lunedì 5 aprile 2021

Novelle asiatiche

di Arthur de Gobineau
Guida, Napoli, 1984
Traduzione di Paola Sodo ed Enrico Zummo

L'onore! È voler essere creduti quando si mente; voler passare per onesto quando non si è che un briccone; voler essere considerati leali quando si bara al gioco. [...] Ecco cos'è l'onore; e se davvero ne hai, figlio di mia zia, puoi considerarti un perfetto Europeo, cattivo, perfido, ladro, assassino, senza morale né religione, senza Dio, un porco ebbro di tutte le sbornie immaginabili e immischiato in tutti i letamai del vizio!
Probabilmente Gobineau è sconosciuto ai più, e quei pochi che lo hanno sentito nominare mi chiederebbero: "Ma che c***o stai leggendo?", guardandomi di traverso. Il personaggio infatti è noto (si fa per dire) per il suo Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane (1855), dove si immagina l'esistenza di una razza primigenia (quella "ariana" ovvero bianca, originaria dell'India - il termine viene dal sanscrito) che si sarebbe poi "contaminata" e degradata nei secoli attraverso il meticciato con le altre razze inferiori (sopravvivendo però nell'aristocrazia europea, di cui Gobineau faceva guarda caso parte; alla faccia delle tare ereditarie che affliggevano proprio nobiltà e aristocrazia). Pare che la teoria, rivisitata, abbia avuto un certo seguito in Germania...
Per fortuna, assai poco delle sonore cretinate di cui sopra si ritrova in questi racconti, scritti nel 1876 e quindi successivi al Saggio, che sono piuttosto figli della passione di Gobineau per l'oriente e dei lunghi anni lì trascorsi come diplomatico. Detta passione era una moda del tempo: l'Ottocento, con le sue imprese coloniali, lo sviluppo dell'esplorazione geografica ed i numerosi resoconti di viaggi aveva aperto all'Europa le porte dell'est, scorgendovi un mondo complesso che fu più o meno idealizzato nei soliti stereotipi di sensualità e piacere, spiritualismo e fanatismo. In particolare, Gobineau è attratto dalla Persia (sempre per via delle sue strambe teorie), di cui si spaccerà per un po' di tempo come profondo conoscitore (ma gli orientalisti considereranno paccottiglia le sue opere "scientifiche" sull'oriente). I sei racconti del libro sono infatti tutti ambientati in quella che si chiama la Grande Persia, ovvero in Iran, Afghanistan, Caucaso.
Più che un ordine di apparizione, conviene adottare un ordine di preferenza. Il più divertente è di gran lunga il quarto, La guerra dei Turcomanni. Dietro le paradossali vicende di Ghulam Hussein, arruolato nell'esercito iraniano e spedito in un'improbabile guerra contro i Turcomanni, c'è la descrizione di un intero paese di simpatici cialtroni in cui si imbroglia il prossimo ed in ogni ruolo ci si preoccupa solo di derubare lo stipendio dei sottoposti:
in fondo, visto che i visir campano sui generali, debbo dire che mi sembra naturale che costoro mangino sui colonnelli che, a loro volta, campano di maggiori, e questi di capitani e i capitani dei loro luogotenenti e dei soldati. Tocca a questi ultimi ingegnarsi per trovare altrove di che vivere (p. 173).
L'esercito e la vita militare sono ridicolizzati come non potrebbe fare nemmeno il più accanito antimilitarista: posti di guardia vuoti, soldati a fare altri mestieri per campare, eserciti lasciati senza provviste e armi perché vendute dai generali, che ovviamente se ne stanno ben lontani dalla battaglia. La giustizia è regolata dai regali verso i superiori ed i pochi che saprebbero comandare le truppe e vincere la guerra (perché educati in Europa; qua e là le teorie del nostro fanno capolino...) sono tenuti in disparte. Alla fine Ghulam farà fortuna: eccomi capitano, intento a spolpare i soldati come già avevano fatto con me (p. 204). Potrebbe benissimo essere ambientato in Italia...

La danzatrice di Shamakha, il primo della raccolta, è l'altro racconto più interessante: il viaggio di due ufficiali dell'esercito russo per raggiungere il proprio reggimento si intreccia con le vicende di Omm Gehàn, una danzatrice della tribù Lesghi che rivendica orgogliosamente la propria identità e vive per vendicarsi dei russi, che ne hanno sterminata la famiglia. L'apice del racconto è il colloquio tra l'ufficiale Assanoff e Omm, dove un'antica canzone riporta il "civilizzato" Assanoff alle sue antiche origini tribali:
Le parole pronunciate da Omm Gehàn, l'intrecciarsi delle rime, lo afferravano come artigli e lo trascinavano tra i burroni delle montagne, nei sentieri dove, dal folto di un cespuglio, aveva tante volte spiato le marce delle colonne russe [...]. L'animo del barbaro mal convertito era invaso da una sublime malìa. Le sue abitudini erano europee, i suoi vizi si esprimevano in russo e in francese; ma la sua autentica natura, i suoi istinti, le sue qualità, le attitudini e le virtù che possedeva, tutto ciò era ancora tataro, come la parte più pura del suo sangue. (p. 59)
Assanoff si trova così di fronte al dilemma se fuggire con Omm per continuare la lotta contro i russi o abiurare definitivamente le proprie origini e restare un ufficiale dell'esercito. L'unica nota che mi sentirei di fare al racconto è sul finale, che pare incollato lì senza troppo criterio.

Meno interessanti gli altri: Storia di Gamber Alì propone un affresco sociale simile a quello della Guerra, ma senza l'ironia e la leggerezza di quest'ultimo, Un mago illustre ripercorre l'ansia di conoscenza e fa pensare immediatamente a Vathek, Gli amanti di Kandahar sono una sorta di Giulietta e Romeo in salsa orientale. Qualche parola in più merita il corto Vita di viaggio, dove Gobineau ripercorre la sua prima missione in Asia, il fascino dei viaggi nelle lunghissime carovane e di quell'Oriente che ho attraversato troppo rapidamente e che risveglia tra i miei ricordi le sensazioni più felici, le più luminose, le più indimenticabili che abbia mai provato. (p. 295)

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