domenica 25 febbraio 2024

La guardia bianca

di Michail Bulgakov
Feltrinelli, Milano, 2011 (1a ed. italiana Anonima romana editoriale, 1930)
Traduzione di Serena Prina

Fuggivano banchieri brizzolati con le loro mogli, accorrevano abili uomini d’affari, che si erano lasciati alle spalle, a Mosca, i propri fiduciari, ai quali era stato dato ordine di non perdere i legami con quel nuovo mondo che stava venendo alla luce nel regno moscovita, proprietari di case, che avevano abbandonato le case a fedeli amministratori segreti, industriali, mercanti, avvocati, politici. Fuggivano giornalisti, di Mosca e Pietroburgo, prezzolati, ingordi, vigliacchi. Cocottes. Dame rispettabili di famiglie aristocratiche. Le loro tenere figlie, le pallide donne dissolute di Pietroburgo, con le labbra dipinte di carminio. Fuggivano i segretari dei direttori di dicasteri, giovani pederasti passivi. Fuggivano principi e accaparratori, poeti e strozzini, gendarmi e attrici dei teatri imperiali. Tutta questa massa, insinuandosi nella fessura, si dirigeva verso la Città.
A metà tra romanzo storico e autobiografico, La guardia bianca è il sorprendente romanzo che fece conoscere Bulgakov (l'accento cade sulla "a") al grande pubblico russo nel 1925, appena prima che la censura si abbattesse sui capitoli finali e sulle opere successive dell'autore, relegandolo in un anonimato da cui sarebbe emerso solo a partire dagli anni '50, più di un decennio dopo la morte nel 1940: il suo romanzo oggi famosissimo, Il Maestro e Margherita, fu pubblicato in prima mondiale integrale da Einaudi nel 1967 ed in Russia solo nel 1973!
Per contestualizzare il romanzo conviene intanto ripercorrere molto sommariamente il burrascoso periodo in cui si colloca, la Kiev (uso il toponimo russo del libro) degli anni 1918-19 (dettagli qui): dopo la rivoluzione d'ottobre, le prime rivendicazioni di indipendenza ucraine ed i trattati di Brest-Litovsk, nell'aprile 1918 si crea un governo-fantoccio sostenuto dalle forze tedesche e governato da un etmano. Gli si contrappongono le forze nazionaliste di Symon Petljura e, al momento più remoti, i bolscevichi. Ma con la sconfitta degli Imperi centrali nella Grande Guerra, i tedeschi abbandonano Kiev, che cade nelle mani di Petljura nel dicembre 1918. Il suo dominio fu però di breve durata, e ai primi di febbraio 1919 i bolscevichi di Lenin conquistano Kiev. La storia è raccontata in tre parti: la prima sullo scricchiolio del governo dell'etmano, fino alla sua fuga, la seconda sulla conquista di Petljura, e la terza sulla sua disfatta e la comparsa di una terza forza sull'enorme scacchiera (p. 96).
Bulgakov racconta la storia dal punto di vista dei tre fratelli Turbin (cognome della nonna materna): Aleksej, Nikolka ed Elena. I fratelli maschi sono di fede monarchica e (nonostante qualche "mal di pancia" per via delle tendenze autonomiste) si arruolano come volontari nelle milizie che combattono a fianco dell'etmano, scampando poi alla cattura da parte delle bande di Petljura. Aleksej, il maggiore, è medico, e verrà poi arruolato forzatamente da questo stesso esercito, rivivendo la rotta sotto la spinta bolscevica. Questo quadro già abbastanza complicato è poi raccontato in maniera non perfettamente lineare, aprendosi a dicembre 1918, tornando indietro e muovendosi sempre in maniera sincopata. La trama contiene numerosi riferimenti autobiografici: Bulgakov si laureò in medicina nel 1916 e si arruolò come medico volontario nell'Armata bianca (ma nel Caucaso, non a Kiev), come fecero altri suoi due fratelli; contrasse il tifo come Aleksej; la casa dei Turbin al 13 di Alekseevskij Spusk è la casa di Bulgakov, al 13 di Andreevskij Spusk, e altri ancora.
L'approccio personale/familiare suggerisce il tema (o uno dei temi) del romanzo, ovvero il rapporto dell'uomo con la Storia e l'importanza del proprio codice morale. Così l'ufficiale e marito di Elena che ha trovato le conoscenze giuste (p. 59) e fugge con l'etmano abbandonando la famiglia è contrapposto alla decisione di arruolamento dei fratelli, gli ufficiali che tramano con il nemico a Naj-Turs che si sacrifica per i suoi soldati: l'importante è mantenere fede alle proprie idee e alla propria umanità, anche se nemici. E tuttavia, anche Aleksej non può evitare piccoli compromessi, dichiarando dapprima (p. 121) chiaramente le sue convinzioni (Io [...] purtroppo non sono socialista ma... monarchico. E devo anche dire che non riesco nemmeno a sopportare la parola 'socialista') e dovendo poi nasconderle (p. 390):
"No, compagni, no. Io sono monar...".
No, questo è eccessivo. Meglio così: io sono contro la pena di morte. Sì, sono contro. Karl Marx, lo confesso, non l'ho letto, non arrivo nemmeno a capire che c'entri in tutta questa confusione
[...].
La confusione, suggerita dalla nebbia che incombe sulla narrazione, è un'altra caratteristica della vicenda: nessuno sa cosa succede, le voci e le notizie si rincorrono senza verifica, chi sparasse, e a chi, nessuno lo sapeva (p. 91), l'Imperatore è morto o in Germania, Petljura (che viene nominato un'infinità di volte senza mai apparire) viene dato per certo a Parigi o a Berlino, oppure in Città, a Char'Kov e in Belgio allo stesso tempo (pp. 310-311), prendere una strada o l'altra può fare la differenza tra la salvezza o la morte, per Nikolka e per Aleksej (se così avesse fatto, la sua vita sarebbe andata in modo del tutto differente, ma ecco che così non fece, p. 252). Nella confusione e nella nebbia le identità cambiano (i continui riferimenti alle spalline delle uniformi strappate per camuffarsi da civile), le persone si trasformano, si nascondono e fuggono per sopravvivere. Alla confusione fa da contrasto la casa di famiglia, con gli orologi e la vecchia stufa di maiolica coperta di scritte con insulti (poi cancellati) a Petljura che riscalda - anche metaforicamente - l'ambiente, la casa dove si ritrovano gli ufficiali amici (contrapposti alle bande di Petljura), dove si festeggia e si cantano inni zaristi, il nido rassicurante in cui rifugiarsi e da preservare perché memoria del passato, dove anche un paralume è importante (p. 59):
E poi... poi la stanza fu desolata, come lo è ogni stanza dove regni il caos dei preparativi e, ancora peggio, dove sia stato tolto il paralume a una lampada. Mai. Mai togliere il paralume della lampada! Mai! Il paralume è sacro. Non fate mai come i topi che fuggono davanti al pericolo, verso l'ignoto. Accanto al paralume sonnecchiate, leggete – lasciate che infuri la bufera –, attendete, che siano loro a venirvi a prendere.
Al racconto delle ordalie che i fratelli dovranno sopportare per ritrovarsi nella casa con la stufa, da dove tuttavia dovranno ripartire per altre vicende solo accennate (ad esempio, le relazioni con Julia e Irina), si accompagnano infiniti riferimenti a personaggi storici e coevi, alla lirica, al canto e all'immortalità dell'opera d'arte (p. 64), splendide descrizioni della città di Kiev (p. 87), del comando militare dentro il negozio di madame Anjou (p. 118) e del Ginnasio (p. 129), e un'ininterrotta serie di metafore, dal tempo meteorologico (la nebbia, ma anche la neve che confonde tutto e la tempesta), alla malattia (ovvero il male, come nella visita nel capitolo finale), al cielo e al mondo metafisico (con la comparsa delle stelle rosse). La religione è anche molto presente, ma non è una scorciatoia per i valori morali che ognuno trova dentro di sé, e d'altra parte Dio stesso, vecchierello, triste ed enigmatico [...] che volava nel cielo nero, screpolato, non dava alcuna risposta (p. 38), e appare alquanto disinteressato alla religione stessa (p. 110)
Perché a me della vostra fede non viene in tasca un bel niente. Uno crede, un altro non crede, ma vi comportate tutti allo stesso modo; adesso vi pigliate a vicenda per la gola, e [...] qui bisogna capire che per me, Zilin, voi siete tutti uguali – morti ammazzati sul campo di battaglia. Questo, Zilin, va capito, e non tutti ci riescono. [...] A me, è meglio che non li nomini nemmeno i pope [...] Cioè, di stupidi come i vostri pope al mondo non se ne trovano. In segreto ti dirò, che sono una vergogna e non dei pope.
Tra le tantissime altre cose da menzionare, mi limito alla discesa nel girone dantesco freddo (anche qui il contrasto con la casa) e fetido per recuperare il cadavere di Naj-Turs (cap. 17), e i ripetuti commenti spregiativi di Bulgakov verso la lingua ucraina, lingua maledetta (p. 76) e brutta (p. 370): da buon sostenitore dell'Impero zarista, infatti, Bulgakov non può concepire l'indipendenza della regione, ed oggi non gode di buona fama tra alcuni suoi compatrioti.

Questa edizione contiene sia il finale scritto da Bulgakov nel 1929, sia quello originale del 1925, assai più lungo e complesso, dato per smarrito dopo che la rivista a cui fu inviato per la pubblicazione lo censurò senza restituirlo all'autore, finale riapparso solo negli anni '90; tutto raccontato nella bella ed esaustiva introduzione di Serena Prina. Da leggere assolutamente!

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