di Leonida Andreieff
Mongini, Roma, 1905
La prima metà del libro racconta, attraverso frammenti del diario di un ufficiale, la pazzia che pervade gli uomini che vivono perennemente sotto la minaccia della fine, l'orrore, la morte, il sangue. Ma che la guerra, pur giocando un ruolo dominante, sia la metafora di una disgregazione più grande che investe tutta l'umanità (si pensi al periodo di irrequietezza che sfocerà nella rivoluzione fallita del 1905) si capisce nella seconda metà del libro, ambientata nella città lontana dalla zona di guerra, dove la follia si fa largo attraverso l'incapacità o l'impossibilità di comprendere quel che sta accadendo, in un crescendo drammatico fino all'allucinante visione finale.
Questo riso rosso, con le sue evidenti influenze della nascente psicanalisi e l'atmosfera fin de siècle, mi pare un'introduzione interessante alle opere di Andreev, ingiustamente sconosciuto in Italia insieme a buona parte degli scrittori russi della sua generazione.
Mongini, Roma, 1905
Un vento caldo mi soffiò sulla guancia destra, barcollai furiosamente e fu tutto, ma davanti ai miei occhi, al posto del pallido viso, c'era qualcosa di piccolo, arrotondato, rosso, e da lì scorreva del sangue, come da una bottiglia stappata, come è disegnato sulle banali insegne. E in questo punto minuscolo, rosso, zampillante persisteva ancora un sorriso, una timida risata - il riso rosso.Si dice che il motto delle ciliegie sia: "una tira l'altra". Io lo proporrei invece per i libri: non c'è niente di meglio di un libro per trovare suggerimenti per infinite altre letture. Avevo letto del riso rosso (e di molti altri) nel bel saggio di Gibelli L'officina della guerra, dove si discuteva - tra l'altro - del fenomeno delle pazzie di guerra durante la prima guerra mondiale. Il racconto di Andreev ne è, da un certo punto di vista, una descrizione ante litteram, nel contesto della guerra russo-giapponese del 1904-05. La perizia di Andreev ha dell'incredibile: pur non essendo mai stato in guerra né essendosi mai avvicinato al fronte, riesce a descriverne gli orrori con un realismo che avvince, che genera talvolta un vero e proprio (e sacrosanto!) disgusto, amplificato dalla ripetizione e dall'ossessività, diventando un pamphlet antimilitarista, dalla follia di guerra alla follia della guerra.
La prima metà del libro racconta, attraverso frammenti del diario di un ufficiale, la pazzia che pervade gli uomini che vivono perennemente sotto la minaccia della fine, l'orrore, la morte, il sangue. Ma che la guerra, pur giocando un ruolo dominante, sia la metafora di una disgregazione più grande che investe tutta l'umanità (si pensi al periodo di irrequietezza che sfocerà nella rivoluzione fallita del 1905) si capisce nella seconda metà del libro, ambientata nella città lontana dalla zona di guerra, dove la follia si fa largo attraverso l'incapacità o l'impossibilità di comprendere quel che sta accadendo, in un crescendo drammatico fino all'allucinante visione finale.
Questo riso rosso, con le sue evidenti influenze della nascente psicanalisi e l'atmosfera fin de siècle, mi pare un'introduzione interessante alle opere di Andreev, ingiustamente sconosciuto in Italia insieme a buona parte degli scrittori russi della sua generazione.
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