di Giuliano Donati Petteni
Orobiche, Bergamo, 1940 (1a ed. Bolis, 1928)
Per capirne la genesi bisogna andare alla data della prima edizione: il 1928, decennale della Vittoria. In Italia (ma non solo) fioccano commemorazioni, libri (ad es. la collana del TCI sui Campi di battaglia), monumenti, tutti conditi da un mare di retorica. In questo contesto si colloca il libro, che ha però la particolarità (chiamiamola anche pregio, se vogliamo) di limitarsi all'ambito locale, di voler essere un'opera sui combattenti bergamaschi della Grande Guerra. Oggi siamo subissati di libri a carattere locale, la maggior parte dei quali assolutamente inutili, ma un secolo fa questo tipo di editoria non era così diffusa, ed il libro di Donati Petteni è forse il primo che racconta simili storie.
Nel capitolo di apertura l'autore si propone di illuminare figure che chiama eroi oscuri, i tantissimi che fecero il loro dovere (e anche più) perdendo la vita, e che furono poi dimenticati nelle celebrazioni ufficiali. Spuntano nomi, fotografie, racconti, come fossero ricordi famigliari. Dopo questo tributo si passa ai nomi più famosi, con quattro capitoli sui fratelli Calvi. Anche qui, potrebbe essere questa la prima volta che la loro storia viene raccontata, seppure in diversi libri di memorie (ad esempio quello di Cavaciocchi del 1923 o di Patroni del 1924) se ne parla con riferimento all'Adamello (ed il libro di Patroni sui Calvi è pure del 1928). Oggi questi capitoli risultano tra i meno interessanti, in virtù delle numerose pubblicazioni successive.
Il motivo opposto, ovvero l'essere sfuggiti alla frenesia editoriale del secolo seguente, fa guadagnare interesse al resto del libro: dopo un breve ricordo di Cesare Battisti a Bergamo si passa a Carlo Locatelli, alpinista e fratello del più noto Antonio, di cui sono riportate numerose lettere a mo' di diario di guerra, interrotte appena prima dell'ultima sua azione a Cima Presena. Si ritorna poi nel quasi-anonimato: chi ha mai sentito nominare Antonio Palvis, sottotenente della Brigata Toscana (il 78° reggimento era dislocato a Bergamo; c'è ancora la colonna commemorativa davanti alla ora demolita caserma Montelungo)? E così si continua, ancora con nomi del tutto ignoti, poco più che ragazzi nelle fotografie in cui si atteggiano a uomini. Questa parte si chiude con il ricordo personale dell'autore relativo alla propria ferita sul fronte del Piave.
Il libro potrebbe finire qui, ma vi sono aggiunti due capitoli finali non del tutto coerenti: il primo sul Comitato d'azione, ovvero il comitato composto da mutilati ed invalidi di guerra che sviluppò una capillare opera di propaganda dopo Caporetto, di cui si parla anche nel libro di Delcroix; l'ultimo parla di Fiume, naturalmente dal punto di vista della partecipazione bergamasca, dove segnalo solo il nome di Tullia Franzi.
Non mancano nel libro le dolenti note: ovviamente la retorica, gli eroi, i cavalieri antichi, il Calvario; ovviamente la mamma, invocata in ogni dove, a detta dell'autore, da parte dei soldati (Lo portano all'ospedale [...] se ne va poco a poco [...] sognando certo della madre che l'attende), i cui sentimenti si riducono al binomio patria-famiglia, senza alcun'altra connotazione o desiderio. Molto più interessanti delle chiose dell'autore sono gli stralci delle lettere, dove tutta questa enfasi non si trova, e che lasciano solo un po' di sconcerto, tanto lontano è il modo di pensare ed i "valori" che ne trasudano.
Una parola finale è dovuta alla noiosa preazione di Antonio Locatelli, che si dipana tra una opinabile agiografia dei bergamaschi e quelle che oggi sarebbero considerate delle vere e proprie gaffe nei confronti dell'autore, che soffriva di intossicazione da iprite contratta durante la guerra (e che lo porterà alla morte nel 1930). Qui è definito indifeso contro il tallone della sorte, resuscitato non so come, uno a cui ogni anno le forze scemano e che vive in povertà dignitosa. Locatelli lo scrive per enfatizzare il contrasto con il suo ingegno e produzione letteraria, ma proprio la malattia dell'autore rende oggi questi giudizi ancora più inopportuni, specialmente nella prefazione ad un suo libro!
Orobiche, Bergamo, 1940 (1a ed. Bolis, 1928)
Salute ottima, freddo, neve, tormenta, fucilate, cannonate, pericoli, fatica. Comincio a nutrire dei dubbi quando penso che l'uomo chiama se stesso "Re del Creato". L'uomo è più bestia delle bestie... quando ci si mette.Non ricordo con precisione dove mi sono imbattuto in questo libro per la prima volta; probabilmente figurava nella bibliografia di uno dei numerosi libri sulla Grande Guerra in Adamello e sui fratelli Calvi che ho letto nel corso degli anni. Inoltre, la dicitura Xilografia di A. Vitali relativa all'immagine in copertina mi incuriosiva, anche se certamente l'esito di questa incisione è assai lontano dagli altissimi livelli abitualmente espressi nelle opere di Alberto Vitali. Tuttavia, il vago senso di diffidenza che emanava dal titolo ha fatto sì che il libro sia rimasto a decantare per un congruo numero di anni prima della lettura.
Per capirne la genesi bisogna andare alla data della prima edizione: il 1928, decennale della Vittoria. In Italia (ma non solo) fioccano commemorazioni, libri (ad es. la collana del TCI sui Campi di battaglia), monumenti, tutti conditi da un mare di retorica. In questo contesto si colloca il libro, che ha però la particolarità (chiamiamola anche pregio, se vogliamo) di limitarsi all'ambito locale, di voler essere un'opera sui combattenti bergamaschi della Grande Guerra. Oggi siamo subissati di libri a carattere locale, la maggior parte dei quali assolutamente inutili, ma un secolo fa questo tipo di editoria non era così diffusa, ed il libro di Donati Petteni è forse il primo che racconta simili storie.
Nel capitolo di apertura l'autore si propone di illuminare figure che chiama eroi oscuri, i tantissimi che fecero il loro dovere (e anche più) perdendo la vita, e che furono poi dimenticati nelle celebrazioni ufficiali. Spuntano nomi, fotografie, racconti, come fossero ricordi famigliari. Dopo questo tributo si passa ai nomi più famosi, con quattro capitoli sui fratelli Calvi. Anche qui, potrebbe essere questa la prima volta che la loro storia viene raccontata, seppure in diversi libri di memorie (ad esempio quello di Cavaciocchi del 1923 o di Patroni del 1924) se ne parla con riferimento all'Adamello (ed il libro di Patroni sui Calvi è pure del 1928). Oggi questi capitoli risultano tra i meno interessanti, in virtù delle numerose pubblicazioni successive.
Il motivo opposto, ovvero l'essere sfuggiti alla frenesia editoriale del secolo seguente, fa guadagnare interesse al resto del libro: dopo un breve ricordo di Cesare Battisti a Bergamo si passa a Carlo Locatelli, alpinista e fratello del più noto Antonio, di cui sono riportate numerose lettere a mo' di diario di guerra, interrotte appena prima dell'ultima sua azione a Cima Presena. Si ritorna poi nel quasi-anonimato: chi ha mai sentito nominare Antonio Palvis, sottotenente della Brigata Toscana (il 78° reggimento era dislocato a Bergamo; c'è ancora la colonna commemorativa davanti alla ora demolita caserma Montelungo)? E così si continua, ancora con nomi del tutto ignoti, poco più che ragazzi nelle fotografie in cui si atteggiano a uomini. Questa parte si chiude con il ricordo personale dell'autore relativo alla propria ferita sul fronte del Piave.
Il libro potrebbe finire qui, ma vi sono aggiunti due capitoli finali non del tutto coerenti: il primo sul Comitato d'azione, ovvero il comitato composto da mutilati ed invalidi di guerra che sviluppò una capillare opera di propaganda dopo Caporetto, di cui si parla anche nel libro di Delcroix; l'ultimo parla di Fiume, naturalmente dal punto di vista della partecipazione bergamasca, dove segnalo solo il nome di Tullia Franzi.
Non mancano nel libro le dolenti note: ovviamente la retorica, gli eroi, i cavalieri antichi, il Calvario; ovviamente la mamma, invocata in ogni dove, a detta dell'autore, da parte dei soldati (Lo portano all'ospedale [...] se ne va poco a poco [...] sognando certo della madre che l'attende), i cui sentimenti si riducono al binomio patria-famiglia, senza alcun'altra connotazione o desiderio. Molto più interessanti delle chiose dell'autore sono gli stralci delle lettere, dove tutta questa enfasi non si trova, e che lasciano solo un po' di sconcerto, tanto lontano è il modo di pensare ed i "valori" che ne trasudano.
Una parola finale è dovuta alla noiosa preazione di Antonio Locatelli, che si dipana tra una opinabile agiografia dei bergamaschi e quelle che oggi sarebbero considerate delle vere e proprie gaffe nei confronti dell'autore, che soffriva di intossicazione da iprite contratta durante la guerra (e che lo porterà alla morte nel 1930). Qui è definito indifeso contro il tallone della sorte, resuscitato non so come, uno a cui ogni anno le forze scemano e che vive in povertà dignitosa. Locatelli lo scrive per enfatizzare il contrasto con il suo ingegno e produzione letteraria, ma proprio la malattia dell'autore rende oggi questi giudizi ancora più inopportuni, specialmente nella prefazione ad un suo libro!
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