E la [...] guida non risulterà un elenco sistematico di itinerari, ma l'opera di un grande impegno e di una profonda passione. Soprattutto l'opera di un uomo.Dopo le guide delle Orobie e delle Prealpi bergamasche, continuo le mie peculiari letture delle guide alpinistiche d'antan volgendo l'attenzione alle vicine Grigne (che in realtà sarebbero poi parte delle prealpi suddette, ma poiché l'Italia è il paese dei campanili è meglio soprassedere): accantoniamo quindi le pubblicazioni a carattere non spiccatamente alpinistico e le prime monografie pubblicate sulla Rivista Mensile per percorrere quasi cinquant'anni di arrampicate in quel gruppo con l'ausilio di tre guide, scritte in decenni differenti.
Il vate che ci accompagna negli anni '20 è Gianni Barberi, autore di Grigna - arrampicate Grigna meridionale, la prima guida alpinistica del gruppo, pubblicata dalla SUCAI nel luglio 1925 (la prima pagina riporta un curioso 1. Edizione N. 000). L'introduzione spiega che la SUCAI si affidò per la compilazione della guida nientemeno che al Gruppo Amatori delle Alpi (!!), che rifilò il lavoro al Barberi. La prima edizione, "trattando unicamente la parte prettamente alpinistica della montagna, ne descrive la salita ad ogni singolo Torrione, limitandosi però ad un solo itinerario, quello comune". Una guida quindi essenziale, che riporta 24 salite ad altrettanti torrioni (incluso il Dito Dones e un ormai dimenticato Torrione Vaghi). Tutte le vie sono... anonime, nel senso che i nomi dei primi salitori non sono riportati (fanno eccezione quelli del Sigaro Dones), e sono accompagnate da schizzi di Angelo Calegari. Assai divertente la descrizione della salita all'Ago Teresita con lancio della corda e alcune calate in corda doppia su singolo chiodo, ma con la raccomandazione di "assicurarsi la solidità"!
La guida era pensata come preambolo ad una seconda edizione "che presto vedrà la luce" e che invece non sarà mai stampata, ed il motivo è assai probabilmente da ricercarsi in quanto si legge nella temuta rubrica Personalia della Rivista Mensile del CAI del novembre-dicembre 1926 (p. CXXIII): Barberi cade sul Disgrazia il 29 giugno, lasciando incompiuto il progetto.
Si passa così agli anni '30, alla mitica Guida dei Monti d'Italia, vero fiore all'occhiello del CAI. Nel 1934 inizia la seconda serie e nel 1937, con soli quattro volumi pubblicati, Silvio Saglio inaugura con Le Grigne la sua attività di instancabile compilatore di guide che lo porterà a completarne (anche in collaborazione) poco meno di una decina. Il lavoro è immane: l'unica pubblicazione precedente (quella del Barberi) è limitatissima e le vie nuove nel gruppo delle Grigne sono numerosissime. Saglio consulta, legge, chiede, vagabonda per i sentieri, fotografa e ripete qualcosina; non ho idea di quanto tempo impieghi a raccogliere il materiale, ma il risultato è impressionante: quasi 500 pagine. Tolti i Cenni generali, le Vie d'accesso e i Rifugi, la parte alpinistica va da p. 141 a p. 472, dove il volume termina con due brevi sezioni su scialpinismo e speleologia: escludendo le descrizioni delle salite oggi annoverate come escursionistiche, restano circa 300 pagine o poco meno.
Numerosissimi gli spunti, le informazioni e gli aneddoti presenti, che rendono interessante la lettura. Sull'aspetto più propriamente alpinistico segnalo la scoperta (per me) dell'esistenza di una via del 1931 di Ettore Castiglioni in Grignetta, alla parete O della Guglia Angelina (p. 262), valutata di IV. Lo stesso apre poi una variante alla salita per il versante N della stessa guglia (p. 264). E che dire della salita del 1° novembre 1923 di III per la fessura N e lo spigolo NO della Torre Cecilia (p. 301, vedi figura)? Due cordate salgono, e la seconda è composta nientemeno che da Sandro Bartoli e Dino Buzzati! Chi sapeva di una via in Grignetta del grande scrittore, allora diciassettenne? Invero, Saglio scrive Dino Buzzatti, ma che si tratti di una svista (corretta nelle guide successive) è testimoniato dal nome del compagno di cordata: Bartoli fu compagno di liceo e di arrampicate di Buzzati, citato in diversi racconti, e morì in montagna a 21 anni. Naturalmente, siamo andati subito a ripetere la via.
Lasciamo Dino e proseguiamo, leggendo la storia alpinistica (e non solo) degli anni '30 nei nomi delle salite, nomi che oggi sono comprensibilmente (e fortunatamente) dimenticati: la via di Dell'Oro, Varale e Cassin alla O dell'Angelina si chiama via XXVIII ottobre, infausto giorno della marcia su Roma e del suicidio politico dell'Italia, anche se Saglio cita la data come quella di fondazione dei Fasci di combattimento, che è diversa. Ci ricorda anche che "il fatto è ricordato da una lapide posta all'attacco, dono del Fascio di Combattimento di Lecco al Gruppo Giovani Fascisti Nuova Italia" (p. 262). E che i tre salitori ai tempi non facessero mistero delle loro poco argute simpatie lo rivela la famosa Via del Littorio (p. 320). Ma non sono i soli: la salita allo spigolo S della Piramide Casati di Basili e Confortini è dedicata alla squadra d'azione Carnaro (p. 291).
L'associazionismo però non è sempre esplicitamente politico, ed è così che sulla vetta del Fungo "venne issato in seguito un fanale, simbolo del Gruppo Audaci Scalatori, associazione alpinistica ora scomparsa" (p. 245), per non parlare dell'Ago Teresita, sulla cui vetta "venne issato un remo (simbolo del canottaggio) di cui il primo salitore [Erminio Dones] fu campione europeo" (p. 254). Poco male: meglio i remi e i fanali che i fasci littori!
Anche le descrizioni delle salite riservano sorprese, a partire da quella (ricordata sopra) relativa all'Ago Teresita con lancio di corda (p. 256) fino al superamento degli strapiombi con piramide umana (O del Campaniletto, p. 237 e S della Torre Cecilia, p. 308) o al superamento a cavalcioni di un masso mobile (!) alla O del Fungo (p. 249), per finire con le vie a traversata aerea a mezzo di funi, come quella tra Lancia e Fungo (p. 250) e tra Teresita e Angelina (p. 259), entrambe di Giovanni Gandini. Salutiamo i corvi che nidificavano alla Casati (pp. 295 e 296) e scopriamo l'origine dei nomi Rosalba e Cecilia (p. 300), figlia e moglie di Davide Valsecchi, che donò il rifugio al CAI, sorridiamo al leggere del fiume d'Oa sul versante di Mandello, "che la gente crede provenga dalla Valsassina e passi sotto al Grignone" (pp. 98 e 344) e terminiamo con la descrizione del profilo del Monte S. Martino, la cui cresta occidentale "si presenta con il profilo di Napoleone [...] (Stoppani, Bel Paese). Da Lecco invece il complesso sembra un testone d'allocco co' suoi bravi cornetti. Verso la Val Gerenzone, da opportuni punti di vista, presenta la figura di Rossini in età avanzata". Riferimenti culturali ormai scomparsi, similitudini che nessuno userebbe più. Anche qui sta il fascino di questa guida.
Passano quasi 35 anni prima che qualcuno rimetta mano al lavoro di Saglio, 35 anni in cui gli alpinisti "sono i maggiori frequentatori del Gruppo" (oggi temo che non si potrebbe più fare impunemente cotal affermazione), le vie nuove crescono ancora e molte cose cambiano. L'opportunità di aggiornare (e correggere) la guida precedente è colta dal benemerito editore Tamari di Bologna all'interno della collana Itinerari alpini e la cura della composizione è lasciata a Claudio Cima, altro noto compilatore di guide, soprattutto in ambito dolomitico (Pale di S. Martino, Sella, Dolomiti meridionali). Cima è allora studente ventenne a Milano e di lì a poco sposterà la sua attenzione verso i monti pallidi, inizia il lavoro nel 1968 e pubblica Le Grigne nel 1971 (2a ed. 1975, dove alcuni errori sono corretti). 220 pagine totali, 177 dedicate alle relazioni alpinistiche, due belle cartine allegate. L'impostazione e tutto l'impianto suonano assai diversi da quelli di Saglio, a partire da una certa sensibilità che oggi potremmo definire ambientalista ante litteram, che porta l'autore a deplorare il depauperamento del patrimonio vegetale e animale delle montagne e lo sviluppo edilizio dei Resinelli con la "troppo inopportuna evidenza" del grattacielo (p. 23), conscio però che "siamo in Italia, e non possiamo lamentarci di come conciano la Natura, e la Montagna in particolare: ci poteva andare anche peggio" (p. 15). Un accenno polemico è riservato anche alla "ferratura" del "crestone NO" del Sasso dei Carbonari, "onde permetterne il transito anche ad alpinisti di mezza tacca", mentre a p. 111 l'autore perde un poco la pazienza con il suo predecessore: "Sulla guida Saglio si accenna a delle varianti che evitano la placca terminale [del Fungo]. Sinceramente non riesco a capire dove si sia andati in quei tempi (1914-1923)!". Decisamente più moderne anche le descrizioni dei punti di appoggio e di fondovalle, che assumono connotazioni quasi turistiche (incluso il venditore di bibite in vetta alla Grignetta, menzionato tra i "posti di chiamata" a p. 16) e dove apprendo che la strada dei Resinelli richiedeva un pedaggio di ben 200-300 lire (p. 24). Anche l'approccio alla relazione alpinistica è diverso: Saglio è, per così dire, ecumenico, sistematico ed enciclopedico nello stile della collana del CAI; Cima dà invece un'impronta personale alla guida: sceglie, seleziona, valuta cosa inserire e cosa no, cosa consigliare e cosa no. È un precursore delle guide odierne.
Dalla lettura delle relazioni, dove compaiono Bonatti, Gogna e tanti altri nomi familiari, notiamo così che ancora negli anni '70 il superamento di strapiombi con piramide umana non era passato di moda (Fasana alla E del Magnaghi Centrale, p. 82; Lucini-Prina alla O del Campaniletto, p. 106; Bianchi al Medale, p. 182; Cassin alla O e Pensa alla N del Pizzo d'Eghen, p. 209), che il masso mobile della Ferrero-Lucini alla SO del Fungo ("bisogna attaccarvisi!") era ancora lì e sarebbe interessante sapere che fine ha fatto oggi, e che la valutazione dei gradi e della... ehm... etica dell'arrampicata doveva ancora definirsi per bene: "salire dritti, prendere dei chiodi, superati i quali si va ad una cengia" (p. 118), "girare uno spigoletto, aggrapparsi ad un chiodo, su dritti ad un altro chiodo,..." (p. 172) o il simpaticissimo "un passo di VI se manca un chiodo" (p. 179) che lascia supporre una sana tirata in presenza di detto chiodo, pratica cui peraltro nessun alpinista di mia conoscenza si è mai sottratto, io in primis. Del resto i chiodi si usano senza troppa parsimonia: 220 chiodi sulla Oppio alla SE del Sasso Cavallo (p. 196) e 250 sulla Redaelli alla OSO dello stesso (p. 200). Chiudo le citazioni con la descrizione della "via del rampino della stufa" (p. 64) al Torrione della Grotta: "Anche questa via è opera di Filippo Berti con 'Johnny' [Valerio Carrara], 1955 o 1956. Luciano Tenderini e Gigi Alippi ne tentarono una ripetizione, ma il passaggio chiave non si lasciò vincere neppure con il rampino suddetto, forse a causa di un appiglio venuto via". V e A1 sulla guida di Pesci... mah...
Dal punto di vista, diciamo così, "storico", è interessante leggere la vicenda del Diedro Colnaghi al Medale (p. 183, vedi figura), qui chiamato "Spigolo ESE" e definito un po' troppo sbrigativamente "poco interessante", mentre la prima invernale alla parete Fasana del Pizzo della Pieve è attribuita ad una cordata nel 1950 (p. 203), dimenticando la storica impresa del grande Eugenio Vinante nel 1935 (errore che si ritrova anche nella guida CAI di Pesci del 1998). Serve poi un po' di orientamento per districarsi nei toponimi desueti, come la Torre Zio (ora Torrione Ratti), la Piramide Guedoz (ora Torrione Mandello) o la Torre Casati (ora Torre Vitali), mentre diamo merito a Cima di aver individuato "una possibilità a sinistra della fessura Gasparotto" che diventerà poi la via Franco Dolzini. Chiudono il libro poche pagine su Campelli, Resegone e Corni di Canzo.
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