Sellerio, Palermo, 2024 (1a ed. in lingua italiana Casagrande, Bellinzona (Svizzera), 1988)
Traduzione di Umberto Gandini
Fu preso dalla nostalgia di lei, una nostalgia che crebbe rapidamente a dismisura. Provò l'urgenza di chiamare a gran voce il suo nome... attraverso le rocce e oltre le pianure, fino a centinaia di chilometri di distanza... poi però quell'intenzione gli apparve davvero troppo ridicola. L'amore per lei era più grande di quello per la montagna? Era un amore di specie diversa. La montagna era lì, era sua. O meglio, era lei a possedere lui; lo avvolgeva tutt'attorno, scintillante alla luce violentissima del sole e irrigidita nelle oscurità.
Anche in questo caso, devo iniziare queste righe con il canonico ammonimento a non proseguire se non volete rovinarvi la sorpresa del finale, intuibile solo a metà. Se avete sotto gli occhi l'edizione Sellerio potete invece candidamente leggere l'introduzione, che si impegna - forse fin troppo - a non "bruciarvi la scoperta".
I libri di alpinismo, scritti da alpinisti per alpinisti, sono di una noia mortale, salvo rarissime eccezioni (ricordo che da ragazzino rimasi quasi commosso dal capitolo sul Pilone Centrale del Freney di Bonatti). Qui, però, parliamo di una cosa un po' diversa. Hohl fu alpinista (ma su questo torneremo alla fine), e scrisse la prima versione di questa novella nel 1926, a ventidue anni, durante la sua attività. Ci lavorò sopra per mezzo secolo, pubblicandola infine nel 1975. Ѐ lecito quindi supporre che al piano alpinistico si sia via via sovrapposto qualcosa d'altro, risultando in un ibrido che conviene guardare da più punti di vista.
Come récit d'ascension, il racconto è poco interessante: vi si narra del maldestro tentativo di salita di Ull e Johann ad una cima delle Alpi svizzere. Dopo un inizio idilliaco, tutto peggiora: il versante è coperto di neve e ghiaccio, il maltempo imperversa, e i due si riparano in un rifugio semisommerso dalla neve. Qui Johann decide di ritirarsi, e Ull prosegue da solo, per ritrovarsi poi a dover rinunciare anch'egli alla vetta e discendere dalla pericolosa parete S. Descrizioni quasi geologiche della formazione dei seracchi al Capitolo 8 e qualche appunto di tecnica alpinistica di inizio secolo (scorso!) completano il panorama.
Ma dai tempi di Petrarca (per non citare la Bibbia, Dante e le tradizioni extraeuropee), le salite in montagna sono state anche viaggi interiori, metafore di ascesi spirituale, di purificazione, con la montagna a rappresentare gli ostacoli da superare e la discesa vista come ritorno nel mondo. E poi c'è il Romanticismo e la teoria del sublime, quel misto di piacere e terrore di fronte alla potenza della Natura. Insomma: una montagna affollata dal punto di vista simbolico ben prima di esserlo dalle orde turistiche!
Seguire questa traccia non è affatto difficile. Già all'inizio della salita (pp. 27-28), del monte si notano gli aspetti repulsivi:
Se ne coglie solo la ripidezza, il distaccato, incontrastato trionfo. La parte superiore del versante, fatta di vedrette e di roccia grigia, liscia e appena lucente, assomiglia a uno scudo, a una corazza, a un fine lavoro d'incisione su acciaio o argento. E l'intera, estesa immagine di quella nitida struttura sullo sfondo del cielo chiaro avrebbe forse anche potuto suscitare l'impressione di una nave molto grande che si inoltri non tanto in un mare terrestre, quanto nell'eternità.
Innumerevoli sono i richiami alla presenza incombente della Natura, sì che a citarli tutti si finirebbe per riportare quasi per intero il racconto. Ad esempio durante la notte (p. 38)
di tanto in tanto si coglieva un profondo sospiro lontano, come dal mare, prolungato, come un grande mantice che si muovesse lentamente, respiri come d'uno che sospirasse nel sonno... non però d'un dormiente della pochezza d'un animale o un uomo: quel dormiente era forse la montagna stessa.
Così la vallata che aveva definitivamente assunto [...] i connotati dell'infinito (p. 45), e ancora, tra le nebbie (p. 51)
I giganteschi corpi rocciosi della montagna [...] fusi con l'infinito, il mondo, tutto un calderone fumante che suscitava orrore, disumano.
Terribile, ma anche gioiello d'impareggiabile ricchezza (p. 53). Di fronte al duplice aspetto del sublime, i due reagiscono in maniera opposta. Johann ne è soggiogato, incapace di reagire e anche di esprimersi, mentre Ull affronta la Natura, non tanto in maniera razionale, ma istintiva, con la sua abilità e forza di volontà, come appare nel sogno dell'orso nel Capitolo 4. Così, quando Johann decide di rinunciare, Ull continua da solo, rabbioso verso il suo compagno, supera il ghiacciaio e arriva su una cresta. Qui però si rende conto di non poter rientrare da dove è venuto, abbandona la velleità di conquista della vetta e tenta la discesa lungo l'inesplorata parete S, nella Natura primigenia (pp. 82-83):
Guardando a sud, non una traccia d'uomo! Roccia, neve, ghiaccio. Creste nere, come una successione di quinte, cime svettanti verso il cielo, a destra e a manca e ovunque, grigi pendii di detriti più in basso [...]. Un paesaggio primordiale. Se qualcuno fosse stato lì dopo l'ultima glaciazione, quindicimila anni prima, gli si sarebbe offerto lo stesso panorama.
Dopo una rocambolesca discesa lungo il primo tratto, Ull riesce a bivaccare, tra sinistri presagi:
Non un suono, da quando le frane erano cessate; non un gorgoglio d'acqua; non s'udiva più nemmeno il solito fragore della notte in montagna. D'un tratto uno strepito assordante, come il crollo d'una torre... e poi di nuovo silenzio di morte.
La mattina seguente, nel tentativo di scendere lungo una vedretta ghiacciata, Ull scivolerà in un crepaccio. C'è però un ultimo capitolo, dedicato al rientro di Johann: giunto sui verdi prati che tanto hanno fatto da contrasto con il monte, attraversa un torrente, scivola e trova anch'egli la morte!
Se il destino di Ull è scritto fin dall'inizio, dalla lotta impossibile contro l'infinito, l'eterno, l'immensità (termini che si ripetono... all'infinito!), quello di Johann sembra sorprendente, quasi come la chiosa dell'autore alla fine del libro (pp. 122-123): la rapidità della fine di Johann fa da
contrasto con lo svolgimento della sua vita, in cui quasi tutto era avvenuto con malinconica lentezza. E la fine di Ull, che si protrasse per circa ventiquattr'ore [...] non fu forse altrettanto in contrasto col suo temperamento, col suo usuale comportamento? Nel momento della morte i due avevano, per così dire, scambiato i loro ruoli; e s'impone la domanda forse insensata: perché, almeno in piccolo, non era avvenuto lo stesso nella vita?
La morte agisce quindi da contrappasso dantesco (come la descrizione del Cap. 8 sembra quella di una bolgia infernale), ma senza che vi si debba vedere una volontà superiore: la Natura è leopardianamente indifferente alle vicende umane! D'altronde, forse esagerando, possiamo vedere il viaggio come metafora della vita, e la conclusione non può che essere una, sia che si lotti fino all'ultimo (Antonius Block con la morte ci giocherà a scacchi per guadagnare tempo) o che essa ci si pari davanti all'improvviso. E forse non è un caso che la fine sopraggiunga per entrambi durante la discesa, dopo che ognuno ha raggiunto l'apice del proprio viaggio, che non coincide mai con le speranze della partenza. Oppure, visto che la fine di Johann è dovuta a presunzione, anzi temerarietà (p. 120) nell'attraversare il torrente, incurante del consiglio del contadino, e che gli stessi sentimenti conducono UIl verso la scalata solitaria, potremmo vedere le due storie come due sfide alla Natura destinate al fallimento. E la domanda finale vuole forse suggerire che se i ruoli si fossero scambiati la scalata avrebbe avuto successo?
Un altro tema che fa capolino è il capovolgimento dell'immagine classica della montagna come rifugio, come luogo di fuga dalla vita quotidiana (di cui parla anche Motti nella sua Storia dell'alpinismo). Durante quella che sarà la sua ultima notte, Ull, in una mescolanza di veglia e sonno (p. 113)
trovò d'un tratto la risposta definitiva alla domanda posta tanto spesso: «Ma voi, perché salite sui monti?» [...]
La risposta era: per sfuggire alla prigione.
E ora?
Ora la montagna stessa si è trasformata in una prigione! Per Hoh alpinista, la risposta era certamente valida, ma qui si vuole - secondo me - rimarcare ancora una volta l'inutilità di una mentalità di conquista, che diventa essa stessa prigione.
Possiamo infine commentare il carattere dei due alpinisti, stando attenti a non prendercela con Johann: chiunque abbia scalato una parete impegnativa conosce benissimo sia la sensazione di disagio interiore che prende alla vista della montagna, sia la tentazione di tornare indietro, e tutti l'abbiamo fatto almeno una volta, accampando le scuse più improbabili. Volendo, è molto più egoista Ull, che si trascina dietro l'altro solo per avere un compagno che lo possa assicurare nei tratti difficili (p. 73), esempio classico di quell'egoismo di cordata raccontato da Motti. Anche il fatto di essersi dovuto "accontentare" di Johann anziché salire con la propria compagna lo rende stupidamente feroce verso di lui quando vuole rinunciare. Singolare poi che Ull, provetto alpinista, sbagli tutto quello che può: prosegue da solo in un'impresa impossibile, continua lungo la parete S invece di fermarsi sulla cresta e ridiscendere il giorno dopo, perde la piccozza. Ma ancora una volta, tutti abbiamo fatto errori in montagna. Tutti siamo stati Ull, ma anche Johann.
Finisco con una nota biografica. Qui si cita uno scritto di Hohl in Meine Bergtouren, Vol. II (1922-1928) dove si racconta di un bivacco di emergenza del luglio 1925, insieme alla sua compagna Gertrud (Trudi) Luder, al rientro dal Col de la Pilatte Occidentale, un passo sopra il Glacier de la Pilatte, nel Massicio degli Écrins, nel Delfinato. Durante la discesa, Hohl perde la piccozza e si caccia nei guai in una calata in corda doppia, da cui si salva grazie ad un preciso consiglio di Trudi, fatto che sarà poi trasposto nel Capitolo 12. D'altra parte, qui invece si narra di un racconto relativo ad una caduta in un crepaccio durante una salita a Les Rouies, da cui sarebbe stato ancora salvato da Trudi. Viene da chiedersi chi dei due fosse l'alpinista esperto! Trudi morirà poi nel 1946 durante una facile salita al Frontalstock o al Nüenchamm, a seconda delle fonti.
Non sono riuscito a reperire alcuna informazione sulla carriera alpinistica di Hohl. Nei periodici italiani non c'è traccia, e passi, ma nemmeno le poche ricerche negli annuari del CAS hanno restituito alcunché. C'è da dire che almeno nel processo di digitalizzazione degli archivi del Cub Alpino, l'Italia è avanti anni luce!

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