza, ho acquistato un rosso dealcolato. Risultato: pessimo! Una specie di succo d'uva dolcissimo che non aveva niente, ma proprio niente, del sapore del vino, segno che c'è ancora parecchio da lavorare in questo ambito. Sono quindi subito tornato a Canossa, o meglio... a Carema, stappando una bottiglia che avevo acquistato in occasione di un viaggio in Val d'Aosta. Carema è infatti l'ultimo paese del Piemonte che si incontra prima di entrare nella Vallée, lungo la Statale 26 da dove si possono osservare le pergole che decorano il fondovalle.

Nonostante la superficie vitata sia di soli tredici ettari, i (piccoli) produttori sono più di quanto ci si aspetterebbe, e un centinaio di essi oggi aderiscono alla Cantina Produttori Nebbiolo di Carema, fondata nel 1960, quindi prima del riconoscimento della DOC nel 1967. La cantina produce otto vini, di cui cinque rossi, un rosato, un bianco e un metodo classico. A parte un assemblaggio di vari vitigni, un Canavese Nebbiolo e un Carema 2018 ormai esaurito, restano i due Carema, base e riserva, entrambi da uve Nebbiolo al 100% e con affinamento in botte grande per almeno 12 mesi (su un totale di 36 per il Riserva).

Il colore è di un bel granato con qualche tenue riflesso arancio, un po' per vocazione, un po' per gli anni. Ma il dubbio che il tempo passato in cantina sia stato eccessivo comincia a svanire alzando il bicchiere al naso: con qualche esitazione, si affacciano sentori di frutti di bosco, note speziate e accenni floreali. All'assaggio il vino è morbido, con alcool e acidità ben bilanciati ed i toni speziati che emergono nel finale. Un buon vino "di territorio", come si dice, che interpreta quell'angolo di Piemonte che non è ancora Vallée, ma gli assomiglia parecchio...


Gradazione: 13,5°
Prezzo di acquisto: 17 €

martedì 8 aprile 2025

Il pilastro Micheluzzi della Marmolada - 2: Walter Stösser

Stösser e Kast (Da [2], p. 77).
Lo schizzo delle vie sul pilastro tratto
dall'articolo di Stösser.

Dopo aver seguito Tita Piaz nel suo lungo lavoro in difesa di Micheluzzi nella prima parte, è ora il momento di guardare l'altro lato della vicenda, ovvero il racconto della salita di Stösser. Purtroppo non sono riuscito a reperire gli articoli pubblicati su Bergsteiger, ma solamente quello che si può leggere sull'Annuario del club alpino austro-tedesco del 1933 [1]. Anche in questo caso, la traduzione è merito di diversi siti ed il sottoscritto ha solo svolto un lavoro di revisione e di assemblaggio.

L'articolo sull'Annuario del DOeAV del 1933

Lo spigolo sud-ovest della Marmolada
di Walter Stösser, Pforzheim

Quando ripenso ai giorni trascorsi in montagna, la gioia dei ricordi si stende su esperienze sia belle che cupe. Ma c'è uno splendore speciale che si diffonde nelle belle giornate nelle Dolomiti. È perché sono state loro a incutere timore nel cuore del giovane ragazzo di Baden, a farlo rabbrividire davanti alla creazione primordiale, a insegnargli a comprendere il mormorio delle oscure foreste di montagna, l'ululato delle tempeste di foehn che si rincorrono, è perché lo hanno condotto per la prima volta nel silenzio di infiniti circhi rocciosi, lo hanno fatto salire nella luce ridente e giubilante, lo hanno lasciato combattere e vincere, gli hanno regalato momenti pieni di pura felicità in vetta? Oppure è l'abbondanza di colori, le linee che non lasciano mai che l'occhio si stanchi di immergersi in tutto lo splendore? È diventata per me una terra di desiderio, una terra di felicità e di pace. L'Alto Adige, la mia patria montana!

Quando nel 1925 giunsi per la prima volta in questo paese da favola, naturalmente furono le vie più facili quelle su cui salii per raggiungere le vette. Ma con l'amore per questi giganti unici di roccia cresceva l'abilità e con l'abilità crescevano i traguardi. Nel 1925 salii sulla vetta della Marmolada pieno di orgoglio. La comoda cresta ovest ci ha portato in cima, e siamo scesi attraverso il ghiacciaio fino a Fedaja. Il fatto che un giorno avrei potuto dominare la parete sud era impensabile per me allora, che avevo visto le montagne per la prima volta all'età di 25 anni. Eppure, solo due anni dopo, questa e molte altre classiche salite dolomitiche erano diventate nostre. L'anno successivo, quando una cima dopo l'altra cadeva lungo le vie più difficili, i miei occhi improvvisamente scrutavano la roccia non solo là dove era già stata domata da altri, ma erano fin troppo felici di indugiare dove nessuno era mai andato prima: cercavamo problemi.

È stato allora che per un'intera estate portai con me l'immagine di un gigantesco pilastro, il possente pilastro della parete sud della Marmolada. Ma l’estate finì troppo in fretta. Dalle pareti nord del Pelmo e della Civetta abbiamo osservato la Regina delle Dolomiti. Ma la speranza di una soluzione a quello che forse è il problema più grande delle Dolomiti doveva essere portata da un lungo inverno a una nuova estate.

Poi arrivò la notizia: il 6 e 7 settembre 1929 le due guide dolomitiche Micheluzzi e Perathoner scalarono la Marmolada con Christomanos attraverso il pilastro della parete sud. “La direttissima della parete sud della Marmolada”, come chiamavano questa salita gli italiani. Il problema era stato risolto.

Ma nemmeno per un momento ho vacillato nei miei progetti futuri. Anche se il problema era stato risolto, non saremmo più stati i primi, ma avremmo voluto essere i secondi a conquistare il pilastro. Perché non è stata solo la voglia di salire su vie che nessuno aveva mai percorso prima ciò che mi avvicinava alla Marmolada. È stata la salita incomparabilmente audace che mi ha affascinato.

L'estate del 1930 fu quindi dedicata soprattutto alla vetta della Marmolada. Il 2 agosto siamo andati a Canazei in Val di Fassa. Fritz Schütt di Mannheim, che mi ha accompagnato in montagna per tre anni, era con me. La sera stessa siamo saliti al Rif. Contrin, perché il giorno dopo volevamo salire lo spigolo. Ma non siamo andati oltre il Passo dell'Ombretta. Nebbia fitta - tempesta di giaccio - pioggia - neve - siamo tornati al capanno come dei barboncini innaffiati.

La mattina dopo alle 3 siamo tornati al Passo dell'Ombretta. Il tempo era bello, anche se c'era neve fresca ben sotto il passo. La stessa parete sud era coperta di bianco su terrazze e cenge. Regnava il freddo più amaro, come raramente avevo sperimentato nelle Dolomiti. Nonostante tutto, abbiamo osato tentare la via e siamo saliti per circa 100 m fino ad una placca liscia, leggermente inclinata, delimitata a sinistra da una fessura rivestita di ghiaccio - Impossibile! Dopo quattro ore di lavoro i quindici metri ghiacciati erano stati aggirati. Si raggiunse rapidamente la prima terrazza. Tuttavia le prospettive di successo della salita erano nulle, visto che il ghiaccio cresceva con l'altitudine. Si ritorna! Quasi all'attacco, una pietra mi è caduta in testa. Risultato: forte perdita di sangue e una ferita di 5-6 cm nel cuoio capelluto. Il mio amico Fritz ha prestato il primo soccorso, insieme all'ostessa del rifugio e ad una guida. Non ho seguito le cure mediche che mi erano stato consigliate per la preoccupazione che la mia libertà di movimento fosse ostacolata da una prescrizione medica. La guarigione è andata bene.

Il giorno successivo, con un tempo tristemente torbido, siamo saliti per la terza volta al passo per recuperare la nostra corda, che si era incastrata durante la discesa e che avevamo lasciato appesa a causa dell'incidente.

Il 6 agosto il tempo era relativamente buono. Ma ormai ci era chiaro che lo spigolo della Marmolada esigeva come prima condizione una serie di belle giornate. Così ci siamo rivolti ad un altro compito. Attraverso le pareti sud-occidentali della Cima Ombretta abbiamo scoperto una nuova, avventurosa via verso la vetta occidentale. Questa giornata, come nessun'altra, ci ha garantito non solo il guadagno in termini alpinistici, ma anche di cibo e vestiario: in vetta abbiamo trovato 2 lattine di carne, cibo militare in scatola del 1915, il cui contenuto era ancora in ottime condizioni. Infine, scendendo, trovammo una giacca che, a quanto pare, non era uscita da molto tempo dalle mani del sarto. Purtroppo chi l'aveva persa stava già aspettando dolorosamente la sua proprietà giù al Contrin, così la nostra speranza di poter affrontare lo spigolo della Marmolada con l'elegante abito è andata in fumo.

Dato che la situazione meteo continuava ad essere avversa, abbiamo deciso di rimandare del tutto il nostro piano per la Marmolada, sospendendolo fino a quando non ci fosse stato un radicale miglioramento. Dopo che il 17 agosto abbiamo raggiunto lo spigolo ovest dell'Antelao nelle condizioni più difficili ma con il tempo più bello, i nostri pensieri si sono finalmente rivolti di nuovo allo spigolo della Marmolada. Il tempo stava scadendo. I giorni inizialmente previsti per le Dolomiti erano finiti. Anche i progetti nelle Alpi occidentali dovevano essere realizzati. Ma il tempo sembrava davvero cospirare contro di noi. Quando arrivammo a Canazei, la tempesta ci inseguì attraverso il Passo di Costalunga nella Val di Fassa, così che con il cuore pesante rinunciammo per un anno allo spigolo e proseguimmo fino a Bolzano, per passare da qui alle Alpi Occidentali.

Eppure, pochi giorni dopo ci ritrovavamo al Rif. Contrin. Avevamo ricevuto notizia dalle Alpi Occidentali che la quantità di neve fresca rendeva disperata ogni possibilità di salita. Nelle stesse Dolomiti il tempo era notevolmente migliorato. Cosa c'è di più naturale che ritornare al Rif. Contrin per un ultimo tentativo allo spigolo della Marmolada?

Così la sera del 22 agosto abbiamo camminato attraverso la valle di Contrin sul sentiero che ormai ci era familiare. Il 25 agosto abbiamo ripercorso lo stesso itinerario, non da vincitori. Per la prima volta, la montagna è stata più forte di noi. Eppure non eravamo dominati dal sentimento di sconfitta, perché la battaglia che abbiamo combattuto qui era più grande di una vittoria in vetta.

* * *

Ci sono strani pensieri che mi muovono mentre, il 23 agosto, inciampo ancora una volta sul ripido sentiero verso il Passo dell’Ombretta. L'oscurità incombe davanti a noi come un muro inquietante. La luce delle lanterne della zona della Marmolada danza come un fuoco fatuo davanti e dietro di noi. Proseguiamo in silenzio. I nostri piedi troveranno sicuramente il sentiero che è stato percorso così spesso.

Dove passeremo la prossima notte? Certamente non sui morbidi materassi della baita. Beh, probabilmente ci sarà un posticino in cresta, non è necessario che sia grande. Come sarà il lavoro che ci aspetta? Certamente molto duro! Ma... "Hai preso anche il foglio per la scritta?" sento improvvisamente chiedere da Fritz. "Sì, ma ci dovrebbe anche essere un pacchetto nella parete, ha detto Micheluzzi". E poi scende di nuovo il silenzio opprimente della notte. A cosa stavo pensando? Sì, sì, sarà difficile! Ce la faremo? Ma ho già scacciato di nuovo il pensiero. Fallire dove altri hanno trionfato prima di noi? Fallire, dove altri sono saliti prima di noi? Non abbiamo forse dimostrato la nostra volontà e abilità tra le più imponenti pareti dolomitiche?

Albeggia. Il giorno avanza vittorioso sulle montagne. Ci affrettiamo rapidamente verso la cima del passo. L'alito freddo che emana la valle ci fa rabbrividire. Sui pinnacoli del Catinaccio ardono i primi bagliori del sole nascente. La valle giace sotto di noi come qualcosa di lontano, di ormai scomparso. Dalle profumate nebbie mattutine emergono i giganteschi castelli del Pelmo e della Civetta, con i loro possenti precipizi settentrionali, immagine speculare della possente muraglia lungo la quale il nostro sguardo corre ora verso l'alto. La parete sud della Marmolada!

Lì lo sguardo scivola sui punti salienti della via salita da Zagonel e Bettega con Beatrice Tomasson nel 1901, sulla via diretta alla vetta trovata dai fratelli Leuchs nella seconda salita; poi guardiamo, rabbrividendo, l'orrore dell'inquietante gola della parete sud, sotto la cui caduta massi tremavamo per la nostra vita anni fa. E infine il nostro sguardo vaga sulle pareti a lastroni del pilastro fino alla vetta che, sporgendo dalla cima del Passo, si trova a ridosso delle due gigantesche pareti che si sviluppano a est e a ovest, le pareti che custodiscono la corona delle Dolomiti, lo scintillante ghiacciaio della Marmolada.

E la nostra interrogativa ricerca in questi fianchi minacciosi, apparentemente impossibili, trova la risposta nei pochi fogli di carta che tengo tra le mani: "La direttissima della parete sud della Marmolada." La descrizione della via dei primi salitori Micheluzzi, Perathoner e Christomannos. Con l'imponente parete davanti agli occhi, sono tornati i dubbi, ricordando le condizioni che ci avevano quasi costretto a tornare indietro all'Antelao pochi giorni prima, La roccia? - La superiamo. E se è bagnata? - Anche allora! E se è corazzata di ghiaccio? - La nostra volontà e capacità si sono frantumate sul ghiaccio!

Le mie braccia e le mie gambe sono febbricitanti per il desiderio di combattere, la gioia della battaglia si irradia dai miei occhi. Così mi avvicino alla parete che mi ha già visto sanguinare una volta; e poi inizia la lotta, questa gigantesca lotta con la montagna, che troppo presto diventerà una lotta con noi stessi. Con quanta rapidità e velocità progrediamo oggi, quanto più veloci di tre settimane fa, quando dopo poche prese dovevamo strofinare le nostre dita intorpidite per il freddo e scaldarle di nuovo. In una buca leggermente a destra sotto il passo si trovano ancora i resti di una baracca di guerra. Una ripida rampa conduce all'inizio della serie di camini, che attraversa la parete a destra dello spigolo fino all'altezza della prima terrazza. Numerosi strapiombi apportano una gradita varietà. La fessura diagonale viene superata al primo tentativo.

Una strana arrampicata! Si è sdraiati, con le punte estreme degli arti sinistri incastrate in una stretta fessura, distesi su una lastra completamente liscia e inclinata di pochi gradi, facendo i più folli movimenti di nuoto, eppure con tutte queste contorsioni si riesce a malapena ad avanzare di un centimetro. Si ha la sensazione che le montagne ti pesino addosso, montagne sotto il cui peso sembra di scivolare lungo la superficie levigata e involontariamente vorresti risucchiare te stesso, come l'agile lucertola che si arrampica sulle pareti come se fosse terreno pianeggiante, sfidando ogni gravità.

Sulla prima terrazza c'è un pilastro snello e aggraziato, che forma una fessura stretta con il muro giallo e sorprendentemente liscio che sale. I primi salitori hanno usato un triplo albero umano per farsi strada nella zona apparentemente impossibile della parete centrale attraverso l'incrocio di fessure fragili e con pochi appigli a sinistra. Ma dove troviamo il terzo uomo su questa parete? Quindi andiamo dritti alla fessura a destra. Uno strapiombo? Se non c'è altro, non c'è problema! Ma presto arriva altro. La fessura è stretta e senza appigli, con un piccolo sasso incastrato che cede, non sostiene il corpo. Lontano, sul pilastro, c'è una presa per la mano sinistra, la destra chiusa a pugno è incastrata, una spinta veloce, ce l'ho!

Un punto d'appoggio! Ma cosa significa punto d'appoggio sul versante sud-ovest della Marmolada? Che tutto quello che devi fare, appoggiandoti alla roccia, è inclinare la testa per poter vedere oltre le punte dei piedi e giù fino all'attacco! Che posizione! A sinistra la cima del pilastro, in alto, sopra di noi, a destra, una parete gialla, senza appigli; ciò che solitamente si intende per liscio e senza appigli. Dopo questo tratto in realtà non mi rendevo più conto né di questo né di aver sempre avuto qualcosa a cui aggrapparmi. Mi sentivo piuttosto come se avessi ingannato il mio corpo sulla forza di gravità.

Vorrei che il muro si staccasse di qualche grado dalla verticale almeno per un attimo! E così è stato: ma non indietro, bensì in avanti! Dritto oltre il muro alto 250 m. "Sempre estremamente difficile ed esposto!". Questo è ciò che scrivono i primi salitori. Abbiamo fatto un tentativo. Ero bloccato su una spaccatura impossibile, l'impossibilità incombeva su di me come se volesse schiacciarmi! E non sono andato dritto, ma a destra fino a un impressionante pilastro staccato dal massiccio. Un chiodo! Su per il camino! Su per la parete!

Dannazione! Veniamo spinti sempre più a destra! Ma in alto? No! Per quanto possa ancora giudicare una parete, anche Micheluzzi avrebbe avuto pane per i suoi denti qui!

Decido di guardare oltre il bordo a destra, dove si doveva intravedere la gola principale. Salgo su un gradino della parete - un cornicione, un grande blocco ondeggiante... - non riesco a vedere nella gola, ma vedo una fila di camini bagnati, che inizia proprio accanto a noi e sembra essere percorribile fin molto in alto. In verticale sotto di me c'è il primo terrazzo di macerie della via della parete sud.

Il foglio di carta smarrito dai primi scalatori è nel camino! Ritroviamo così il percorso originale, la descrizione era sbagliata. Che ora poteva essere quando siamo entrati nel camino? Non lo so. Forse le 12, forse le 2. Il cronometro non ha mai avuto un ruolo importante nei nostri viaggi; basta che ci indichi l'ora di alzarci, le ore del giorno, le ore del lavoro, che ci mostra il sole. La roccia resisteva con un vigore sorprendente. I ruscelli scorrevano giù per lo stretto camino. Eravamo completamente bagnati dall'acqua ghiacciata. Pezzi di ghiaccio e di roccia sfrecciavano nell'aria.

Alcune pietre sono impilate su un piccolo gradino a formare un omino di pietra. Il bivacco dei primi salitori? Andiamo avanti, la giornata non è ancora finita. E probabilmente più in alto ci sarà un posto per la notte.

Avanti! Lottiamo con la montagna, con il freddo, con il bagnato!

Dalla nera sponda, il torrente scroscia sul tetto scivoloso. Un chiodo dopo l'altro annuncia la gravità della situazione. La corda, diventata un filo nell'acqua bagnata, pende sul corpo come un quintale e si incastra nei moschettoni zigzaganti. Le mani hanno i crampi, diventano incapaci di lavorare, si aprono. Solo lentamente torna la sensibilità. Una ferrea volontà supera la sinistra fessura.

E l'amico? In basso, in piedi nel torrente polveroso, lascia scorrere con cautela la corda di sicurezza tra le mani e osserva il compagno che si dibatte, tremante di freddo e di rabbia.

La corda, una volta così elastica, è rigida e instabile accanto a me, spessa e gonfia per l'acqua. Lo zaino si avvicina con un sorriso.

Sopraffatti dalla notte che si avvicinava, ci fermammo in fondo al camino, intriso d'acqua e di ghiaccio. Non potevamo restare lì. Ma non c'era nessun posto dove andare. A destra e a sinistra c'è il muro giallo-rosso della torre, incredibilmente liscio, che s'innalzava verticalmente, separato dalla rientranza coperta dall'acqua.

Ci siamo arrampicati nella notte e abbiamo cercato. Alla fine abbiamo trovato un posticino minuscolo. Sospeso là fuori come un nido di rondine, così audace! Coperto di macerie, ma fuori portata dai proiettili del camino.

Ci siamo sistemati pieni di speranza per il giorno successivo. Per prima cosa abbiamo rimosso le macerie, poi sono stati fissati due chiodi e tesa una corda come corrimano, alla quale ci siamo appesi con l'aiuto dei moschettoni. Poi mi sono seduto, ho preso Fritz tra le gambe e finalmente ci siamo tirati addosso il sacco della tenda. Cominciò la notte.

E arrivò con tutti i suoi mali. Sebbene all'inizio fosse ancora possibile sopportare l'umidità e il freddo dei nostri vestiti stringendoci l'uno all'altro, presto dovemmo massaggiarci a vicenda per mantenere la circolazione del sangue. Muoversi, allungare le membra, cambiare posizione: impossibile!

Quanto può essere lunga una notte così! E quanto spesso l'orologio deve mostrare il suo quadrante alla luce notturna. Ogni mezz'ora, ogni quarto d'ora viene letto. Ho messo la testa sulla spalla di Fritz, lui ha messo la sua sulla mia, quindi abbiamo provato a far passare qualche minuto.

Finalmente il giorno si svegliò! Onde di luce inondarono l'etere. Volontà di combattere desiderosa di nuova azione, volontà febbrile di vincere dopo una lunga lotta, desiderio di sole, sete di cielo azzurro. Ancora uno sguardo al mio compagno, poi mi sono lanciato con le mani rigide contro l'ultimo inquietante rigonfiamento dello spigolo sud-ovest della Marmolada.

Il torrente si era calmato, ma era ancora abbastanza forte da inzupparci di nuovo.

Una scarpa sotto una sporgenza! Fritz arriva. E adesso? Destra o sinistra? La fessura tra le due enormi pareti corre verso l'alto come un ripido canale strapiombante largo solo pochi metri. A destra un leggero avvallamento, a sinistra una fessura. Dove andare? A destra? Acqua, acqua - Ѐ impossibile! Quindi si deve andare a sinistra! Una lotta disperata. Il pugno colpisce tra le rocce, si blocca, tira il corpo più in là; la pelle si attacca alla roccia, le mani sanguinano. Cosa sta facendo! Ogni centimetro ci avvicina alla vetta.

Così abbiamo lottato. Le ore passavano ancora. Niente poteva scuotere la nostra ferma fiducia di essere vicini alla vetta. Niente? Nemmeno la caduta di ghiaccio e roccia che ricominciava, nemmeno il rinnovato gonfiarsi del torrente, nemmeno l'inquietante barriera di ghiaccio apparsa all'improvviso davanti a me? Combattere fino all'ultimo - questo è tutto ciò che pretende. Ma lei ha chiesto di più!

Il camino è diventato improvvisamente più profondo, estendendosi per molti metri nel fianco della montagna, diventando stretto e ostruito da strapiombi. E scintillanti cascate di ghiaccio si riversano sulle sue pareti, enormi aghi crescono su cenge e sporgenze, colonne di ghiaccio sostengono gli strapiombi!

Un'immagine favolosamente bella!

"Friz, senti le voci? Voci dalla cima; puoi vedere la sella lì! Non può essere lontano!"

E mi avventuro sul ghiaccio, facendomi strada tra i delicati pilastri e le pareti splendenti. La favola va in frantumi! Caddero centinaia di chili di detriti, qualche salto sopra lo scivolo di ghiaccio che ci condusse nelle profondità del camino, e poi fuori - giù.

Mi faccio strada tra il ghiaccio e la roccia, scalpello, mi appoggio, mi stendo, il martello da arrampicata sbatte! Assicurarmi? Dovrei avvolgere la corda attorno a un ghiacciolo? La roccia non permette di afferrare il chiodo. Maledizione, adesso mi salta via dalle dita, cade, scompare.

E su di noi si sta scatenando l'inferno. Il sole splende verticalmente nelle profondità dell'abisso, risvegliando molteplici forme di vita nello spazio morto da poco. Come gorgoglia e gocciola, come si lava e si allenta, come si dissolve e si frantuma, come rimbomba e cade! E noi stiamo sotto, al suo interno!

Mi faccio strada fino allo strapiombo successivo. Il martello rompe piccole tacche nel fragile vetro, le dita artigliano le protuberanze del ghiaccio, la roccia scompare sempre di più e il ghiaccio diventa sempre più potente, riempiendo il camino! Prima lentamente, indistintamente, poi sempre più tangibile, emerge davanti a me l'unica parola che doveva decidere la battaglia: Impossibile!

Pochi metri sopra di me c'era il grande tetto, il camino finale, ma impossibile: ogni passo in avanti sarebbe stato un crimine contro il mio compagno, seduto senza alcuna protezione nel camino, che verrebbe inevitabilmente gettato giù se cadessi. Non serve. La via verso la vetta è impossibile; la nostra volontà si spezza negli ultimi metri.

La soluzione è tornare indietro, per la stessa strada che abbiamo percorso.

Ritirarsi attraverso il camino ghiacciato! Scendere attraverso il ripido canale di ghiaccio!

Poi possiamo guardare giù l'inquietante percorso che dobbiamo seguire per la seconda volta, esausti, bagnati e infreddoliti, in uno stato che, senza una ferrea volontà, non è lontano dall'esaurimento completo, le corde quasi inutilizzabili per la discesa in corda doppia!

Sacrifichiamo un cordino dopo l'altro; molti chiodi fedeli ci portano finché non siamo di nuovo su terreno solido. Passiamo davanti ai luoghi in cui abbiamo lottato, il posto di bivacco, l'omino di pietra dei primi salitori. Giù attraverso l'acqua e l'orrore. Ci sono detriti di ghiaccio tutt'intorno su sporgenze e creste, spezzati in minuscole schegge. Giù! È quasi incredibile che la scomoda corda si sia incastrata solo una volta, tanto che sono dovuto risalire al chiodo per allentarla.

Risplendono le chiare macerie bianche come la neve della prima terrazza. Quanto è lunga la strada e quanto è breve la giornata. Il freddo e l'umidità stanno logorando sempre di più le nostre forze. Il camino sta per finire. Usciamo di soppiatto sulla parete attraverso il cornicione nel muro, accolti da un vento freddo e pungente e, battendo i denti, scrutiamo giù verso la terrazza. Sta arrivando il crepuscolo, la notte! Il circo è immerso nell'oscurità. Alla luce della lanterna piantiamo i chiodi nella roccia. Fritz lo tira fuori dalla tasca... e in pochi secondi colpisce le rocce. Una consolazione, non può essere lontano. Abbiamo piantato gli ultimi chiodi nell'oscurità. Poi siamo scesi, barcollando per tutta la notte fino al rifugio, dove le guide stavano già facendo i preparativi per recuperare i corpi l'indomani.

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L'anno 1931 portò condizioni meteorologiche ancora peggiori del precedente. Tre giorni al Contrin sotto la pioggia e la neve hanno fatto capire fin dall'inizio che il tentativo era senza speranza. Inoltre, era l'inizio di settembre, quindi, anche se il tempo fosse stato favorevole, non sarebbe stato più possibile migliorare le cattive condizioni dell'estate.

Non eravamo gli unici a lottare per lo spigolo. Ma nessuno era riuscito ad andare oltre la prima terrazza. Qualcosa di oscuro e indicibile sembrava incombere su questa via. Avevano paura di un segreto, del velo semi-mistico che aveva coperto il grande tetto e il camino d'uscita? La prima salita dello spigolo, che negli ultimi anni era stata vista con un po' di incredulità, fu accolta da dubbi sempre maggiori. "Il Club Alpino", mi disse una volta Micheluzzi, "vuole una prova dello spigolo. Come faccio a darla, visto che quando siamo usciti nessuno ci ha visti? Può essere fornita solo con una seconda salita". Nel 1931 lo sperava da noi, dopo averlo temuto nel 1930!

Poi - abbiamo fatto una breve deviazione dal Cervino - Perathoner e la guida gardenese Glück hanno provato a scalare lo spigolo della Marmolada con un'inglese. La comitiva ha raggiunto il grande tetto e non ha fatto un passo avanti. Hanno scritto "Strapiombo impossibile passare" su un pezzo di carta che hanno lasciato sotto lo strapiombo, hanno chiesto aiuto e sono stati soccorsi poco dopo, con l'aiuto attivo di 14 guide e circa 200 m di corda. Il lavoro principale di salvataggio si dice sia stato fatto da Micheluzzi, amico di Perathoner.

Pochi giorni dopo questo tentativo, che alcuni addirittura descrivono come una seconda salita, noi - Fritz Kast di Pforzheim ed io - arrivammo ​​a Canazei. Non mancarono di informarci su tutto ciò che riguarda lo spigolo. Volevano spronarci ad imprese speciali raccontandoci dei rivali. Ma il giorno successivo ce la prendemmo comoda e scalammo la parete ovest del Pordoi per tornare alla roccia dolomitica. Per tutto il tempo precedente avevamo scalato nella roccia primaria e il mio compagno, che non aveva mai scalato in Dolomiti, avrebbe trovato lo spigolo della Marmolada come prima via dolomitica un po' eccessiva.

Dopo la parete ovest della Punta Pordoi, che probabilmente ha le stesse difficoltà della vecchia parete sud della Marmolada e ha un paesaggio di incomparabile bellezza, siamo andati al rifugio Contrin per affrontarne lo spigolo il giorno successivo.

Dove il sentiero per il passo dell'Ombretta si separa da quello per la forcella della Marmolada, gli scarponi chiodati sono rimasti sotto la stessa roccia alla stessa ora in cui 2 anni fa ci trovavamo all'attacco, il tempo era ugualmente bello. Il lavoro non era diventato più facile negli ultimi 2 anni. Era già sera quando abbiamo raggiunto il nostro vecchio punto di bivacco. Avevamo ancora circa 2 ore di luce a disposizione, ma poiché non sapevo quali fossero le condizioni più in alto, ho preferito fermarmi.

Le condizioni non potevano essere definite buone. L'intera fila dei camini era nuovamente intrisa d'acqua, segno che più in alto avremmo incontrato nuovamente del ghiaccio. Quindi, non le migliori prospettive per il giorno successivo. Ma anche sotto altri aspetti le nostre prospettive non sono migliorate. Durante la notte il tempo è cambiato, ha cominciato a piovere e il torrente accanto a noi si è ingrossato. All'alba, naturalmente, non si vedeva nulla tranne gli affioramenti rocciosi più vicini, ma la pioggia era cessata. Nonostante tutto, eravamo dominati da un solo pensiero: "Avanti!" E quando poco dopo ricominciò a piovere, a grandinare e infine a nevicare e non smise per tutta la giornata, il nostro unico pensiero fu: "Avanti! Ma non tornare più da queste parti!"

Dopo qualche tiro di corda, ci siamo trovati sotto il grande tetto: un enorme blocco copriva il camino, creando un tetto profondo circa 12 m e largo 3-4 m. L'ho visto oggi per la prima volta, anche se due anni fa ero solo pochi metri più in basso, perché allora era completamente sepolto sotto i piloni di ghiaccio.

Le opzioni per superare il tetto furono rapidamente esaurite. Forse solo la parete destra poteva essere affrontata se la roccia fosse stata completamente asciutta, ma questa situazione ideale è improbabile che si verifichi qui, a parte il fatto che oggi la pioggia e l'acqua ghiacciata scorrevano insieme lungo le pareti in un grande torrente. Nel fondo del camino c'era il già citato biglietto del gruppo di Perathoner.

Per quanto sarebbe stato comodo sedersi sotto il tetto asciutto, non abbiamo avuto il coraggio di farlo. Perché solo questo tetto ci separava dal camino d'uscita, che, una volta raggiunto, doveva portarci completamente fuori. Il mio primo pensiero è stato quello di una traversata con la corda, che potesse essere utilizzata per uscire dal camino fino a quando non si sarebbe potuto afferrare una sporgenza dall'esterno. Ma cosa splendeva così forte lassù attraverso il tetto? Una fessura tra la parete e il blocco! Ero già lassù cercando di ingrandirla. Macerie, piccoli blocchi, ghiaccio. Gocciolava, rimbombava, l'acqua scorreva dentro; i miei vestiti presto divennero solo stracci sporchi e bagnati che si attaccavano al mio corpo. Due opzioni: o rendere il buco abbastanza grande da poterci scivolare dentro, o almeno gettarvi dentro la corda per poter scavalcare lo strapiombo dall'esterno. Fritz mi ha sostituito e ha buttato negli abissi diversi pezzi di ghiaccio, ma il buco era troppo stretto per la nostra statura.

Corde passanti: una corda di sicurezza, una corda di traversata. Naturalmente, entrambe adesso erano appese all'esterno. Si raggiungevano scendendo dal camino. E poi la manovra decisiva: Fritz si è seduto nel camino e mi ha assicurato. Ero seduto sulla corda di traversata, che ora correva all'esterno sopra la sporgenza e attraverso il foro tornava sotto il tetto, dove era sostenuta da un chiodo. Tutto quello che dovevo fare ora era lasciarmi andare e volare sotto lo strapiombo, ormai superato dopo alcuni rapidi strappi. Sono arrivato alla fine di un ampio canale di ghiaccio, che dopo circa 60 m conduceva al camino finale. C'erano già tracce della cima, il tetto di una vecchia baracca di guerra!

Ora bisognava sostenere la corda di traversata sullo strapiombo per Fritz, un lavoro che finalmente è riuscito dopo una lunga, lunga ricerca. Poi anche Fritz è riuscito a lasciarsi alle spalle il tetto gigante.

Ma la speranza di arrivare vicini alla meta è stata amaramente delusa. La pioggia si abbatteva su di noi senza pietà. Il camino finale, che doveva essere facile, si è rivelato un'enorme serie di camini strapiombanti, ghiacciati, fragili, bloccati, lisci, che pendevano ancora circa 150 m sopra di noi. Un torrente selvaggio scorreva tra le pareti. Ma cos'altro potevamo fare se non passare? Il freddo gelido e l'acqua impetuosa hanno prosciugato il meglio delle nostre forze. Con un'energia ferrea ci siamo fatti strada camino dopo camino. Il freddo ci scuoteva così tanto che battevamo i denti, era impossibile stare in piedi liberamente, le nostre gambe tremanti non riuscivano più a sostenere i nostri corpi. Solo quando ogni muscolo era teso durante l'arrampicata, il lavoro costringeva i nervi a fare nuovamente il loro lavoro.

Alle 4 del pomeriggio, dopo le ore più inquietanti, raggiungemmo finalmente la cima della Marmolada, dove alcune baracche diroccate testimoniano ancora la guerra delle Dolomiti. Siamo usciti tra la pioggia battente in un temporale sferzante e solo la consapevolezza che un tetto, vestiti asciutti e tè caldo ci aspettavano laggiù nella valle ci ha permesso di scendere velocemente sulla cresta occidentale. La gioia della vittoria riuscì a riempirci solo in sordina. Solo quando fummo di nuovo tornati a terra con gli scarponi ci uscì dal petto il primo grido liberatorio e lentamente scendemmo verso il rifugio.

Considerazioni

In tutta questa storia, Walter Stösser fa la figura del cattivo. Dalle lettere è abbastanza ovvio, come rileva anche Tita Piaz (vedi parte 1), che non crede alla salita di Micheluzzi, non perché la notizia non gli sia giunta (come scrive Doris [3]), ma perché la ritirata della cordata Perathoner-Gluck, assieme ai dubbi reali o presunti, lo convincono del contrario. Anche questo scritto dalla prosa colorita e brillante (per citare sempre Ettore [4]), affascinante ma non scevra di retorica dell'eroismo (la si confronti con la relazione dei primi salitori!), è denso di doppi sensi, dal riconoscimento formale della salita di Micheluzzi nella fase iniziale ai dubbi in quella finale, e non mi pare quel pieno e leale riconoscimento di cui parla Castiglioni [4]. Eppure, il semplice fatto che la tecnica per superare il tetto sia spiegata chiaramente nella relazione di Micheluzzi (che Stösser conosceva bene e cita nelle salite precedenti, ma non quando lo supera) mi pare un'ulteriore chiara indicazione della priorità nella salita. Carlo Mazzariol su Le Alpi Venete [5] dice a p. 138 che

Stösser spiegò che il malinteso nacque nel momento in cui, a Canazei, gli fu riferito solamente di un tentativo avviato dalle guide Perathoner e Gluck e conclusosi sotto il "grande tetto".

ma abbiamo visto che anche questa versione non regge. Forse però non bisogna essere troppo severi; probabilmente Stösser non voleva vedere le prove della salita precedente perché lo spigolo era troppo importante per lui. Come dargli torto? Certo fa un po' specie leggere ancora oggi nella pagina wikipedia a lui dedicata che "numerosi tentativi falliti hanno gettato dubbi sulla versione degli italiani", tirando in ballo ancora il recupero di Perathoner!

Se alla fine si sia intimamente convinto della salita di Micheluzzi, al di là delle dichiarazioni di prammatica, non lo sapremo mai: il 1 agosto 1935 cade durante una salita al Morgenhorn, nell'Oberland Bernese. A parte l'elenco dei caduti in montagna del 1935, da noi non si registrano commemorazioni; solo nel 1941 esce su Le Alpi [6] una recensione di Carlo Sarteschi del libro di Paul Huebel Der Bergsteiger Walter Stösser in cui le sue numerose imprese sono ricordate. Al netto dei richiami al martirio e al sacrificio che risparmio ai lettori (e che nel 1941 si sarebbero invece dovuti spendere contro l'idiozia di chi aveva trascinato l'Italia in guerra), estraiamo le ultime righe della recensione:

Stoesser ebbe la buona sorte di non esser vittima di un attimo di smarrimento, di una debolezza sempre possibile: al Morgenhorn, duecento metri sotto la vetta, un blocco di neve ghiacciata, staccatosi di colpo, rovesciò Seybold, il compagno di cordata. Stoesser fu strappato a sua volta. Il racconto del teste oculare, il bravo custode del Rifugio Gspaltenhorn, è di una elementare tragicità. Una rozza croce di legno, in vista della immane parete del Morgenhorn, ricorda Stoesser, vittima, non vinta, della montagna.

C'è ancora spazio per una terza parte, sugli altri protagonisti della vicenda.

Bibliografia

[1] Walter Stösser, Die Südwestkante der Marmolata, Zeitschrift des Deutschen und Oesterreichischen Alpenvereins 1933, pp. 209-218.
[2] Dante Colli, Storia dell'alpinismo fassano, Tamari (Bologna), 1999.
[3] Lorenzo Doris, Storia dell'alpinismo dolomitico - dalle origini al 1957, Nordpress, Chiari (BS), p. 91.
[4] Ettore Castiglioni, Le pareti della Marmolada, Rivista Mensile del CAI 1937 n. 3, pp. 92-101.
[5] Carlo Mazzariol, Walter Stösser - una storia, Le Alpi Venete 2014 n. 2, pp. 133-139. Disponibile qui.
[6] Carlo Sarteschi, Der Bergsteiger Walter Stoesser, Ein Buch der Erinnerung - Herausgegeben von Paul Huebel Gebr. Richters Verlagsanstalt, Erfurt, 1940, Le Alpi 1940-41 n. 3-4, p. 64.