Vallecchi, Firenze, 1995 (1a ed. 1919)
Perché l'Italia, checché possano dirne i pappagalli di terza pagina dei grossi giornali, i sensali mascherati delle riviste illustrate, e i polverosi professori pagati per far da beccamorti ne' musei, non conosce né capisce, e perciò non ama, la modernità.
Il 1919 è un anno importante per l'Italia, alle prese con la metabolizzazione del macello della prima guerra mondiale, vera tabula rasa delle esperienze precedenti: al vivace clima pre-bellico si sostituisce via via il richiamo all'ordine e di lì a poco le squadracce precipiteranno il Paese nel gorgo autoritario. Soffici segue la stessa china: da intellettuale "non-allineato", critico d'arte ribelle e avanguardista, si trasforma via via in intellettuale organico al fascismo (del resto il suo Lemmonio Boreo del 1912 prefigura già lo squadrismo nero). In mezzo c'è questo libro, vera e propria sintesi del periodo che sta per chiudersi. Come lo stesso Soffici spiega, si tratta di una selezione di articoli pubblicati su La Voce e Lacerba nel periodo 1908-1915, dopo il ritorno di Soffici da Parigi, dove ha vissuto dal 1900 al 1907 e dove è entrato in contatto con il simbolismo, l'impressionismo e il cubismo. Proprio la coscienza dell'arretramento culturale italiano rispetto a quanto avveniva oltralpe lo spinge a far conoscere questi movimenti, a curare la prima mostra italiana degli impressionisti a Firenze nel 1910, a battersi per uno svecchiamento della provincialissima arte italiana (con la lodevole eccezione dei futuristi, prima criticati e poi lodati da Soffici, che comunque non entrano in questo contesto). Questo il grandissimo merito dell'autore e del libro.
Nella prima parte del libro (le scoperte) spicca il bellissimo saggio su Il Greco (con una simpatica polemica sui letterati e la critica d'arte a cui rispose Croce), per passare a Courbet, Cezanne, Rousseau, senza dimenticare Rosso e Fattori (e con un bel po' di generosità nelle lodi a Ranzoni e alla Gerebzova). Poi il bel capitolo su Boldini (che Soffici non apprezza, ma di cui riconosce la vitalità del dipinto) e i fratelli Savinio, a testimonianza dell'acume critico dell'autore che, dopo aver dedicato un capitolo alle proprie teorie artistiche, passa ai massacri, ovvero alla critica dell'arte (e della critica d'arte) coeva, soprattutto italiana. Qui, non senza ragione, ma con un po' di esagerazione, non si salva nessuno: pittori, scultori e critici vengono bistrattati dagli scritti taglienti di Soffici. E se molti nomi sono oggi scivolati nel dimenticatoio dell'arte, a dimostrazione che gli strali colpivano spessissimo nel segno e che l'Italia era già decaduta a provincia anche dal punto di vista artistico/culturale, sembra quasi incredibile che Soffici trovasse "disgustosa" l'arte di Stuck, "un carnevale in una camera mortuaria" quella di Klimt (l'arte mitteleuropea troverà però una sponda nelle mostre della Secessione romana, dove nel 1913 compare anche una "Sala degli impressionisti francesi"), per non parlare dei Preraffaeliti. Ma così è: l'impeto rinnovatore è tale che non ha mezze misure; o si è dentro l'arte moderna o si è "falsi", "innamorati di mondi morti" come Moreau e Böcklin (e non è da prendersi come complimento romantico), "bestiali", "ignoranti e perniciosi" come i critici italiani. Quindi, nessuna sorpresa nel veder maltrattato Sartorio o il critico d'arte Vittorio Pica (che comunque, dall'alto delle loro posizioni, potevano benissimo infischiarsene); semmai ancora un po' di stupore per le remore su Gauguin e Van Gogh, Sargent e Cassatt (inserita in una bella introduzione sull'arte femminile) e per un paio di giudizi sulla pittura inglese e tedesca (eccessiva "francesizzazione" del nostro?).
Ma la cosa che colpisce di più, come ben evidenziato nell'introduzione, è la scarsa fortuna che questo libro profetico ha avuto nel nostro Paese: invece di diventare "testo sacro" di critica d'arte è stato pressoché dimenticato. Forse la rapidissima marcia dell'arte moderna che - ironia della sorte - già considerava l'impressionismo come arte "classica" quando Soffici scriveva (la recezione del cubismo da noi sarà ben più complicata), forse l'involuzione culturale... fatto sta che dopo una seconda edizione nel 1929 non se ne parlerà più. L'Italia non ama la modernità; parole sante. Ce ne stiamo accorgendo.
Nella prima parte del libro (le scoperte) spicca il bellissimo saggio su Il Greco (con una simpatica polemica sui letterati e la critica d'arte a cui rispose Croce), per passare a Courbet, Cezanne, Rousseau, senza dimenticare Rosso e Fattori (e con un bel po' di generosità nelle lodi a Ranzoni e alla Gerebzova). Poi il bel capitolo su Boldini (che Soffici non apprezza, ma di cui riconosce la vitalità del dipinto) e i fratelli Savinio, a testimonianza dell'acume critico dell'autore che, dopo aver dedicato un capitolo alle proprie teorie artistiche, passa ai massacri, ovvero alla critica dell'arte (e della critica d'arte) coeva, soprattutto italiana. Qui, non senza ragione, ma con un po' di esagerazione, non si salva nessuno: pittori, scultori e critici vengono bistrattati dagli scritti taglienti di Soffici. E se molti nomi sono oggi scivolati nel dimenticatoio dell'arte, a dimostrazione che gli strali colpivano spessissimo nel segno e che l'Italia era già decaduta a provincia anche dal punto di vista artistico/culturale, sembra quasi incredibile che Soffici trovasse "disgustosa" l'arte di Stuck, "un carnevale in una camera mortuaria" quella di Klimt (l'arte mitteleuropea troverà però una sponda nelle mostre della Secessione romana, dove nel 1913 compare anche una "Sala degli impressionisti francesi"), per non parlare dei Preraffaeliti. Ma così è: l'impeto rinnovatore è tale che non ha mezze misure; o si è dentro l'arte moderna o si è "falsi", "innamorati di mondi morti" come Moreau e Böcklin (e non è da prendersi come complimento romantico), "bestiali", "ignoranti e perniciosi" come i critici italiani. Quindi, nessuna sorpresa nel veder maltrattato Sartorio o il critico d'arte Vittorio Pica (che comunque, dall'alto delle loro posizioni, potevano benissimo infischiarsene); semmai ancora un po' di stupore per le remore su Gauguin e Van Gogh, Sargent e Cassatt (inserita in una bella introduzione sull'arte femminile) e per un paio di giudizi sulla pittura inglese e tedesca (eccessiva "francesizzazione" del nostro?).
Ma la cosa che colpisce di più, come ben evidenziato nell'introduzione, è la scarsa fortuna che questo libro profetico ha avuto nel nostro Paese: invece di diventare "testo sacro" di critica d'arte è stato pressoché dimenticato. Forse la rapidissima marcia dell'arte moderna che - ironia della sorte - già considerava l'impressionismo come arte "classica" quando Soffici scriveva (la recezione del cubismo da noi sarà ben più complicata), forse l'involuzione culturale... fatto sta che dopo una seconda edizione nel 1929 non se ne parlerà più. L'Italia non ama la modernità; parole sante. Ce ne stiamo accorgendo.
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