L'Unità, Roma, 1993 (1a ed. 1883 nella raccolta Storielle vane)
Mi piaceva in quell'uomo la stessa viltà. [...] Che cosa mi doveva importare dell'eroe? Anzi la perfetta virtù mi sarebbe parsa scipita e sprezzabile al paragone de' suoi vizii; la sua mancanza di fede, di onestà, di delicatezza, di ritegno mi sembrava il segno di una vigoria arcana, ma potente, sotto alla quale ero lieta, ero orgogliosa di piegarmi da schiava. Quanto più il suo cuore appariva basso, tanto più il suo corpo splendeva bello.
Il volumetto contiene cinque racconti di Boito, tutti dimenticati tranne quello che dà il titolo alla raccolta, e più per merito di Luchino Visconti che dello stesso Boito. La trama è sufficientemente nota perché io possa raccontarla senza troppi problemi: in breve, la contessa Livia si innamora di Remigio, un ufficiale austriaco interessato più che altro ai suoi denari. Quando, dopo averlo aiutato ad "imboscarsi" per evitare di partire per il fronte, scoprirà la verità, lo denuncerà facendolo fucilare. I due protagonisti sono ben delineati e sono tutt'altro che positivi: fredda, orgogliosa ed egoista lei, sposatasi giovanissima per interesse ad un uomo di 40 anni più vecchio; cinico e profittatore lui. Ma mentre Remigio (ma non c'era un nome migliore?) è costantemente se stesso, ipocrita e calcolatore, Livia ha il merito o la colpa di oscillare tra sentimenti che non è poi in grado di capire, tra la passione per Remigio (che pur non si può dire amore, che non conosce) e il disinganno (che si tramuta in atroce vendetta). Unico personaggio positivo - che infatti entra in scena abbracciando i figlioli mentre Livia se ne scosta; Boito usa i dettagli in modo molto intelligente - è il generale Hauptmann, che tenterà invano di dissuadere la contessa dal suo proposito.
Il racconto è scritto sotto forma di memoriale dalla stessa Livia sedici anni dopo i fatti, quasi a volersi sgravare dall'inquietudine (non certo dal rimorso); quest'espediente consente a Boito di "limitarsi ai fatti" senza indugiare in esplicite prese di posizione politica o morale, che restano confinate nei dettagli (l'ufficiale boemo che sputa in faccia a Livia, i commenti sul giovane respinto e arruolatosi nell'esercito piemontese,...).
Leggendo il libro, però, non potevo fare a meno di ripensare alla vicenda sotto un altro punto di vista, che certamente non è quello di Boito: Livia mi appariva incarnare perfettamente lo stile di vita della borghesia del suo tempo, sposatasi per interesse, "libera" di avere un amante purché fosse salvato l'aspetto formale del matrimonio, disinteressata a quanto accade oltre se stessa. Remigio invece lo vedevo come un "cane sciolto" che sta al di fuori di questa società cercando di cavarne il più possibile; una specie di "parassita" o, se proprio proprio vogliamo, uno "spirito libero" molto sui generis (se ne possono trovare altri nella letteratura e nel cinema). La relazione tra i due, con Livia che via via si figura un Remigio diverso da com'è (lo pensa in guerra a fare il suo dovere ed innamorato e riconoscente verso di lei), è il tentativo di integrarlo nel suo mondo, dove i denari impongono almeno la riconoscenza formale (e Livia lo sa bene, visto il suo matrimonio - a cui comunque non rinuncerebbe mai). Il finale, constatata l'impossibilità di ricondurre Remigio entro le regole del gioco, è più che mai ovvio (poi c'è anche una sfumatura moralistica, per cui questo tipo di relazioni finiscono sempre in tragedia nell'Ottocento - ancora la forma che deve trionfare)!
Proseguendo su questa strada, ci sarebbe qui da discutere del bellissimo film di Luchino Visconti, che re-inventa la novella di Boito spostando l'enfasi sull'incapacità della società del tempo di confrontarsi con la Storia (ma Visconti parlava sempre del presente, e lo avevano capito bene quelli che lo boicottarono al festival di Venezia); mi limito invece a due parole sugli altri quattro racconti, tutti poco interessanti e convenzionali, cogli uomini rinchiusi nel loro ruolo borghese e le donne più disponibili a donarsi (Macchia grigia, Meno di un giorno), ma con la trama vincolata dalla ferrea moralità di facciata dell'epoca. Pollice verso per Il demonio muto, per il solo fatto che si racconta di una chitarra che finisce sul rogo!
Il racconto è scritto sotto forma di memoriale dalla stessa Livia sedici anni dopo i fatti, quasi a volersi sgravare dall'inquietudine (non certo dal rimorso); quest'espediente consente a Boito di "limitarsi ai fatti" senza indugiare in esplicite prese di posizione politica o morale, che restano confinate nei dettagli (l'ufficiale boemo che sputa in faccia a Livia, i commenti sul giovane respinto e arruolatosi nell'esercito piemontese,...).
Leggendo il libro, però, non potevo fare a meno di ripensare alla vicenda sotto un altro punto di vista, che certamente non è quello di Boito: Livia mi appariva incarnare perfettamente lo stile di vita della borghesia del suo tempo, sposatasi per interesse, "libera" di avere un amante purché fosse salvato l'aspetto formale del matrimonio, disinteressata a quanto accade oltre se stessa. Remigio invece lo vedevo come un "cane sciolto" che sta al di fuori di questa società cercando di cavarne il più possibile; una specie di "parassita" o, se proprio proprio vogliamo, uno "spirito libero" molto sui generis (se ne possono trovare altri nella letteratura e nel cinema). La relazione tra i due, con Livia che via via si figura un Remigio diverso da com'è (lo pensa in guerra a fare il suo dovere ed innamorato e riconoscente verso di lei), è il tentativo di integrarlo nel suo mondo, dove i denari impongono almeno la riconoscenza formale (e Livia lo sa bene, visto il suo matrimonio - a cui comunque non rinuncerebbe mai). Il finale, constatata l'impossibilità di ricondurre Remigio entro le regole del gioco, è più che mai ovvio (poi c'è anche una sfumatura moralistica, per cui questo tipo di relazioni finiscono sempre in tragedia nell'Ottocento - ancora la forma che deve trionfare)!
Proseguendo su questa strada, ci sarebbe qui da discutere del bellissimo film di Luchino Visconti, che re-inventa la novella di Boito spostando l'enfasi sull'incapacità della società del tempo di confrontarsi con la Storia (ma Visconti parlava sempre del presente, e lo avevano capito bene quelli che lo boicottarono al festival di Venezia); mi limito invece a due parole sugli altri quattro racconti, tutti poco interessanti e convenzionali, cogli uomini rinchiusi nel loro ruolo borghese e le donne più disponibili a donarsi (Macchia grigia, Meno di un giorno), ma con la trama vincolata dalla ferrea moralità di facciata dell'epoca. Pollice verso per Il demonio muto, per il solo fatto che si racconta di una chitarra che finisce sul rogo!
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