giovedì 15 aprile 2021

Franciacorta Satèn DOCG 2020 Mirabella

Per questa seconda Pasqua trascorsa in condizioni di reclusione ho deciso comunque di aprire una bottiglia per un brindisi di speranza nei prossimi mesi, deviando per una volta dai "soliti" rossi che restano i miei prediletti. Mi sono orientato alla Franciacorta, la zona che si estende a sud del lago d'Iseo e si allarga praticamente fino alle porte di Brescia; una provincia dove gli ultimi mesi sono stati davvero pesanti. In Franciacorta si produce la maggior quantità delle bottiglie di "spumante" (termine abbastanza odioso) italiano metodo classico, ovvero (nel caso improbabile ci fosse ancora qualcuno che lo ignori) con rifermentazione in bottiglia, come nello Champagne. Ci saranno a spanne un centinaio di aziende, e una superficie vitata che probabilmente è stata allargata anche troppo.
Mirabella è un'azienda che sta nella parte est della denominazione, e che ha intrapreso una politica di riduzione dei solfiti (il loro Elite non ne ha di aggiunti, ma purtroppo non l'ho assaggiato) e di rinnovamento tecnologico al fine di aumentare la sostenibilità (fonti rinnovabili, raccolta differenziata, ecc. ecc; tutto ben spiegate sul loro sito).

Per il mio primo approccio a questa cantina ho scelto il loro Satèn, ovvero un vino Brut ottenuto da sole uve bianche (in questo caso 100% Chardonnay) e con una pressione in bottiglia inferiore rispetto agli altri Franciacorta, che porta a bollicine più fini e gusto più... cremoso, più morbido (da qui il nome, che richiama la seta). Lungo affinamento di 36 mesi (il 2020 è la data della sboccatura) a contatto coi lieviti. Nel bicchiere il vino si presenta di un bel giallo paglierino con qualche riflesso dorato, con bollicine molto fini; al naso si percepiscono aromi floreali e note più dolci, come di miele e frutta esotica.
L'assaggio è ancora meglio: il vino è veramente morbido, piacevole, con qualche cenno di mineralità su cui spuntano gli agrumi. Fa venir voglia di tornare a frequentare questo mondo con maggiore assiduità!

Gradazione: 12,5°
Prezzo: 20 €

lunedì 5 aprile 2021

Novelle asiatiche

di Arthur de Gobineau
Guida, Napoli, 1984
Traduzione di Paola Sodo ed Enrico Zummo

L'onore! È voler essere creduti quando si mente; voler passare per onesto quando non si è che un briccone; voler essere considerati leali quando si bara al gioco. [...] Ecco cos'è l'onore; e se davvero ne hai, figlio di mia zia, puoi considerarti un perfetto Europeo, cattivo, perfido, ladro, assassino, senza morale né religione, senza Dio, un porco ebbro di tutte le sbornie immaginabili e immischiato in tutti i letamai del vizio!
Probabilmente Gobineau è sconosciuto ai più, e quei pochi che lo hanno sentito nominare mi chiederebbero: "Ma che c***o stai leggendo?", guardandomi di traverso. Il personaggio infatti è noto (si fa per dire) per il suo Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane (1855), dove si immagina l'esistenza di una razza primigenia (quella "ariana" ovvero bianca, originaria dell'India - il termine viene dal sanscrito) che si sarebbe poi "contaminata" e degradata nei secoli attraverso il meticciato con le altre razze inferiori (sopravvivendo però nell'aristocrazia europea, di cui Gobineau faceva guarda caso parte; alla faccia delle tare ereditarie che affliggevano proprio nobiltà e aristocrazia). Pare che la teoria, rivisitata, abbia avuto un certo seguito in Germania...
Per fortuna, assai poco delle sonore cretinate di cui sopra si ritrova in questi racconti, scritti nel 1876 e quindi successivi al Saggio, che sono piuttosto figli della passione di Gobineau per l'oriente e dei lunghi anni lì trascorsi come diplomatico. Detta passione era una moda del tempo: l'Ottocento, con le sue imprese coloniali, lo sviluppo dell'esplorazione geografica ed i numerosi resoconti di viaggi aveva aperto all'Europa le porte dell'est, scorgendovi un mondo complesso che fu più o meno idealizzato nei soliti stereotipi di sensualità e piacere, spiritualismo e fanatismo. In particolare, Gobineau è attratto dalla Persia (sempre per via delle sue strambe teorie), di cui si spaccerà per un po' di tempo come profondo conoscitore (ma gli orientalisti considereranno paccottiglia le sue opere "scientifiche" sull'oriente). I sei racconti del libro sono infatti tutti ambientati in quella che si chiama la Grande Persia, ovvero in Iran, Afghanistan, Caucaso.
Più che un ordine di apparizione, conviene adottare un ordine di preferenza. Il più divertente è di gran lunga il quarto, La guerra dei Turcomanni. Dietro le paradossali vicende di Ghulam Hussein, arruolato nell'esercito iraniano e spedito in un'improbabile guerra contro i Turcomanni, c'è la descrizione di un intero paese di simpatici cialtroni in cui si imbroglia il prossimo ed in ogni ruolo ci si preoccupa solo di derubare lo stipendio dei sottoposti:
in fondo, visto che i visir campano sui generali, debbo dire che mi sembra naturale che costoro mangino sui colonnelli che, a loro volta, campano di maggiori, e questi di capitani e i capitani dei loro luogotenenti e dei soldati. Tocca a questi ultimi ingegnarsi per trovare altrove di che vivere (p. 173).
L'esercito e la vita militare sono ridicolizzati come non potrebbe fare nemmeno il più accanito antimilitarista: posti di guardia vuoti, soldati a fare altri mestieri per campare, eserciti lasciati senza provviste e armi perché vendute dai generali, che ovviamente se ne stanno ben lontani dalla battaglia. La giustizia è regolata dai regali verso i superiori ed i pochi che saprebbero comandare le truppe e vincere la guerra (perché educati in Europa; qua e là le teorie del nostro fanno capolino...) sono tenuti in disparte. Alla fine Ghulam farà fortuna: eccomi capitano, intento a spolpare i soldati come già avevano fatto con me (p. 204). Potrebbe benissimo essere ambientato in Italia...

La danzatrice di Shamakha, il primo della raccolta, è l'altro racconto più interessante: il viaggio di due ufficiali dell'esercito russo per raggiungere il proprio reggimento si intreccia con le vicende di Omm Gehàn, una danzatrice della tribù Lesghi che rivendica orgogliosamente la propria identità e vive per vendicarsi dei russi, che ne hanno sterminata la famiglia. L'apice del racconto è il colloquio tra l'ufficiale Assanoff e Omm, dove un'antica canzone riporta il "civilizzato" Assanoff alle sue antiche origini tribali:
Le parole pronunciate da Omm Gehàn, l'intrecciarsi delle rime, lo afferravano come artigli e lo trascinavano tra i burroni delle montagne, nei sentieri dove, dal folto di un cespuglio, aveva tante volte spiato le marce delle colonne russe [...]. L'animo del barbaro mal convertito era invaso da una sublime malìa. Le sue abitudini erano europee, i suoi vizi si esprimevano in russo e in francese; ma la sua autentica natura, i suoi istinti, le sue qualità, le attitudini e le virtù che possedeva, tutto ciò era ancora tataro, come la parte più pura del suo sangue. (p. 59)
Assanoff si trova così di fronte al dilemma se fuggire con Omm per continuare la lotta contro i russi o abiurare definitivamente le proprie origini e restare un ufficiale dell'esercito. L'unica nota che mi sentirei di fare al racconto è sul finale, che pare incollato lì senza troppo criterio.

Meno interessanti gli altri: Storia di Gamber Alì propone un affresco sociale simile a quello della Guerra, ma senza l'ironia e la leggerezza di quest'ultimo, Un mago illustre ripercorre l'ansia di conoscenza e fa pensare immediatamente a Vathek, Gli amanti di Kandahar sono una sorta di Giulietta e Romeo in salsa orientale. Qualche parola in più merita il corto Vita di viaggio, dove Gobineau ripercorre la sua prima missione in Asia, il fascino dei viaggi nelle lunghissime carovane e di quell'Oriente che ho attraversato troppo rapidamente e che risveglia tra i miei ricordi le sensazioni più felici, le più luminose, le più indimenticabili che abbia mai provato. (p. 295)

sabato 3 aprile 2021

Montepulciano d'Abruzzo DOC 2018 Zaccagnini

Dopo le incursioni con Illuminati e Masciarelli, rieccomi (enologicamente parlando) in Abruzzo, questa volta nel pescarese, vicinissimo alla magica abbazia di S. Clemente a Casauria, a poca distanza da Capestrano e da infinite altre località, e giù giù, più lontano, la dannunziana Anversa degli Abruzzi e la fantastica osteria La fiaccola.
Mancando da queste lande più o meno da dieci anni, mi devo accontentare di altre modalità: il Gran Sasso visitato attraverso le guide alpinistiche, dal 1943 ad oggi, e la terra vista tramite i suoi prodotti. E proprio lì, tra Maiella e Gran Sasso, c'è la Cantina Zaccagnini (niente a che vedere con il politico democristiano eh...), dal lontano 1978; oggi cresciuta a livelli di produzione di (leggo...) ben tre milioni di bottiglie annue, il che potrebbe far nascere qualche sospetto sulla qualità.
Per fugarli, non c'è niente di meglio dell'assaggio diretto. Ricordavo bene la caratteristica bottiglia con il tralcetto di vite e la scritta simil-rustica, un po' meno il suo contenuto. Si tratta del Montepulciano "base" della cantina, ovviamente da uve Montepulciano al 100%, con fermentazione in acciaio e maturazione in botte grande per 4 mesi, seguita da affinamento in bottiglia.
Bello il colore, un rosso (l'avreste mai detto?) rubino scuro, con appena qualche accenno violaceo. Aroma evidente anche se non intensissimo di frutti rossi e neri, ciliegie e un po' di mirtillo, seguite da qualche sfumatura speziata.
All'assaggio si dimostra "di pronta beva", come si suol dire, morbido e fresco, con alcool non troppo evidente e tannini morbidi. Un altro esempio di "vino quotidiano" dalla terra d'Abruzzo.

Gradazione: 12,5°
Prezzo: 7 €