sabato 4 ottobre 2025

Storia dell'alpinismo e dello sci

di Gian Piero Motti e Guido Oddo
Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1977 e 1978
In un silenzio, che non è più delle nostre Alpi, potrebbe esser bello liberare la fantasia ed immaginare, per qualche istante, le emozioni di quegli uomini davanti alla grande montagna. Una montagna oggi conosciuta in ogni minimo dettaglio, salita e risalita, aggredita sistematicamente, oggetto di sfogo per uomini che vivono in una società in costante tensione, strumento e terreno di colossali e volgari speculazioni che agiscono in nome del progresso e del turismo, dimenticando sempre più il rispetto e l'armonia con l'ambiente, assillati dal nevrotico desiderio di avere tutto e subito, senza fatica alcuna e senza soffrire. Eppure è bello immaginare lo stupore, lo smarrimento e la meraviglia infantile di questi uomini davanti ad un mondo assolutamente nuovo ed un po' misterioso, di fronte alla promessa di avventure e scoperte, al sorgere di quel turbamento interiore che sempre si prova a contatto con qualcosa di sconosciuto.
Riaprendo gli occhi
[...] si assiste ad una lotta sempre più nevrotica ed individuale, dove la dolcezza dell'armonia con l'elemento naturale va scomparendo sotto l'assalto della violenza competitiva che non ammette sogni, stasi e debolezze.

Qual è stato il primo libro italiano di storia dell'alpinismo? Se prescindiamo dai numerosi resoconti limitati a qualche gruppo montano, che appaiono regolarmente sulla Rivista Mensile del CAI sin dagli albori, il primo riferimento organico che mi viene in mente (ma correzioni sono ben accette!) è Lo sport dell'arrampicamento di Domenico Rudatis, del 1930-31. Bisogna poi certamente citare lo scritto (un'ottantina di pagine) Cento anni di alpinismo italiano di Massimo Mila, che apre il volume dedicato al primo secolo di vita del CAI nel 1963, e che fu allegato alla prima edizione italiana (1965) della storia dell'alpinismo di Claire-Éliane Engel per colmarne le vistose lacune. Nel 1977 De Agostini pubblica l'enciclopedia (come si usava allora...) La montagna, in otto volumi rilegati. Alla fine dell'opera, però, compaiono due volumi addizionali di una edizione speciale fuori commercio per gli abbonati a La Montagna (come riportato sull'antiporta) che scrivono davvero un nuovo capitolo - perdonate il gioco di parole - sul modo di raccontare l'alpinismo.

Sgombriamo subito il campo dalla parte dedicata allo sci: 136 pagine di cui si leggono con interesse solo le prime 30-40 di impronta storica, seguite da un noiosissimo elenco di gare e relativi vincitori, e limitiamoci alla storia dell'alpinismo. L'autore è Gian Piero Motti, che si è già fatto conoscere, oltre che per la sua attività alpinistica, anche per i suoi scritti ormai famosi (I falliti compare sulla Rivista Mensile del CAI del 1972, Il nuovo mattino sulla Rivista della Montagna del 1974); una personalità complessa e travagliata su cui molto è già stato detto e scritto. L'approccio che egli dà all'opera è del tutto innovativo: vi è sì la cronologia dei principali alpinisti e delle loro salite, ma questo appare a volte come secondario, un dato accessorio, perché (p. 29, II)

questo non vuole essere un trattato di psicologia dell'alpinista, o forse vorrebbe anche esserlo

ed in effetti lo è! Molto interessanti da questo punto di vista sono le prime 40 pagine circa, dove Motti indaga il rapporto Uomo-Natura, Uomo-Montagna, Alpinista-Vetta, per giungere a chiedersi il perché delle fatiche e dell'eterna insoddisfazione che spesso affligge l'alpinista, che sovente non si sente inserito nella vita di tutti e di tutti i giorni (p. 9) e che, giunto in vetta, prova la breve illusione di essere al di sopra di tutte le cose mortali. Ma non sempre è così (p. 9). Perché (p. 13):

la si era vissuta [la vetta] come meta finale e liberatoria, quasi assoluta nella sua purezza. Per raggiungerla si è dato tutto, si è lottato fino allo spasimo [..]. Invece una volta giunti in vetta si comprende purtroppo che era solo un sogno, un fantastico sogno che si è cercato di materializzare nell'immagine della scalata: in vetta però non vi è nulla, vi sono pochi metri quadrati di roccia o di neve, sovente ci si sta anche scomodi, fa freddo, tira vento e forse non si vede alcun panorama. [...] In ogni caso la discesa il più delle volte sarà uno squallido rito da consumare, uno stanco e mesto ritorno verso usi e abitudini di un mondo mediocre e insoddisfacente dal quale si era creduto di fuggire con la scalata.

A questo punto, urge un minimo di contestualizzazione. L'ambiente alpinistico italiano di quegli anni era ad un punto morto, e Motti coglie lucidamente la crisi: le cime, le pareti, le vie delle Alpi sembrano sature di possibilità, ed il desiderio di "avventura" spinge ad un ulteriore aumento della difficoltà (ripudiando i mezzi artificiali, su cui torneremo), all'alpinismo solitario o invernale, o verso le montagne extraeuropee e gli Ottomila. Ma questo vuol dire elevare in maniera significativa il rischio e la fatica. A ciò sommiamo il fatto che tutto il pattume retorico degli anni Trenta sull'alpinismo eroico, la lotta coll'alpe, il sacrificio (che invero ha infettato anche altri e ben più importanti ambiti), comincia finalmente ad apparire per quello che è anche tra gli alpinisti, o almeno alle giovani generazioni (Motti è nato nel 1946), che cercano un senso diverso al loro andar per monti.

Le soluzioni che Motti vede germogliare sono diverse: ovviamente si può continuare lungo il filone tradizionale (e si cita l'esempio di Messner, riportando alcune simpatiche note in sinistrese sulla collettivizzazione e la critica materialista), oppure ci si può volgere verso un alpinismo spogliato del carattere retorico e drammatico, la pace coll'alpe di Carlo Possa, dove (p. 15)

appare chiaro il fine di smitizzare l'alpinismo e di umanizzarlo rendendolo un fatto sociale e non più individuale [...], portandolo alle masse come sana attività creativa e sportiva non alienante e soprattutto non asservita alle strumentalizzazioni del sistema (sul che si possono nutrire dubbi molto fondati...).

Si identifica infine una terza via, ispirata a quanto in quegli anni si sta compiendo in Yosemite (pp. 17-18), dove gli alpinisti non si pongono questi problemi:

Per essi arrampicare è (o per lo meno dovrebbe essere) un gioco [nota: nel 1979 uscirà la famosa guida Il gioco-arrampicata della Val di Mello di Ivan Guerini], dove non esiste una meta da raggiungere, ma semplicemente la gioia che si trae dall'arrampicare stesso. [...] È un gioco che può essere magnificamente condotto sulle solari muraglie granitiche della Yosemite Valley (California) o sulle fantastiche scogliere delle Calanques [nota: ormai untissime].
Vi è però un grande pericolo che si cela nella pratica di questo tipo di alpinismo: si può correre il rischio di mantenere la stessa ideologia dell'alpinismo tradizionale, trasferendo il simbolo della vetta nella difficoltà del singolo passaggio. La meta da raggiungere e superare non è più la vetta, ma la lunghezza di corda o il passaggio difficile e sempre più difficile
[...]. Così si genera una competitività con sé stessi ed un'angoscia di caduta ancora peggiore, sfociando quasi sempre nel tecnicismo più esasperato e nell'arido atletismo.

Si potrebbe dire che questa previsione si è avverata nell'arrampicata sportiva, anche se non bisogna dimenticare che il vituperato arido atletismo da falesia, portato sulle grandi pareti, ha giocato e gioca un ruolo fondamentale anche nell'evoluzione dell'alpinismo. Ad ogni modo, Motti riconosce il carattere anarchico dell'alpinismo, e lascia la soluzione (personale) di questo dilemma a ciascuno di noi.

Prima di iniziare con la Storia vera e propria, c'è ancora tempo per discutere del problema della difficoltà e degli inevitabili confronti tra alpinisti di ieri e di oggi. Motti insiste (e lo ripeterà molte volte nella trattazione, ad esempio per la salita della Cima Grande di Lavaredo e della E del Gran Capucin) sul carattere di rottura psicologica delle imprese principali, perché dopo la prima salita (p. 35)

a coloro che la vorranno ripetere [la via] apparirà già più addomesticata, più fattibile. In pratica non esisteranno più incognite sulle possibilità di realizzazione, ma unicamente difficoltà da superare. Ormai esiste la sicurezza di salire dove altri sono già saliti: una specie di incantesimo si è rotto, l'ignoto diviene conosciuto e dall'opera d'arte dei primi o del primo salitore rapidamente si passa al lavoro tecnico e atletico di chi segue e ripete.

Ogni epoca ha il suo limite, e indubbiamente oggi le difficoltà superate sono maggiori rispetto al passato (ci mancherebbe altro!), ma se caliamo le azioni nel loro tempo non vi è differenza, perché (p. 37) durante tutta la storia umana, l'abbattimento di un limite ha richiesto sempre lo stesso tributo di impegno fisico e psichico. E oggi? Dopo una critica sociale che sa un po' di "controcultura" anni '70 (ma non è da buttare), con l'alienazione, la presa di coscienza delle masse (oggi rintronate da TikTok), l'ideologia competitiva del sistema, si identifica nell'alpinismo (grazie alla libertà e al contatto con la Natura) una valvola di sfogo per fuggire allo squallore delle gerarchie aziendali e burocratiche (p. 44; Gian Piero sorriderà se dico che la frase suona oggi un po' Fantozziana). Il risultato di questa corsa alla montagna è validissimo anche oggi (basta sostituire l'alpinismo con lo sci o i trekking più alla moda):

Il risultato visibile è che tutta la catena alpina sta subendo un'aggressione violenta che non ha precedenti, dove ciascuno cerca di farsi spazio a gomitate. Tutti vogliono vincere, tutti cercano il loro giorno da leone, costi quel che costi, scaricando nell'alpinismo torrenti di violenza repressa [...]. Purtroppo le Alpi stanno diventando un gigantesco «luna-park» ed una pattumiera di colossali proporzioni [...]. E, cosa ancora più grave, gli incidenti sono innumerevoli [questi concetti sono ripresi alle pp. 94-95 del volume II].

Dopo questa lunga premessa, la Storia si dipana come di consueto, dal Monte Bianco alla transizione da alpinismo scientifico dei pionieri a quello romantico, dalle alpi occidentali alle Dolomiti dove nasce il piacere dell'arrampicata pura, ma sempre facendo attenzione al contesto sociale in cui le imprese alpinistiche si svolgono (si legga la discussione a p. 104, dove pure non manca qualche giudizio un po' pesante sulla società tedesca dell'epoca, o quella a p. 20 del volume II sulla salita alla N dell'Eiger o ancora a p. 39). Si arriva così alla salita del Dente del Gigante nel 1882 che, com'è noto, riuscì solo con l'aiuto di mezzi artificiali. Se sul fatto specifico Motti sorvola, esprimendo soltanto un giudizio di valore estetico e non certo etico (p. 172), torna prepotentemente sulla questione parlando di Preuss (pp. 203-204):

Non è vero che in questo genere di scalata [artificiale] non esiste l'avventura, ma esiste soltanto durante la prima ascensione, quando il capocordata deve fare un vero e proprio studio delle fessure da seguire, dove la scelta di ogni chiodo comporta esperienza, astuzia, ingegno e intelligenza, dove esistono tutte quelle incognite di passaggio e di impossibilità di ritirata che sono presenti anche nell'arrampicata libera. A meno che si accetti l'uso del chiodo ad espansione, nel qual caso l'avventura è veramente finita. [...]
Nella ripetizione di una via artificiale rimane il fattore atletico, che può avere indubbiamente i suoi aspetti piacevoli e positivi 
[...]. Comunque, nel salire lungo una fila di chiodi già piantati da altri, oppure nel piantare chiodi sfruttando gli evidenti segni di chiodatura lasciati dalle cordate precedenti vi è ben poca avventura, ma il più delle volte solo un lavoro noioso e monotono che non dà alcuna sensazione di libertà e leggerezza.

Il giudizio mi pare un po' ingeneroso, ma ricalca quanto detto sopra per l'arrampicata libera. Bisogna però rimarcare che le prime salite in artificiale (quando non sono solo un mezzo per cercare di salire dove non si passa più in libera) costituiscono (p. 207)

un'esperienza di estremo interesse: per la lentezza assoluta dell'azione, per le pause molto lunghe che separano l'azione stessa, per il controllo nervoso che la progressione richiede. Una somma di fattori che fa di una salita su una grande muraglia granitica o calcarea un sorta di «viaggio» nel subconscio, una specie di via per autoconoscersi.

Anche questa insistenza sull'artificiale va contestualizzata. La percezione (che peraltro si verifica in ogni epoca) di essere giunti al limite delle possibilità aveva portato negli anni 60-70 ad un impiego massiccio del chiodo ad espansione e della progressione artificiale (ricordiamo il celeberrimo assassinio dell'impossibile di Messner del 1968), fino alla riscoperta dell'arrampicata libera e al riconoscimento che (p. 206)

vi sarà progresso [...] quando le pareti che noi abbiamo vinto a vinciamo con abbondante uso di chiodi e di staffe saranno scalate da un arrampicatore solitario senza alcun mezzo artificiale.

Molto meno convincente mi pare invece la divagazione psicanalitica che segue, con la montagna come Grande Madre, i traumi infantili e l'angoscia di castrazione (che compare anche nell'analisi su Ruskin a p. 64), il chiodo come metafora della penetrazione e via dicendo (anche perché avrei qualche problema ad applicarla all'alpinismo femminile). Motti nutre ovviamente un grande interesse per la psicanalisi, che applica costantemente (si vedano ad esempio i capitoli riservati a Cassin, Gervasutti, Bonatti, e la parte su Hemming), senza dimenticare l'antipsichiatria (quella di Cooper e Laing, non quella dei cialtroni) e la sua critica al concetto di normalità. Un altro degli interessi di Motti che emerge periodicamente è quello per le filosofie orientali (contrapposte al freddo razionalismo citato più volte) ed il loro rapporto diverso con la Natura, la rinuncia alle cose materiali e l'ascesi (soprassediamo sull'ampia documentazione scientifica che comproverebbe chiaroveggenza, telepatia e compagnia bella; d'altronde nemmeno oggi la Scienza gode di ottima salute...), che lo rendono simpatetico verso Rudatis e la sua filosofia, dove (p. 239)

l'alpinismo e soprattutto l'arrampicata estrema erano il mezzo ideale per superare sé stessi, per uscire dalla vile condizione soggetta al destino e per scoprire una dimensione di libertà in cui ci si riuniva a tutte le forze del cosmo.

Ci sarebbero poi da notare un paio di punti che in retrospettiva fanno rabbrividire, in cui si può forse leggere il dramma di Gian Piero di ritornare da dove è venuto, ma il rispetto e l'affetto che tutti gli portiamo anche se non l'abbiamo conosciuto personalmente ci fanno fermare qui, chiudendo con un monito validissimo anche oggi (p. 277):

L'alpinismo è una delle più belle manifestazioni anarchiche che esistano sul pianeta, e tale deve rimanere: senza leggi, senza regole, senza imposizioni dall'alto, senza padroni e senza padreterni. Sarà merito degli alpinisti di oggi e domani combattere una lotta accanita contro ogni forma di strumentalizzazione, sia che venga dall'interessatissima industria, sia che venga dai confini politici di destra e di sinistra. I caratteri più belli e genuini dell'alpinismo sono la ricerca appassionata e forse disperata di libertà, l'insofferenza per ogni regola umana e per ogni legge che non sia dettata dalle forze supreme della Natura, la ricerca di spazio e di infinito, il desiderio di entrare in armonia con le forze cosmiche e terrestri. La vita di oggi cammina verso una pianificazione che porta all'esatto contrario.

Ricordiamo infine che nell'edizione 2013 di Priuli e Verlucca (dove sparisce la parte sullo sci e si aggiunge - ma perché? - un "La" al titolo) è presente un capitolo aggiuntivo di aggiornamento a cura di Enrico Camanni.

lunedì 15 settembre 2025

Arichi

Michele sul 1° tiro.
E sul 3° tiro.
Tracciato della via. La foto della parete è
estratta da Google Earth.
Parete di Sanico (Monte Pizzocolo)
Parete SE

Accesso: raggiungere Toscolano Maderno e salire alla soprastante frazione di Sanico (seguire inizialmente le indicazioni per Maclino). Alla frazione, dove la strada compie una svolta ad angolo retto verso sinistra e inizia a salire, proseguire dritti (indicazione Parete di Sanico) su stradina pianeggiante fino ad un bivio dove si ignora una strada con indicazione "strada privata" sulla sinistra, parcheggiando subito dopo il bivio, a destra o sinistra. Proseguire un poco lungo la strada fino ad un altro cartello di strada privata. Qui prendere il largo sentiero che sale a sinistra. Dopo pochi metri si vede a destra un cancello di legno ed una staccionata con filo spinato che difendono un capanno di caccia, che va aggirato. Proseguite quindi per poche decine di metri lungo il sentiero e scendete per traccia verso destra (ometti lungo la traccia, ma non sul sentiero) fino ad un altro largo sentiero che proviene dal cancello. Seguite il nuovo sentiero verso sinistra, fino alla parete in corrispondenza dell'attacco di Melissa slimoncella. Appena prima di raggiungere la parete, salire per un canale sulla sinistra, seguendo una corda fissa dopo qualche metro. Portarsi poi verso sinistra fino a reperire le corde fisse ed i bolli arancio che conducono all'attacco delle vie Chela de Biass e Steno. Appena più a monte attacca la Via del ritorno (targhetta), e appena sopra attacca Arichi (scritta "A" visibile). Quaranta minuti circa.
In alternativa, poco dopo l'aggiramento del capanno, lungo il sentiero, bisogna identificare una traccia con corse fisse sulla sinistra. Seguendole, si giunge direttamente agli attacchi (soluzione comoda anche per la discesa).

Relazione: via breve ma molto piacevole che risale la parete per bellissime placche di calcare a buchi. La via è interamente attrezzata in stile classico (tranne l'ultima sosta), con protezioni su cordoni (non sempre nuovissimi...) in clessidre, sempre piuttosto ravvicinate, tanto che i friend restano sempre attaccati all'imbragatura; portatene comunque un paio per ogni evenienza.

1° tiro: salire dritti per muretto iniziale e placca, seguendo la lingua di roccia tra la vegetazione. 35 m; V, V+ (forse passo di VI-), V-; dieci cordoni in clessidra. Sosta su due cordoni in clessidre e maglia-rapida. Appena sopra a sinistra c'è una sosta più comoda su due cordoni in clessidre.
2° tiro: portarsi verso sinistra e continuare dritto lungo la placca a lame e buchi, uscendo su terra per rimontare un masso oltre cui vi è la sosta sulla sinistra. 35 m; V+, IV; sette cordoni in clessidra, una sosta. Sosta su cordoni in clessidre.
3° tiro: risalire la costola verso sinistra, superare un passo delicato (stare a sinistra rispetto al cordone) e continuare verso sinistra fino alla sosta. 20 m; IV, V+ (un passo), V; cinque cordoni in clessidra. Sosta su due cordoni in clessidre e maglia-rapida.
4° tiro: salire lungo una fessura e continuare verso sinistra e poi dritto su rocce più facili. Ignorare una sosta su cordoni, continuare e poco dopo portarsi a destra per risalire una facile placca che porta alla sosta. 35 m; V, IV, III+; quattro cordoni in clessidra, una sosta (due ordoni in clessidra). Sosta su due fix con cordoni e maglia-rapida.

Discesa: seguire la corda fissa verso destra fino ad un ancoraggio di calata (due fix, catena ed anello). Da qui si scende con tre calate da 25 m e l'ultima da 30 m. Basta una corda singola, ma fate attenzione all'ultima calata. Dalla base si seguono le corde fisse fino ad un sentiero pianeggiante, che si segue verso destra per trovare poco dopo altre corde fisse che riportano nei pressi del capanno di caccia.


Avvertenza: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

sabato 13 settembre 2025

Chianti Classico DOCG 2018 Castello di Verrazzano

Chi è stato a New York non può non aver visto il ponte di Verrazzano, che collega Brooklyn a Staten Island ed è dedicato all'esploratore Giovanni, nativo di Greve in Chianti (quindi provincia di FI) dove si trova ancora l'omonimo castello. Non sappiamo se il navigatore portasse seco alcune bottiglie di vino nei suoi viaggi perigliosi, ma sappiamo per certo che nella tenuta si coltiva vino dal 1170! L'azienda vitivinicola com'è oggi nasce però negli anni '60, e può contare su 52 ettari di vigneto, coltivati in regime biologico. Tra i vini prodotti, oltre a tre Chianti Classico (base, riserva e gran selezione, quest'ultima tipologia nata nel 2014), vi sono due Toscana Igt, un rosato ed un paio di bianchi, a cui aggiungere il canonico Vin Santo.

Stiamo sul Chianti e lasciamo, come spesso conviene, le riserve e le selezioni con i loro passaggi in barrique. Il Chianti Classico "base" è un vino tradizionale, che nasce dal 95% di Sangiovese ed un restante 5% non bene identificato (nella tenuta si coltivano anche Merlot, Cabernet, Canaiolo e Colorino; a voi la scelta), ed affina per (almeno) 18 mesi in botti da 33 hl, seguiti da 6 mesi in bottiglia.

Il vino si presenta di un bel colore rubino, con decisi aromi di frutti rossi, ciliegia su tutti, che si accompagnano a delle note speziate. Molto piacevole ed equilibrato al palato, con una componente alcolica che sostiene la struttura senza essere invadente. Finale un po' speziato che completa l'assaggio.

Di certo, l'avo esploratore avrebbe apprezzato! Ma noi non siamo da meno...

Gradazione: 14°
Prezzo di acquisto: 17 €

martedì 9 settembre 2025

Guffanti

Stefano sul 2° tiro.
Tracciato della via.
Torre conica del Barbisino (Gruppo dei Campelli)
Parete SO

Accesso: raggiungere i pressi del rif. Lecco dalla funivia dei Piani di Bobbio (alla modica cifra di ben 18 € A/R!) o da Ceresole di Valtorta e da qui risalire il lato sinistro del Vallone dei Camosci lungo la pista da sci, superando il capanno dove termina lo skilift e la parete S del Barbisino, dove salgono Gli antichi futuri e Avenida miraflores. Continuare fino ad un enorme ometto, dove si sale a sinistra per una vaga traccia fino a raggiungere un sentiero che si segue verso destra e che in breve conduce alla base della Torre. La via attacca subito dove giunge il sentiero, in corrispondenza di un fix per assicurazione. Proseguendo si trovano i fix delle altre vie che salgono sulla parete.

Relazione: breve via del 1971 (definita scalata da palestra sulla RM del 1972) che sale l'evidente fessura-camino della Torre, tutta concentrata nel bel secondo tiro, ottimamente chiodato a fix. Gli altri tiri, ben più facili, sono chiodati più distanziati. La roccia è ottima tranne che in alcuni punti del primo tiro dove è saggio fare attenzione. Tutte le soste sono su due fix con catena ed anello.

1° tiro: salire per erba ripida e rocce superando un paio di brevi diedrini più verticali. 25 m, IV, due fix.
2° tiro: salire tenendo verso destra fino a doppiare lo spigolino e proseguire in verticale lungo la fessura. 25 m, 6b (un passo), otto fix.
3° tiro: salire a destra del masso incastrato e continuare lungo la fessura o la placca a destra, raggiungere una cengia dove si ignora una sosta sulla sinistra (della via normale) per proseguire superando il muretto finale. 25 m, IV+, due fix.

Discesa: Spostarsi di pochi metri a destra ad una sosta su due fix con anelli. Con mezze corde, basta una calata singola da 55 m per giungere alla base. Altrimenti, è possibile fermarsi ad una sosta (due fix con maglia-rapida) dopo 35 m (attenzione se usate una corda singola da 70 m; si arriva alla sosta visto l'allungamento, ma fate i nodi alla fine!). Da qui si giunge alla base con una calata di 20 m circa.


Avvertenza: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

martedì 2 settembre 2025

Al forte

Tagliatelle con porcini e speck.
Carpaccio di cervo con finferli.
Strudel di mele.

Loc. Pezzei 66
Arabba (BL)

Chiunque abbia frequentato le Dolomiti, d'estate o d'inverno, per arrampicare, sciare, camminare o immergersi negli ormai ubiqui centri benessere non può non essersi imbattuto nella Grande Guerra: cimiteri, sacrari, trincee, gallerie, forti ne costellano il paesaggio, a ricordare una storia e una geografia di più di un secolo fa. Nell'alta val Cordevole o valle di Fodóm, alle pendici del Col di Lana, fu costruita a fine '800 dagli austroungarici la Tagliata di Ruaz, gravemente danneggiata durante il conflitto. Nel 1972 il forte è stato restaurato dagli attuali proprietari per adibirlo a ristorante e hotel. Superfluo quindi dire che l'ambiente è molto suggestivo, senza grandi stanzoni ricolmi di tavoli, e coniuga una piccola e parziale visita al forte con i piaceri della tavola.

La cucina ruota attorno ai piatti tipici ladini rivisitati con cura, con qualche incursione all'esterno ed una fattura sempre di ottima qualità. Scorriamo il menù: gli antipasti sono decisamente interessanti, tanto che decidiamo di sostituirli ai secondi, ed iniziamo quindi dai primi: a parte un'esotica lasagna alla bolognese si registrano minestra d'orzo, casunziei, canederli, ma le scelte del tavolo cadono sulle pappardelle alla cacciatora con ragù di cervo e, per quanto mi riguarda, su delle tagliatelle integrali con porcini, speck e crumble di noci: un piatto decisamente gustoso, con il condimento che si amalgama perfettamente alla pasta fatta in casa.

I secondi, a parte le ormai onnipresenti (ahimé) insalatone e un filetto di angus che fa il paio con le lasagne precedenti, includono un piatto ladino con polenta, funghi e pastin (carne tritata e speziata, tipica del bellunese), e un goulash di capriolo. Invitanti, ma non quanto gli antipasti, tra cui spiccano un carpaccio di manzo, un filetto di maiale affumicato con porcini, e soprattutto un carpaccio di cervo con finferli e balsamico ai lamponi che conquista entrambi. Il sapore appena selvatico del carpaccio si sposa magnificamente con l'acidulo del lampone e le note appena dolci dei finferli: da mangiarne a sazietà! Ai due carpacci abbiamo accompagnato un piatto di polenta e porcini, tanto per non farci mancare nulla.

Siamo giunti così al momento del dessert, meno ispirato dei piatti precedenti: semifreddi, sorbetti e gelati, tra i quali spiccano però due classici: la torta Linzer e lo strudel. Dopo un po' di esitazione, e dopo aver sbirciato a lungo le torte come un bambino davanti alla vetrina della pasticceria, decido per quest'ultimo. Delicatissimo e saporito, degno coronamento alla fine delle brevi vacanze dolomitiche! 

La carta dei vini è piuttosto interessante ed include soprattutto etichette del Triveneto. Scegliamo un Pinot noir di Salatin che affina in acciaio, con gradazione di 12,5° che si beve finalmente con piacere (qualche giorno prima, in altro luogo, un vino con la stessa gradazione sulla carta si era rivelato di ben 14° nella realtà, compromettendo la cena), anche se forse si poteva osare qualcosina di più.

Una nota finale è dovuta alla gentilezza e cordialità del personale, nonché dei proprietari. Un posto dove tornare assolutamente.

Il conto: 129 € per
2 primi
3 antipasti
2 dessert
1 bottiglia di acqua
1 bottiglia di vino (25 €)
2 amari

venerdì 29 agosto 2025

Ibex

Michele sul 1° tiro.
E qui sul 5° tiro.
Sul 6° tiro.
Sull'8° tiro.
Tracciato della via.
Piccolo Lagazuoi (Gruppo di Fanis)
Parete SO

Accesso: Si parcheggia nei pressi del passo di Valparola, all'altezza del Forte Tre Sassi, e si imbocca il sentiero dei Kaiserjaeger fino all'altezza del primo grande ghiaione, a sinistra dell'evidente torre 'Ntra i Sass con il suo evidente arco, oltre la quale sale la via Maurizio Speciale. Si raggiunge il culmine del ghiaione (qualche ometto) e si continua a seguire una traccia verso sinistra, che porta in breve ad una parete, all'altezza della via Pera forada. Pochi metri a sinistra sale Ibex (scritta alla base e cordini visibili).

Relazione: via piacevole e divertente, che sale la parete SO del Piccolo Lagazuoi senza particolari difficoltà. La chiodatura è ottima a fix sui passi più impegnativi (da qui l'utilizzo della scala francese nella valutazione), più distanziata nei tratti facili; non siamo comunque in falesia. La roccia è ottima nelle sezioni verticali, ma non mancano alcuni tratti delicati in prossimità delle cenge, soprattutto negli ultimi tiri: fate molta attenzione se vi sono cordate dietro di voi (e anche se ve ne sono davanti!).

1° tiro: salire la placca iniziale, superare un muretto e raggiungere la sosta. 50 m, 4a; quattro fix, due cordoni in clessidra. Sosta su due fix con anello.
2° tiro: Salire dritti sopra la sosta e portarsi verso sinistra su facili rocce fino a sostare su una terrazza. 35 m, 4a. Sosta su fix e cordone in clessidra.
3° tiro: attaccare a sinistra della sosta, salire dritti fino alla cengia e spostarsi alla sosta sulla sinistra. 50 m, 4a; un fix, tre cordoni in clessidra. Sosta su due fix con cordone.
4° tiro: ancora dritti per il muretto fino alla cengia; la sosta è appena sulla sinistra. 40 m, 4c; quattro fix, un cordino in clessidra. Sosta su un fix con cordone.
5° tiro: salire il muro a destra della sosta fino alla sosta. 50 m, 4c; cinque fix, un cordone in clessidra. Sosta su due fix.
6° tiro: salire per un diedrino fessurato a sinistra della sosta, traversare a sinistra e salire fin sotto la parete giallastra, dove si traversa a sinistra alla sosta sullo spigolo. 40 m, 4c; quattro fix, un chiodo, due cordoni in clessidra. Sosta su due fix con cordone.
7° tiro: salire il canale-rampa appena dietro lo spigolo fino alla cengia di sosta. 40 m, 4a, un cordone in clessidra. Sosta su fix con cordino.
8° tiro: si sale il pilastrino a sinistra della sosta fino ad una terrazza dove si sosta sulla sinistra. 30 m, 4a; un fix, un cordone su masso incastrato. Sosta su due fix.
9° tiro: salire per il diedro, spostarsi a destra e traversare, salendo poi alla sosta. 30 m, 4a, due fix. Sosta su due fix con cordone.
10° tiro: salire la facile paretina a sinistra della sosta (o aggirarla a sinistra) e proseguire per cengia verso sinistra fino ad uscire dalla parete. 70 m circa; II, I. Se non volete fare qualche metro in conserva, allestite una sosta intermedia.

Discesa: seguire il sentiero verso destra puntando al rifugio dove giunge la funivia del Lagazuoi. Prima di raggiungerlo, prendere a destra il sentiero dei Kaiserjaeger (indicazione) che si segue fino al parcheggio.


Avvertenza: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

martedì 26 agosto 2025

Valerio Giordano

Michele sul 1° tiro.
Sul 4° tiro.
Sul 5° tiro.
Michele sul 7° tiro.
Tracciati della Valerio Giordano (arancio) e delle Vonbank,
Orizzonti di gloriaAlice.
Piccolo Lagazuoi (Gruppo di Fanis)
Parete SE

Accesso: da passo Falzarego, al parcheggio della funivia del Lagazuoi, si segue il sentiero che risale la pista da sci per prendere poco dopo a sinistra il sentiero dei Kaiserjaeger (indicazione). Lo si segue fino ad un grosso masso in corrispondenza dell'evidente ghiaione erboso di foggia triangolare che marca la base della via, alla sinistra della parete, ben visibile dal parcheggio. Qui si lascia il sentiero per salire alla parete, dove si trova la trincea e due gallerie (visitabili) della postazione austriaca Vonbank. La via parte tra le due gallerie, appena a destra della Vonbank (evidentissima targa metallica con nome). Mezz'oretta circa.
All'attacco si può anche giungere parcheggiando nei pressi del Forte Tre Sassi e prendendo il sentiero dei Kaiserjaeger fino a che questo non inizia a salire a tornanti, più o meno all'altezza della base della parete. Lo si lascia traversando a destra per traccia giungendo in breve all'attacco.

Relazione: via recente (del 2023) che risale la parete a destra della via Vonbank su muri verticali di ottima roccia e difficoltà contenute, regalando un'arrampicata di soddisfazione. La via si muove quasi sempre intorno al 4c/5a, con chiodatura un po' distanziata, e qualche passo intorno al 5c/6a, ottimamente protetto a fix. Friend non strettamente necessari, ma ovviamente valutate voi in base alla vostra confidenza. A mio modesto parere, i gradi indicati nella relazione degli apritori sono un po' strettini, e li ho ritoccati nel seguito. Passi obbligati di 6a. Tutte le soste sono su due fix con catena ed anello.

1° tiro: superare il muretto iniziale, portarsi verso destra e continuare in verticale. 40 m, 5c (uno/due passi); sei fix, un chiodo, un cordone (marcio) in clessidra.
2° tiro: salire in verticale per il muretto e uscire sulla destra alla sosta. 20 m, 6a (un passo), tre fix.
3° tiro: ancora in verticale lungo il muro fino alla sosta. 40 m, 5b, cinque fix (uno con cordone).
4° tiro: spostarsi a destra, salire un vago e breve diedrino e continuare per facili rocce fino alla sosta. 25 m, 6a (un passo); quattro fix, un chiodo.
5° tiro: salire il muretto fino alla sosta su cengia. 45 m, 6a+ (un passo facilmente azzerabile o aggirabile al primo fix, poi 5a),  sette fix. Tiro molto bello e divertente.
6° tiro: spostarsi a destra e salire l'evidente spigolo fino alla sosta. 40 m, 4a, cinque fix.
7° tiro: proseguire brevemente e salire il corto diedro, uscendo dalla parete. 20 m, 4c, un fix. Sosta su fix con anello.

Discesa: si segue il sentiero dei Kaiserjaeger in discesa fino al punto di partenza.


Avvertenza: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

domenica 24 agosto 2025

Molino del torchio

Selezione di salumi
Gnocchi con salsiccia e funghi
Coscia d'anatra arrosto
Torta al cioccolato

Via Molino del torchio 17
Cuasso al Monte (VA)

Siamo sulla strada che da Varese reca a Porto Ceresio; poco prima di giungervi si svolta a sinistra e si segue uno sterrato che in breve conduce al vecchio mulino di più di un secolo fa, ora trasformato in ristorante con possibilità di alloggio. L'interno conserva la struttura e gli arredi in stile tradizionale, con tavoli ben distanziati, e la cucina è di impronta lombarda, con attenzione all'origine delle materie prime utilizzate.

Il menù propone quattro-cinque proposte per ogni portata, ma una volta tanto mi oriento per il menù degustazione, decisamente conveniente e che propone una scelta tra due proposte per piatto. Un delicato antipasto di salumi misti locali apre la cena, accompagnato da verdurine in agrodolce e un paté di vitello: piatto senza troppi fronzoli, come tutti quelli proposti, ma ricco di sostanza.
La scelta sui primi cade tra dei ravioli farciti di toma di capra e gli gnocchi con salsiccia e funghi, che scelgo senza esitazione. Posso solo dire che l'unica nota un po' stonata è la foggia del piatto, poco invitante per i miei gusti, mentre quello che ci sta dentro si amalgama perfettamente!
E siamo così ai secondi, dove fa capolino un filetto di pesce persico contro una coscia d'anatra arrosto con patata duchessa. Tocca così mettere da parte il mio amore per i pesci di lago e gustarmi una generosa coscia d'anatra, che raramente ho occasione di assaggiare, insieme ad un'altrettanto - per me - inusuale patata duchessa (ma chi ricordava che erano così buone?).

Tra i dolci mi oriento, ormai senza fantasia, tra sorbetti, bavaresi e torte, pescando una canonica torta al cioccolato, che non delude mai.

La lista dei vini ha tra l'altro una buona selezione di etichette lombarde, incluse alcune bottiglie della provincia di Varese, non tra le più rinomate per quanto riguarda il vino (mi perdonino gli autoctoni). Mi lascio così tentare da un Sebuino (uvaggio di Croatina, Merlot, Barbera e Vespolina) della Cascina Piano, che soddisfa la mia richiesta di non assaggiare il solito vino che affoga nel legno piccolo, ma resta un po' scarico rispetto alle pietanze.

La prossima volta non resta che assaggiare il menù alla carta!

Il conto: 150 € per:
3 antipasti
3 primi
3 secondi
3 dessert
3 caffè
1 bottiglia di acqua
1 bottiglia di vino (20 €)

Treni 2218 e 2275 (Bergamo-Milano Lambrate): ritardi maggio-luglio 2025

Fig. 1: distribuzioni cumulative dei ritardi per il treno 2218
delle 8:02 nei trimestri maggio-luglio dal 2015 al 2025.
Fig. 2: Ritardi nel bimestre in esame per il treno 2218 (8:02).
Fig. 3: Come in Fig. 1 ma per il treno 2275 (17:40).
Fig. 4: Come in Fig. 2 ma per il treno 2275 (17:40).

La notizia del trimestre ci dice - chi l'avrebbe mai detto? - che le richieste di rimborso per i ritardi di Trenord sono drasticamente diminuite a seguito dell'introduzione del nuovo criterio, senza che ciò corrisponda ad un aumento della puntualità. Da antologia poi la risposta di Lucente (assessore ai trasporti) riportata, che dà la colpa all'ignoranza dei viaggiatori: "Quando la gente capirà che deve fare la richiesta, i numeri aumenteranno"! L'unico commento che mi sento di fare lo prendo a prestito da quelli presenti sotto l'articolo: "Terzo mandato subito per fontana!!!!!!"

Andiamo ora a vedere il dettaglio della linea di nostro interesse, iniziando dal treno 2218: puntualità all'8% e al 68% entro 5' di ritardo; massimo ritardo di 33' il giorno 8/5 per ritardo del treno precedente. L'andamento della curva cumulativa (Fig. 1) conferma quanto registrato nell'ultimo bimestre, ovvero un miglioramento rispetto agli anni precedenti (curve rosse). I dati sintetici sono riportati in Fig. 2 in funzione dell'anno: dopo i valori decisamente impresentabili degli anni 2022-23, si comincia a vedere un miglioramento, con la media di poco superiore ai 5' ed il nono decile sotto i 10 (non si vedeva dal 2020!). Quando anche la curva blu scenderà sotto i 5' potremo finalmente dire di avere un servizio puntuale. Aspettiamo fiduciosi... ma neanche troppo.

Passiamo ora al 2275: puntualità al 31% e al 69% entro 5'; massimo ritardo di 33', verificatosi ben tre volte (6, 12 e 19 maggio) per treno cancellato oppure fermato a Verdello per eccessivo ritardo e conseguente arrivo a Bergamo con il successivo 2237. Non è una novità: fino a circa 10' di ritardo il comportamento non è così diverso da quello del 2218; oltre ciò, i ritardi aumentano spaventosamente. Questi dati si vedono anche in Fig. 4, dove media e mediana sono anche migliori del 2218, ma il dato al 90% continua ad essere inaccettabile... anche con i nuovi, ridicoli, standard di valutazione!

Ed eccoci al capitolo delle giustificazioni: su sedici segnalazioni per ritardi sopra i 10', quattro sono relative a guasti o lavori alla linea, una allo sciopero del 23/5, il resto sono affari di Trenord: sei per guasti al treno o altre non meglio precisate esigenze tecniche, cinque per ritardo di altri treni.


Nota: i dati sono raccolti personalmente o da app Trenord. Per correttezza, bisogna specificare che i ritardi sopportati dai pendolari su questi due treni non sono indicativi dei ritardi complessivi, che sta ad altri raccogliere e rendere pubblici. Idem per i rimpalli di responsabilità tra Trenord, Rfi, e quant'altri. Qui si cita spesso Trenord in quanto è ad essa che i poveri pendolari versano biglietti ed abbonamenti, e ai quali dovrebbe rispondere del servizio.

sabato 23 agosto 2025

En coulisse

Michele sul 1° tiro
(non chiedetemi perché la parte centrale è sfocata).
...e qui sul 4°.
Sul 5° tiro.
Tracciato della via.
Piramide del Col dei Bos
Parete SE

Accesso: Da Cortina d'Ampezzo si sale in direzione del passo Falzarego fino all'altezza del ristorante Strobel sulla destra (o del rif. Col Gallina sulla sinistra), dove si parcheggia. Si prende il sentiero che parte in fondo al piazzale del ristorante, che sale e si immette in una mulattiera pianeggiante da seguire verso destra fino a giungere sul piazzale del vecchio ospedale militare della Grande Guerra. Si lascia a sinistra la ben evidente Torre grande di Falzarego dove sale la via Dibona e si prosegue in piano per il percorso che conduce all'attacco della ferrata (segnalato, ma ben evidente per la fila di persone che la affollano). Si continua brevemente oltre detto attacco, superando quello dello Spigolo Alpini e raggiungendo il punto più basso della parete, dove attacca la via. Fix evidente. A sinistra corre un'altra linea a fix.

Relazione: En coulisse dovrebbe stare per "in sordina", "dietro le quinte", e testimonia quantomeno della modestia degli apritori che scovano questa linea nel 1997, tra l'assai frequentato Spigolo Alpini e le vie più lunghe del Col dei Bos. L'arrampicata è discontinua ma non priva di tratti interessanti, e si adatta bene per i giorni dove non si ha molto tempo a disposizione. La chiodatura è mista a fix e qualche chiodo, ottima nei passi più impegnativi, distanziata nei tratti facili: friend non strettamente necessari, ma tutto dipende dalla confidenza personale. Roccia ottima.

1° tiro: salire il pilastrino e sostare sulla cima. 20 m, 4c, quattro fix. Sosta su un fix.
2° tiro: salire per il muretto sopra la sosta e proseguire per rocce più facili fino alla sosta. 40 m; 4c, IV; due fix. Sosta su fix e chiodo.
3° tiro: proseguire in verticale fino ad una sella nei pressi della quale si trova la sosta. 35 m, III. Sosta su due chiodi.
4° tiro: attraversare a destra superando un canalino e continuare per facile placca appoggiata fino alla sosta. 45 m, III; un fix, un cordone in clessidra. Sosta su fix e cordone in clessidra con maglia-rapida. Il tiro può essere spezzato in due sostando sul fix.
5° tiro: salire la parete fessurata di sinistra e continuare per un vago diedro fino alla sosta sotto una paretina. 35 m; IV, III; un fix. Sosta su un fix.
6° tiro: superare il muretto salendo verso destra e continuare fino a raggiungere la sosta. 25 m; 4c, IV; tre fix, un cordone in clessidra. Sosta su fix e cordone in clessidra.
7° tiro: salire lungo lo spigolo a destra e continuare lungo una terrazza fino ad una paretina dove si sosta. 50 m; IV, IV+, II; due anelli cementati, due cordoni in clessidra. Sosta su anello cementato.
8° tiro: risalire la paretina e spostarsi a sinistra fino alla sosta sulla parete. 20 m; II, I. Sosta su due fix.
9° tiro: la via (in comune con lo Spigolo Alpini) prosegue a sinistra, seguendo gli anelli cementati. Noi abbiamo invece seguito una variante lungo il canale di destra, salendolo fino ad un masso che lo chiude. Se le corde lo consentono, salire a sinistra appena prima del masso e sostare. 55 m, III. Sosta su anello cementato (o su spuntone).
10° tiro: spostarsi a sinistra e salire un corto muretto con prese un po' unte. Continuare per facili rocce fino alla sommità. 30 m; IV-, III; un anello cementato. Sosta da attrezzare sul cavo metallico della ferrata.

Discesa: seguire la ferrata e scendere alla sella che separa la Piramide dal Col dei Bos. Qui prendere un canalino a sinistra (verso il passo Falzarego) e scendere per rocce facili e tratti friabili (è possibile calarsi in corda doppia sfruttando gli ancoraggi presenti) fino a ricongiungersi con il sentiero che porta al Col dei Bos. Seguirlo verso sinistra per ritornare al sentiero di accesso nei pressi del vecchio ospedale militare.


Avvertenza: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

venerdì 25 luglio 2025

Dibona

Teo alla partenza del 2° tiro.
Ancora lui sul 4° tiro.
Sul 5° tiro.
Sul 7° tiro.
Tracciato della via (la foto della parete è
presa da Google Earth).
Torre Innerkofler (Gruppo del Sassolungo)
Parete SE

Accesso: parcheggiare a Passo Sella e scendere verso la val Gardena (qualche sporadico parcheggio), tenendo una scorciatoia sulla sinistra che conduce verso il rif. Valentini (possibilità di parcheggio a pagamento). Continuare lungo la strada sterrata (sbarra), puntando alla stazione di arrivo della seggiovia. Per via di uno sterrato a destra e una traccia si raggiunge l'evidente crinale, che si segue verso sinistra, superando la Punta Grohmann dove sale la via Dimai e giungendo in vista della parete E della Torre Innerkofler, alla cui base si nota un evidente avancorpo grigiastro. Salire il canale tra l'avancorpo e la Torre vera e propria, superando diversi salti rocciosi e qualche residuo nevoso, fino ad identificare due chiodi con cordino rosso a poca distanza l'uno dall'altro. Un'ora e mezza circa.

Relazione: via che supera la parete della Torre con un percorso piacevole e mai difficile, dove spiccano un divertente terzo tiro in traverso in camino e una bella fessura nel settimo, scovato dall'intuito del grande Angelo Dibona con Luigi Rizzi, accompagnati dai due fratelli Mayer, il 6 agosto 1910 (sulla guida CAI-TCI del Sassolungo di Ivo Rabanser del 2001 si dice per errore 1911). La roccia è discreta nei primi due tiri per poi migliorare sensibilmente (ma ovviamente serve sempre un po' d'attenzione), e la chiodatura è abbastanza essenziale: utile qualche friend per integrare i passi più delicati. L'avvicinamento, la salita fino alla vetta e la lunga discesa la rendono comunque una salita remunerativa, da affrontare solo con buone condizioni meteorologiche.

1° tiro: Salire la fessura obliqua verso destra in corrispondenza del chiodo più a monte, uscirne su una rampa e salire ancora verso destra fino a quando è possibile piegare a sinistra facilmente. Puntare ad un muro giallo, alla cui base di trova la sosta. 45 m; IV, III; una sosta intermedia (due chiodi con cordino e maglia-rapida) vicino ad un cordino in clessidra (un po' fuori via; allungare la protezione). Sosta su due chiodi (uno a pressione) con cordino e maglia-rapida.
2° tiro: Superare la lama appena a sinistra della sosta e salire per placca fino alla sosta. 20 m, IV. Sosta su due chiodi.
3° tiro: Salire appena a sinistra della sosta, traversare a destra per una lama ed entrare in un camino. Salire brevemente e atttraversarlo uscendo in corrispondenza di una terrazza. Alzarsi per pochi metri fino a identificare la sosta sulla roccia giallastra a sinistra. 30 m; IV, IV-, III, II; due chiodi, un cordone su masso incastrato. Sosta su due chiodi.
4° tiro: Traversare a sinistra e continuare in obliquo lungo una rampa fino a giungere alla base di un camino nascosto, dove si trova la sosta. 35 m; IV+, IV, III; due clessidre con cordone. Sosta su due chiodi con cordone.
5° tiro: Salire in verticale ed imboccare il canale/camino sulla sinistra, che si segue fino alla sosta sulla sinistra. 35 m; IV, III+, IV; due  chiodi, un cordone in clessidra. Sosta su chiodo con anello e cordone in clessidra.
6° tiro: Continuare lungo il canale/camino fino a raggiungere una forcella, dove si sosta sulla destra. 55 m; IV-, IV+; due chiodi, due clessidre con cordone.  Sosta su due chiodi con cordone.
7° tiro: Portarsi dal lato opposto della forcella e salire a sinistra dell'evidente fessura per pochi metri, fino a quando è possibile traversare a destra, superando la fessura per salire alla sua destra, sfruttando una seconda fessura meno marcata. In alto si ritorna a sinistra per gli ultimi metri. 25 m; IV (un passo di IV+); un cordone in clessidra, due chiodi. Sosta su cordone su spuntone.
8° tiro: Abbassarsi sul canale di destra e salire tenendo inizialmente la destra e spostandosi poi più a sinistra, fino a raggiungere una forcella dove si sosta. 40 m; III, IV, III, IV; un chiodo con cordone. Sosta su due chiodi.
9° tiro: Salire sopra la sosta e spostarsi a destra per entrare in un canale. Seguirlo fino a quando questo si chiude e sostare sulla sinistra (ometto poco visibile). 50 m; IV-, III. Sosta da attrezzare su spuntone.
10° tiro: Alzarsi sopra la sosta e proseguire in obliquo fino a quando è possibile passare sul versante opposto. Abbassarsi qualche metro e attrezzare una sosta su spuntone. 30 m, III.

Per raggiungere la vetta ed il percorso di discesa bisogna abbassarsi qualche metro fino ad una forcella. Salire sul muretto opposto e ridiscendere dall'altro lato ad una seconda forcella. Proseguire fino a quando è possibile salire a sinistra lungo facili risalti rocciosi. Raggiunto un muro giallo, traversare a sinistra seguendo qualche ometto per circa una decina di metri e salire in verticale fino a raggiungere il filo di cresta che dà su un ampio canale. NON scendere verso il canale, ma affrontare un breve passaggio (III+), per proseguire lungo il filo di cresta fino ad una forcellina. Spostarsi pochi metri a sinistra e guadagnare un'altra forcella, da dove ci si abbassa per entrare nel canale, che si risale seguendo tracce di passaggio e qualche ometto fino alla vetta. 300 m circa di sviluppo.

Discesa: Lunga e non banale se le condizioni meteo non sono buone. Dalla vetta ritornare sui propri passi (sud) fino all'ampia terrazza. Qui piegare a sud-est (destra; direzione Pozza di Fassa) e abbassarsi seguendo i vari ometti di roccia e qualche bollo rosso. In corrispondenza di uno sperone si trova la prima sosta di calata (spuntone + cordino + chiodo). Scendere per 25 metri.
Continuare tendendo verso destra (viso a valle - numerosi ometti) e doppiare uno spigolino, oltre il quale si trova un'evidente sosta di calata (chiodi e clessidra), pochi metri a destra della quale ve n'è una seconda su fittoni resinati). Scendere per 25 metri.
Dal termine della calata bisogna risalire una rampa verso destra (viso a valle) che conduce ad un bollo ben evidente dalla sosta di calata. Noi abbiamo invece seguito la linea di soste di calata ben evidenti (che dovrebbero appartenere a L'apparizione): se seguite questa soluzione, bisogna scendere con tre calate tra i 20 e 30 metri su chiodi e/o clessidre con cordoni, fino a raggiungere una sosta con fix e cordoni con maglia-rapida. Da qui, calarsi per poco meno di 60 metri.
Guadagnata una sosta con cordini, chiodo, e maglia-rapida su spuntone, scendere per 55 metri fino ad arrivare nel canale tra la Torre ed il Dente. Non resta che scendere a sinistra lungo il canale e ritrovare il sentiero di avvicinamento che riporta a passo Sella. Tre ore circa.

Lo schizzo sulla guida [3].

Piccola nota bibliografica: La salita di Dibona e Rizzi è menzionata per la prima volta nel notiziario (Mitteilungen) del DOEAV del 1911 [1], a cura di Max Mayer, ed è ripetuta dal fratello Guido, che partecipò all'ascensione, all'interno di una lunga monografia di quasi 70 pagine sul Sassolungo pubblicata nell'Annuario (Zeitschrift) del DOEAV del 1913 [2]. Se parliamo di guide alpinistiche, la prima menzione che sono riuscito a reperire si trova nel terzo volume della guida delle Dolomiti di Julius Gallhuber (da cui fu estratta la parte relativa al Catinaccio, tradotta e pubblicata meritoriamente dal CAI Bergamo intorno al 1929-30) [3]. Ecco la relazione (traduzione molto approssimativa):

Per la parete sud-est e lo spigolo sud-est. (via senza ghiaccio, ma con un punto estremamente difficile)
Attraverso i prati fino all'inizio della gola che si estende da sud verso la forcella Grohmann
[nota: è la sella tra la punta Grohmann e la Torre Innerkofler], divisa in basso da uno sperone. Nel primo ramo, salire brevemente fino a quando la parete orientale si dissolve leggermente in ghiaioni. Ora attraverso una fessura stretta, che diventa più profonda in alto, con due gradini (aperti verso la forcella) e per una spaccatura verso sud per 30 m, fino ad un alto camino con gradoni. Dopo 150 m di salita fino ad una forcella e 30 m molto difficili, per fessura o per placca alla sua destra, si sale verso nord fino a una cresta. Da qui a destra in un camino simile a una gola e attraverso questo, un po' frammentato, verso lo spigolo SE e per ripidi gradoni fino alla cima, 3 ore.

Per una guida italiana della zona del Sassolungo bisogna aspettare il 1944, con il volume della Guida dei Monti d'Italia di Tanesini [4]. In esso, la Torre è chiamata col toponino italiano Punta Pian de Sass. L'itinerario è definito il migliore della montagna, di III+ con un passaggio di IV+, da farsi in cinque ore.

[1] Mitteilungen des Deutschen und Osterreichichen Alpenvereins n. 18, 1911, p. 215
[2] Zeitschrift des Deutschen und Osterreichichen Alpenvereins 1913, p. 295
[3] Julius Gallhuber, Dolomiten, Vol. 3, Vienna, 1928, p. 159
[4] Arturo Tanesini, Sassolungo Catinaccio Latemar, CAI-TCI, Milano, 1944, pp. 209-210


Avvertenza: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

domenica 6 luglio 2025

L'ora di lezione - per un'erotica dell'insegnamento

di Massimo Recalcati
Einaudi, Torino, 2024 (1a ed. 2014)
Non è in questo che consiste, in ultima istanza, la posta in gioco di tutta la partita dell'insegnamento? La Scuola non dovrebbe avere questo come suo proprio compito? Rendere il sapere un oggetto in grado di muovere il desiderio, un oggetto erotizzato capace di funzionare come causa del desiderio, in grado di spostare, attirare verso, mettere in movimento l'allievo. Non è questa la funzione [...] che dobbiamo riconoscere a un sapere che si rivela erotico, cioè capace di mobilitare il desiderio di sapere?

Tutti noi (o almeno, i più fortunati) abbiamo incontrato un docente che ha cambiato, se non la nostra vita, almeno la nostra relazione con il sapere, che ha dato un senso alle ore passate in classe, stimolando non solo l'apprendimento di concetti, ma la passione stessa per l'apprendimento e lo sviluppo di un metodo critico da seguire nella propria ricerca personale. Forse il più fortunato dei numerosi saggi di Recalcati, L'ora di lezione è un omaggio a questi docenti.

Il libro è diviso in quattro parti, iniziando da un'introduzione alle diverse "scuole" che si sono susseguite nei decenni, da quella frequentata dai "diversamente giovani" di oggi, frutto di alleanza tra insegnanti e genitori, gerarchica ed autoritaria, alla scuola di oggi, post-contestazione, dove l'alleanza si stabilisce invece tra genitori e figli (pp. 25-27):

I genitori si alleano con i figli e lasciano gli insegnanti nella più totale solitudine [...] a supplire alla funzione latitante del genitore, cioè a fare il genitore degli allievi.
La nuova alleanza tra genitori e figli disattiva ogni funzione educativa da parte dei genitori che si sentono più impegnati ad abbattere gli ostacoli che mettono alla prova i loro figli per garantire loro un successo nella vita
[che non ad educarli...]. I figli si confondono con i padri, [...] le ore di lezione sono dedicate a rincorrere un silenzio e un'attenzione che sembrano impossibili da raggiungere, gli esami all'università non possono superare un certo numero di pagine, i voti considerati ingiusti dai figli mobilitano le proteste accorate dei genitori, [...] la parola [...] viene sopraffatta da una cultura delle immagini, che tende a favorire un'acquisizione passiva e senza sforzo. [nota mia: opinabile]

La soluzione, o per meglio dire l'auspicio, di Recalcati è una scuola che faccia da sintesi alle prime due, dove l'autorità dell'insegnante si costruisca "dalla testimonianza della forza della parola" (p. 35) che vivifica il sapere. Il resto del libro è dedicato alla disamina di questo concetto secondo due direttrici strettamente legate: la prima indica il sapere non come semplice trasferimento di nozioni dal maestro all'allievo, ma come fine di un percorso di ricerca individuale che il maestro deve saper indicare (la "mancanza" del sapere che causa il desiderio) (p. 43):

L'apprendimento non avviene per travaso passivo da un bicchiere più pieno a uno più vuoto, perché il modello sul quale si fonda non è mai quello di un vuoto da riempire - le teste vuote degli allievi dentro le quali si deve versare il cemento del sapere - quanto di un vuoto da aprire.

Il secondo concetto è quello del sottotitolo: l'insegnamento non è indottrinamento, non è clonazione di discepoli, non è ascolto passivo di "verità", ma il generatore di una ricerca personale. L'insegnamento deve generare amore per il sapere, e l'insegnante è il testimone di questo desiderio (p. 47):

Un insegnamento degno di questo nome non inquadra, non uniforma, non produce scolari, ma sa animare il desiderio di sapere. Per questa ragione ogni insegnamento che sia tale muove l'amore, è profondamente erotico, è in grado di generare quel trasporto in cui consiste in ultima istanza il fenomeno che in psicanalisi chiamiamo ‭«transfert». Non c'è trasmissione del sapere che possa avvenire senza passare dal transfert. [...] Solo che il maestro è colui che sa dislocare il transfert amoroso mobilitato dall'allievo dalla sua persona all'oggetto del sapere. Egli è amato in quanto ama il sapere [...].

Già da questi termini si intravede poi un'interessante analogia che percorre tutto il volume, ovvero quella tra insegnamento e psicanalisi. Come il maestro, anche l'analista deve dislocare il transfert, deve permettere al soggetto di trovare la propria strada, anche se talvolta l'autore si lascia trascinare dal gergo e dall'influenza di Lacan (p. 68): La pulsione sembra rifiutare l'obbligo della separazione introdotto dalla Legge della castrazione per mantenersi aderente alla Cosa materna e ai suoi surrogati incestuosi, per rimarcare che la scuola separa dalla famiglia, generando sì un trauma, ma per aprire nuovi mondi.

La seconda parte del libro focalizza (non senza qualche ripetizione) questi concetti sulla Scuola, le sue funzioni e motivazioni. Infatti, se l'allievo deve trovare la sua strada, a che serve il maestro, in fin dei conti? Attenzione: non bisogna farsi ingannare dal mito ipermoderno dell'autogenerazione di sé stesso (p. 63), e riconoscere il debito che abbiamo con i nostri maestri, evitando l'uccisione del padre (simbolico), che funziona in psicanalisi ma non nell'insegnamento: il motore del nostro interesse al sapere si origina sempre dal sapere ricevuto da altri. Ed è proprio come forma di resistenza a questo mito (l'Autodidatta de La nausea citato nel libro, ma anche Frank Drummer di Spoon Riveril matto di De André) e all'iperedonismo acefalo che governa la nostra società (p. 68) che si configura la Scuola, che agisce quindi in controtendenza rispetto alle pulsioni che feticizzano "alcool, droga, psicofarmaci [vabbè...], l'immagine del proprio corpo, oggetti estetici e tecnologici" (p. 69). A tutto ciò si oppone un piacere diverso, meno immediato ma più duraturo: lettura, scrittura, la cultura nelle sue diverse forme. Tutto largamente condivisibile, a parte qualche nota retorica e un approccio che evita volutamente di scendere nel concreto, con forse qua e là un tono un po' troppo negativo verso la tecnologia, cui sembra negata qualunque possibilità di integrazione nell'insegnamento, che deve avvenire sempre e solo attraverso la Legge della parola.

Dopo aver toccato la relazione tra insegnamento e vincoli dell'istituzione scolastica, stile del docente ed esperienza (nota a tutti) di "parlare ai muri", così come quella del dono (la trasmissione implica sempre la dimensione del dono; p. 114) e del mistero dell'apprendimento, il libro si chiude con un ricordo personale, dove l'autore ripercorre le sue difficoltà scolastiche e l'incontro salvifico con una professoressa. Ecco, questa è la cifra principale del volumetto: non una disamina di come nascano questi insegnanti "speciali", quasi psicoterapeuti, di come tutto questo si possa/debba inserire in un'ora di lezione, particolarmente nelle assai eterogenee scuole superiori, ma piuttosto un sentito grazie a tutti questi docenti, che faccio mio (grazie Emilio e Armanda in primis) ed estendo per assurdo anche agli "altri", a quelli che stavano in classe con meno voglia di noi studenti, che trasmettevano noia e frustrazione, per avermi spinto a cercare nei libri quello che non potevo/volevo sentire in classe.