di Francesco Formigari
Ist. naz. fascista di cultura, Roma, 1935
Il volume è interessante per diversi motivi, in primis perché fornisce un utile riferimento a chi voglia accostarsi a questo "genere" di letteratura (anche se ovviamente esiste materiale ben più recente). Altro punto di interesse sono alcuni giudizi formulati dall'autore: Formigari prende le distanze fin dall'inizio dal vate D'Annunzio (Ma intanto, quel dannunzianesimo, che tanta parte aveva avuto nell'educazione letteraria delle generazioni del '15, tramontava freddo e purpureo sulle luride trincee stipate di poveri uomini in guerra, p. 17), che peraltro è relegato da tempo al Vittoriale, a cui preferisce decisamente Stuparich (p. 23). Riserve sono anche espresse sugli scritti di Borsi, cattolico osservante che gode di vederli [gli austriaci] colpiti in pieno dalle nostre granate (p. 31), sulla retorica di Locchi e su quella che accomuna molti scritti di guerra. Le preferenze dell'autore vanno a Monelli, Frescura, Jahier, per citare i più noti, ma tutte (o quasi) le opere sono trattate con intelligenza.
A compensazione di quanto detto, non mancano i limiti, a partire dall'impostazione: i migliori libri, per Formigari, sono quelli dal contenuto politico e morale (p. 5), che dipingono una guerra dove il popolo italiano si riscopre tale, dove le classi e le ideologie si dissolvono, la santità della guerra, nella quale gli ignoranti vedono barbarie (p. 26, ma lo scritto è di Salvioni) che conduce ad una nuova coscienza nazionale (e si è visto poi com'è finita!). Da qui il suo fastidio per, ad esempio, i libri di Comisso, di Viani, o per Rubè. Se è indubbio che una simile posizione si possa ritrovare in tanti scrittori dell'epoca, sentirsela ripetere ad ogni piè sospinto diviene alla lunga stucchevole, anche perché Formigari ne fa uso strumentale, compiacendosi dei socialisti "conquistati" dalla guerra (vi ricorda qualcuno?), criticando qua e là (peraltro ingenuamente) scrittori e poeti "non allineati", ed esaltando in continuazione questo immane sforzo collettivo che a dir suo trova il compimento nell'azione politica del partito che occupò il potere nel '22 (p. 51). E così, tacciando di retorica sia l'esaltazione dell'eroe a tutti i costi sia chi parla della "puzza di cadaveri" e dell'"inumano macello" (p. 26; non si capisce in che altri termini si possano definire i 650000 morti italiani) non si avvede che scivola nella retorica lui stesso. Chi di retorica ferisce...
Ecco, l'intento smaccatamente politico del libro, i passi imbarazzanti come la gerarchia che rende liberi e non servi (p. 24; si noti la parola gerarchia, non disciplina o altro...) o gli svarioni come l'onorata morte al fronte (p. 33) di Umberto Boccioni, che in realtà cadde da cavallo durante un'esercitazione, testimoniano che forse questo libro va visto non come un'antologia della letteratura di guerra, ma bensì come una rivisitazione del regime fascista della letteratura di guerra. Non è differenza da poco. Ma è una rivisitazione che merita lettura ed attenzione.
Ist. naz. fascista di cultura, Roma, 1935
Fu proprio questa letteratura ad esercitare un'alta influenza educativa su molti giovani che nel 1915 imposero la guerra e poi la combatterono; educazione letteraria, in reazione alla democrazia e alla demagogia, aristocratica e dannunziana, mossa dall'aspirazione all'avventura eroica che si fondeva con le considerazioni più propriamente politiche ed irredentiste. Inoltre, partire per andare a far la guerra all'Austria ricongiungeva i giovani alla storia del Risorgimento, li pacificava con essa.Questo libro costituisce uno dei primi tentativi (se non il primo) di trarre un bilancio della letteratura relativa alla prima guerra mondiale, a vent'anni dal suo inizio per l'Italia. Diviso in tre parti, raccoglie i principali lavori in ordine più o meno cronologico, senza trascurare le corrispondenze dei giornalisti al fronte (ridicolizzandone gli enfatici reportage traboccanti di ottimismo), l'umorismo di guerra e le poesie.
Il volume è interessante per diversi motivi, in primis perché fornisce un utile riferimento a chi voglia accostarsi a questo "genere" di letteratura (anche se ovviamente esiste materiale ben più recente). Altro punto di interesse sono alcuni giudizi formulati dall'autore: Formigari prende le distanze fin dall'inizio dal vate D'Annunzio (Ma intanto, quel dannunzianesimo, che tanta parte aveva avuto nell'educazione letteraria delle generazioni del '15, tramontava freddo e purpureo sulle luride trincee stipate di poveri uomini in guerra, p. 17), che peraltro è relegato da tempo al Vittoriale, a cui preferisce decisamente Stuparich (p. 23). Riserve sono anche espresse sugli scritti di Borsi, cattolico osservante che gode di vederli [gli austriaci] colpiti in pieno dalle nostre granate (p. 31), sulla retorica di Locchi e su quella che accomuna molti scritti di guerra. Le preferenze dell'autore vanno a Monelli, Frescura, Jahier, per citare i più noti, ma tutte (o quasi) le opere sono trattate con intelligenza.
A compensazione di quanto detto, non mancano i limiti, a partire dall'impostazione: i migliori libri, per Formigari, sono quelli dal contenuto politico e morale (p. 5), che dipingono una guerra dove il popolo italiano si riscopre tale, dove le classi e le ideologie si dissolvono, la santità della guerra, nella quale gli ignoranti vedono barbarie (p. 26, ma lo scritto è di Salvioni) che conduce ad una nuova coscienza nazionale (e si è visto poi com'è finita!). Da qui il suo fastidio per, ad esempio, i libri di Comisso, di Viani, o per Rubè. Se è indubbio che una simile posizione si possa ritrovare in tanti scrittori dell'epoca, sentirsela ripetere ad ogni piè sospinto diviene alla lunga stucchevole, anche perché Formigari ne fa uso strumentale, compiacendosi dei socialisti "conquistati" dalla guerra (vi ricorda qualcuno?), criticando qua e là (peraltro ingenuamente) scrittori e poeti "non allineati", ed esaltando in continuazione questo immane sforzo collettivo che a dir suo trova il compimento nell'azione politica del partito che occupò il potere nel '22 (p. 51). E così, tacciando di retorica sia l'esaltazione dell'eroe a tutti i costi sia chi parla della "puzza di cadaveri" e dell'"inumano macello" (p. 26; non si capisce in che altri termini si possano definire i 650000 morti italiani) non si avvede che scivola nella retorica lui stesso. Chi di retorica ferisce...
Ecco, l'intento smaccatamente politico del libro, i passi imbarazzanti come la gerarchia che rende liberi e non servi (p. 24; si noti la parola gerarchia, non disciplina o altro...) o gli svarioni come l'onorata morte al fronte (p. 33) di Umberto Boccioni, che in realtà cadde da cavallo durante un'esercitazione, testimoniano che forse questo libro va visto non come un'antologia della letteratura di guerra, ma bensì come una rivisitazione del regime fascista della letteratura di guerra. Non è differenza da poco. Ma è una rivisitazione che merita lettura ed attenzione.
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