martedì 26 maggio 2020

La scena americana

di Henry James
Mondadori, Milano, 2001

Il fiume Hudson, nella quiete del vespro, sembrava proiettarsi all'indietro, con mano amica e un po' goffa, fino alla prima immagine della mia coscienza. Molta acqua era passata sotto i ponti, innumerevoli impressioni s'erano susseguite; eppure lì, nel pulsare dei sensi, un'intera sfilza di piccole cose dimenticate riprese vita, cose intensamente hudsoniane, più che hudsoniane; piccole eco, toni e luci addormentate, piccole scene e suoni e essenze che per un'ora furono capaci di far tornare una persona altrettanto piccola: di farla risalire lungo il resto del fiume - e davvero quello era il fiume della vita - come un pellegrino che vagabonda incantato, su un primitivo battello a vapore, fino a una dolce, medievale Albany.
Vi è mai capitato di tornare dopo lungo tempo in un posto che conoscevate bene e trovarlo radicalmente cambiato? Di capire che ormai quel luogo non vi appartiene più (e viceversa)? Questo è quello che succede ad Henry James: nato a New York nel 1843, inizia la serie dei lunghi viaggi in Europa intorno al 1870 (ma vi era già stato da ragazzo con la famiglia), spostando gradualmente il suo baricentro nel vecchio continente. Si trasferisce a Londra e visita periodicamente Italia e Francia, rientrando fugacemente in USA solo nel 1882, per la morte del padre. Nel 1904-05 vi torna di nuovo, stavolta per dieci mesi, e registra le sue impressioni in questo libro. Ma non pensate di leggere un (corposo) diario di viaggio; non in senso classico: da un lato, il diario è diviso in capitoli e in sezioni che tracciano la geografia degli spostamenti di HJ lungo la costa atlantica; dall'altro, come spiega l'autore nella Prefazione, il suo interesse è per la scena umana e l'atmosfera sociale del "suo" Paese. Dietro le quinte fa capolino l'intenzione più o meno esplicita di confrontarsi finalmente con la propria identità americana, di dire addio definitivamente ad una nazione che ormai non riconosce più come sua.

Il viaggio parte da Hoboken e, dopo una fugace visita a New York, punta a nord. In questo primo capitolo James è particolarmente affascinato dalla Natura, che descrive peraltro in termini pittorici: l'autunno è un pittore imprigionato, bohémien dalla giacca rugginosa (p. 23), le scene sono dei quadri, l'Arcadia del New England è assimilata ai trionfi più tipici della "scuola" paesaggistica americana (p. 25). Natura "femminile" accomunata a quella italiana (non a caso: lì l'elemento pittorico e artistico trasfigura - o dovrei dire trasfigurava - la Natura in modo ben maggiore), meritevole di una convivenza con l'uomo, e non di uno sfruttameno valutabile meramente in biglietti verdi più o meno unti (p. 28). La Natura del New England rappresenta chiaramente la quintessenza della Natura americana per HJ, che ritrova il paragone con l'Italia nelle poche note relative alla California (peccato che della visita di HJ nell'ovest degli USA non sia rimasto un diario). Curiosa la nota sulla (presunta) tendenza degli americani ad affibbiare nomi comuni ad elementi naturali di rara bellezza.

La scena cambia radicalmente nei capitoli successivi, a partire dai quattro dedicati a New York, la città natale che HJ non riconosce più. New York è in crescita tumultuosa, sia dal punto di vista edilizio che demografico, ed entrambe queste cose spaventano James. Al tempo della sua precedente visita a New York, una ventina di anni prima, l'edificio più alto della città era ancora la Trinity Church: ora ve n'è almeno una decina che la sormontano. In questi antenati dei moderni grattacieli (il Flatiron fu terminato nel 1902) HJ vede solo la risposta ad esigenze di mercato, ad onta di ogni criterio estetico: una finestra sopra l'altra, a ogni costo, è una condizione che non s'accorderà mai a nessun tipo di grazia costruttiva (p. 107). Ma non ci sono solo i detestati aspetti commerciali, l'ossessione del guadagno, la volontà di crescere, di crescere a scapito di chicchessia e di qualunque cosa (p. 62); i proto-grattacieli rappresentano per HJ il simbolo del ripudio del passato e della sua idea di bellezza "eterna", sostituito dalla smania di demolire per costruire qualcosa che sarà a sua volta demolito quando le esigenze di un maggior guadagno lo richiederanno (questa produzione continua si applica anche nel campo letterario e sconvolge James). Oltre che a New York, colossale pettine rovesciato all'insù e privo di una buona metà dei suoi denti (p. 153), la distruzione del passato inseguirà James a Boston, e in tutti i luoghi della sua giovinezza.

L'analisi sui grattacieli è solo un aspetto del ripudio della modernità con le tasche piene di soldi (p.170): la smania di acquistare oggetti e la preferenza patologica per gli atteggiamenti gregari (p. 203; oggi diremmo: massificazione) sono altri bersagli di HJ, insieme ad una memorabile pagina sulla religione dell'ascensore e alle descrizioni degli hotel, dal Waldorf Astoria di New York al Royal Poinciana a Palm Beach, indicati come esempi della negazione di ogni privacy, di un mondo di promiscuità e ipocrisia, che culmina nell'inquietante visione di un tutto che è come dominato dalle gigantesche braccia protese di un direttore d'orchestra che, piazzato su in alto, agita la sua bacchetta (p. 118).

Ci sarebbero decine di aspetti da commentare, perché ogni pagina trasuda un'acuta intelligenza della società di allora, dalla democrazia americana (che HJ ammira: ricordiamoci che ai primi del 1900 l'Europa era ancora piena di testoni coronati, e che parecchi resistono incredibilmente ancora oggi...) al ruolo della donna ai rifugi nelle librerie, biblioteche e università. Ma vorrei limitarmi ad un paio di punti. Il primo riguarda gli immigrati: al rientro a New York, HJ vi trova una popolazione che è quattro-cinque volte quella della sua partenza. La visita ad Ellis Island provoca sgomento di fronte alle condizioni degli immigrati che sostano imploranti e in attesa, schierati, inquadrati, divisi, suddivisi, selezionati, setacciati, perquisiti, affumicati per periodi più o meno lunghi (p. 95), ma presto la riflessione di James si sposta su un altro piano: quale sarà l'effetto di questa ondata migratoria sugli USA e sulle capacità di assimilazione del paese? Quale significato [...] si può continuare a dare a un'espressione come il carattere "americano"? (p. 134). Nel concreto, pur non mancando la curiosità, James resta lontanissimo da questi immigrati, di cui deplora l'imbarbarimento dei costumi e l'impossibilità di stabilire una connessione, quasi che gli immigrati italiani cui spesso si riferisce fossero in USA come lui, a visitare il paese dando conferenze ben pagate, e potessero comportarsi in accordo all'immagine costruita nei suoi lunghi soggiorni di ricco americano in Italia. Anche gli immigrati ebrei raccolgono curiosità, ma non molte simpatie; anzi: James lamenta la conquista ebrea di New York notando che la minaccia è sempre quella della quantità (p. 146).

L'ultimo commento è relativo agli stati del sud. Nel suo viaggio verso la Forida, verso la latente poesia del Sud (p. 393), HJ si ritrova nel cuore degli stati Confederati, ed il fantasma della guerra civile (terminata nel 1865) macchia qualunque prospettiva: stavo gustando l'amarezza stessa della visione, immensa, grottesca e sconfitta: la visione bizzarra, fantastica e oggi patetica, nella sua follia, di un enorme Stato schiavista (p. 397). I musei e la mitizzazione della Confederazione gli appaiono patetici perché se è questione di una leggenda da dissotterrare dal deposito della storia, allora il deposito dev'essere profondo abbastanza da rivestirla di una patina e da lasciarla sedimentare (p. 409), mentre il giovane "fanatico" sudista incontrato al museo è liquidato con un giudizio che non lascia scampo: la sua coscienza, in assenza di quella sua fantastica passione platonica, sarebbe stata  misera e spoglia. Con quale altro disegno, escluse le posizioni personali, avrebbe mai potuto decorare le sue mura disadorne? (p. 415; questi ultimi due giudizi si attagliano perfettamente ai nostalgici di un certo passato del nostro Paese). E tuttavia, anche qui, i toni dichiaratamente contrari alla schiavitù non si accompagnano a molta comprensione per gli afroamericani, più o meno relegati al ruolo di servitori neanche troppo bravi (l'inveterata inettitudine della razza nera in genere ad un servizio del pubblico di benché minima efficienza; p. 401).

Infine, una nota sulla prosa, sempre ricercata e che richiede costante attenzione per non perdere il filo dei pensieri di James, che preferisce evitare di andare "dritto al punto" per indugiare, suggerire, lasciar intuire il significato. Da segnalare anche l'ottima introduzione al volume di Ugo Rubeo, corredata da una cronologia della vita e opere di HJ e da una ricchissima bibliografia.

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