sabato 13 dicembre 2014

La Grande Guerra - operai e contadini lombardi nel primo conflitto mondiale

a cura di Sandro Fontana e Maurizio Pieretti
Silvana editoriale, Milano, 1980 (collana Mondo popolare in Lombardia n.9)

E la più vera e vergognosa ipocrisia e il farsi credere cultori d'arte veder versare torrenti d'indignazione per una pittura fiamminga, per un Cristo spirante su una tela [...] e non sentire dolore per quelli che muoiono la davanti alle trincee squartati e sventrati dalle bombe nemiche, non sentire dolore per quelli che muoiono di freddo e di miseria [...].
Bruccino le vergine dipinte, al diavolo le sedi governali, i Papiri del san'scritto, sono le vite umane che bisogna salvare, solo le lagrime umane che bisogna asciugare, sono le vite e i corpi umani che bisogna aiutare.
La quarta pagina di copertina recita: "La collana (ndr: mondo popolare in Lombardia) rappresenta il più organico tentativo in atto oggi in Italia per raggiungere una rappresentazione critica e di prima mano della realtà culturale popolare di un territorio regionale". È assai probabilmente vero, e l'iniziativa, ben prima che dubbi figuri si autoproclamassero difensori del localismo sproloquiando in dialetto, fu certamente meritoria. Naturalmente parecchi dei volumi (la lista completa si può trovare qui) sono di poco interesse al di fuori degli appassionati di tradizioni locali, ma questo fa eccezione, si rivolge ad un pubblico ben più vasto di quello lombardo (anche se purtroppo non credo che abbia avuto la diffusione che meritava) e affronta un tema tuttora assai dibattuto e lontano dall'essere concluso: l'atteggiamento dei soldati di fronte alla guerra.
La questione è nota: la maggior parte dei diari di guerra appartengono a ufficiali e sottufficiali, la cui conoscenza si può dire soddisfacente, ma cosa sappiamo dei soldati? Perché combattevano? Quali erano le loro motivazioni? Quanto diffuso il dissenso? Per contribuire al dibattito, nel volume si riportano numerose testimonianze scritte e orali, raccolte negli Archivi di Stato e direttamente dai reduci una sessantina di anni dopo il conflitto. Dal primo gruppo di lettere (AdS Brescia) emerge un panorama che mi pare confermi alcune linee-guida già individuate: i soldati (perlopiù contadini) nelle loro lettere a casa si preoccupano del quotidiano, si informano del raccolto, del bestiame, danno indicazioni su come sbrigare alcune faccende. Parlano sì della vita di trincea, ma senza troppi particolari (forse anche per non allarmare i loro cari) e senza dilungarsi a spiegare le loro motivazioni.
Molto più interessante il secondo gruppo (Archivio centrale di Stato) che inizia con una notevole lettera di un militante socialista: i soldati che maledicono i superiori, i "volontari" per missioni che specialmente chi va non tornano più comandati dietro minaccia di morte: certo si rischia la pelle, altrimenti la pelle me la fanno i nostri superiori e quel Trieste lo prederemo col binocolo che sarà anche stato "disfattismo", ma a cui non fa difetto il realismo. Intuita l'aria che tira, saggiamente il soldato non firma la lettera e le richieste di identificazione del Comando restano... lettera morta (scusate il gioco di parole).
Ma non c'è solo questa lettera: nel gruppo ce ne sono diverse scritte da prigionieri e da - veri o sospetti - disertori, molto interessanti perché non frequenti. Alcuni sono anarchici riparati in Svizzera, altri riparati o prigionieri con "dubbi sulla cattura". I primi parlano di politica (oltre alle faccende personali, naturalmente), alcuni dei secondi rivendicano la propria diserzione e denunciano i trattamenti inumani dell'esercito: un bel contraltare rispetto alle lettere di ufficiali e sottufficiali che mostrano - ma non è una novità - una convinzione ben maggiore che assume a volte una connotazione un po' macchiettistica (come nel personaggio che prima si fa scrupoli sul dovere e poi se ne va beatamente a caccia perché ferito ad una mano).
E veniamo alle fonti orali, da prendere naturalmente con le pinze per quanto riguarda gli aspetti ideali, in quanto rese decenni dopo i fatti. Ricordi comuni sono lo spregio della vita umana da parte dei Comandi italiani, le fucilazioni di guerra, il forte spirito di corpo (che in parte è affratellamento di poveracci sotto lo stesso tragico destino, in parte irregimentamento nella struttura dell'esercito), la convinzione che il disastro di Caporetto sia stato sì un tradimento, ma dei generali Cadorna e Capello che avrebbero venduto il loro Paese, e l'orrore per la carneficina, non disgiunto da una certa pietas per il nemico (a fianco comunque di affermazioni anche contrarie ben più recise). Curioso poi l'aggettivo ricorrente "terrematte" per i soldati meridionali. Molto interessanti e vividi i ricordi diretti degli eventi, dall'Isonzo al Trentino e - per quanto riguarda i miei interessi personali - l'Adamello, dove diversi degli intervistati prestarono servizio.
Le testimonianze sono introdotte da tre saggi. L'ultimo si occupa del linguaggio usato dai soldati, mentre i primi due affrontano la questione sui soldati prima delineata. Il primo (di Fontana) ha un imprinting democristiano (l'editore è la regione Lombardia di quegli anni...) e, volendo svincolarsi sia dalla visione (semplifico...) liberale che socialista finisce coll'insistere sul ruolo del cattolicesimo nell'orientamento della coscienza contadina; un po' poco. Il secondo (di Pieretti) è di più ampio respiro, anche se talvolta pare uscire dai confini della questione, e orientato da una prospettiva di classe.
Un vero peccato che la saggistica successiva non si sia praticamente accorta di questo volume!

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