CAAI, Torino, 1932
Nella repulsione ribelle delle superfici ghiacciate, nell'agguato molteplice dei nevai sfuggenti, nell'incognita mutabilità dell'atmosfera delle altezze, nell'angoscia cupa data dalle rocce viscide o friabili, nello spasimo dello sforzo richiesto dagli strapiombi, nell'orrore delle verticali interminabili e demoniache, infinitamente vario e multiforme, violento o ingannevole, nudo o mascherato, il pericolo regna dovunque nella montagna.Rovistare nelle librerie antiquarie, o solo nelle rivendite di libri usati, è qualcosa dietro al quale si spende sempre volentieri un sacco di tempo (e talvolta anche un po' di soldini, ma non è rilevante). Se poi si trova, in una libreria di Boston, in ottime condizioni e prezzo, un annuario degli anni '30, quelli della nascita "ufficiale" del VI grado, il tempo passato a setacciare polverosi scaffali acquista ancor maggiore significato. Come "chicca", il volume è stato rilegato dall'Appalachian mountain club, il cui stemma compare sul dorso e nel timbro a secco all'interno: chissà, forse era un omaggio tra club alpini e da qualche parte in Italia c'è il corrispettivo annuario del club americano, oppure qualche connazionale emigrò portandoselo dietro e ne fece poi dono alla sezione locale.
Presentato nel numero di luglio 1932 della Rivista Mensile, in quello di novembre si apprende (pag. 703) che il volume è stampato "in numero limitato di copie" (quella in mio possesso è la 280) e che se ne farà una seconda edizione in caso le prenotazioni siano sufficienti (costo = 25 lire). Nulla mi pare compaia in seguito; evidentemente il tanto auspicato proselitismo tra i soci non diede i suoi frutti. Ma veniamo ai contenuti: stampato su carta bellissima, con diverse fotografie e riproduzioni di schizzi d'itinerario, il volume si apre con un'introduzione di Manaresi (la stessa della RM di luglio '32) in pieno stile "lotta coll'alpe" dopo la quale si dipana la prima parte, con alcuni articoli di spedizioni extraeuropee:
- Giotto Dainelli, Viaggio ai grandi ghiacciai del Caracorùm orientale;
- Gianni Albertini, North-east land;
- Umberto Balestreri, Cheri Chor m 5450 (catena del Kailas-Baltistàn);
- Leopoldo Gasparotto, Prime ascensioni e ricognizioni sui monti del Balkar e della Digoria (Caucaso centrale).
Tra queste, la più interessante mi pare quella di Albertini (il Canalino al Magnaghi meridionale è dedicato a lui), che rischiò seriamente di morire di stenti insieme ai suoi tre compagni di avventure, mentre quella di Gasparotto l'avevo già letta con attenzione nella mia ricerca di informazioni su Rand Herron. A proposito di questo scritto, è interessante notare l'incipit un po' misterioso dello stesso Albertini, che narrerà il resoconto "prescindendo da quello che fu lo scopo principale della nostra fatica, scopo e ragione che tanto travagliarono il nostro spirito, togliendoci, man mano che le speranze svanivano, sempre più, inesorabilmente, quel sovrano benessere spirituale con cui la solitudine artica tanto appieno compensa lo stanco viaggiatore". Lo stesso leit-motiv si ritrova alla fine: "In fondo all'animo, con la fiera gioia di un dovere scrupolosamente compiuto, era anche l'amarezza di nulla aver trovato di ciò che avevamo cercato".
Qual fosse lo "scopo principale" della spedizione non ero riuscito a capirlo (sulla Rivista mensile non v'è traccia di scritti di Albertini che potessero illuminarmi) fino a poco tempo fa, quando a pag. 71 di "100 anni di CAI Milano" trovo la chiave: Albertini è alla ricerca degli uomini scomparsi con il dirigibile Italia della spedizione Nobile al Polo nord, del 1928. Il secondo tentativo di ricerca, perché il primo lo compì subito, quando ancora i superstiti vagavano nella "tenda rossa" (che rossa non era). Un resoconto della vicenda, in corrispondenza della pubblicazione dei diari, si trova qui.
Segue un famoso scritto di Domenico Rudatis, "La valutazione delle difficoltà", che è forse il più interessante dell'intero volume. Rudatis ripercorre la storia della valutazione in alpinismo, dai contributi di Leuchs (sua la prima scala su 5 gradi nella guida del Kaisergebirge), Dulfer, Planck (il primo a proporre di utilizzare numeri anziché aggettivi per la valutazione) e Welzenbach fino alla definizione della scala delle difficoltà. Il risultato è abbastanza noto, ma val la pena, forse, ricordare alcune considerazioni dell'epoca:
- parlare di "difficoltà" implica sempre pensare al suo superamento, ovvero coinvolge la capacità dell'arrampicatore. Il "difficile", "molto difficile", "sommamente difficile" e tutto il carrozzone degli aggettivi, sono ovviamente soggettivi, dipendono dalle capacità di chi supera la difficoltà. L'unico modo (allora) ragionevole per poter "tarare" una scala è stato definire il suo estremo superiore, l'"estremamente difficile" sulla base delle massime capacità del tempo. Molto simpatiche le polemiche contro l'utilizzo di "eccezionalmente" o "straordinariamente" difficile: l'eccezione non può infatti far parte di una scala!
- Rudatis riconosce che nelle Dolomiti, dove in quegli anni si era all'avanguardia nell'arrampicamento, la progressione delle difficoltà non è chiusa e definisce (correttamente) "non maturi" i suoi tempi per una precisazione dei limiti superiori del VI grado. Ma l'evoluzione delle capacità sposta i limiti della scala, non aggiunge gradi ulteriori. Bisogna riconoscere che l'approccio è così coerente, ancorché un po' scomodo.
- "Il crescente uso dei chiodi tende già ad arrestare la progressione delle reali difficoltà di arrampicamento" anche quando sono usati solo per assicurazione, "né idealmente i secondi salitori dovrebbero piantare un maggior numero di chiodi dei primi". Non si può dire che le idee non fossero chiare!
- la valutazione della difficoltà si può fare solo per difficoltà omogenee. Poiché camini, fessure o strapiombi non sono omogenei, ne segue che non si può valutare il "singolo passo" di un'ascensione, ma la valutazione dev'essere relativa alla salita nel suo complesso (dove ci sono sia fessure che camini che pareti). E pensare che oggi si valuta il paio di metri da uno spit all'altro...
Dopo codesto interessantissimo scritto, la prima parte si chiude con una tremenda poesiola o presunta tale di Raffaello Prati, "La poesia del C.A.A.I.", dove si leggono versi da far cadere Calliope dal Parnaso in lacrime, del tipo: "la montagna è nel tuo braccio/la piccozza morde il ghiaccio" oppure "noi lassù gettammo il cuore/con le stelle e con le aurore" e quel "Va', Caai!" che chiude ottave degne dell'Ariosto a mo' di latrato. Se i poeti non si mettono a discutere del VI grado ci sarà un motivo; non capirò mai perché gli alpinisti (di allora e di oggi) debbano colmare i loro complessi nei confronti della cultura "alta" coprendosi di ridicolo!
La seconda parte, dopo statuto, regolamento, composizione del consiglio ed elenco dei soci, è dedicata all'attività dei gruppi (Belluno, Bolzano, Milano, Roma, Torino, Trento, Trieste, Venezia). Impressionante la serie di prime ascensioni e bellissime le litografie dello stesso Rudatis e gli schizzi di Renato Chabod (il monogramma CR dovrebbe essere suo). In alcuni casi l'itinerario è disegnato su un foglio di carta velina giustapposto alla fotografia: la classe non è acqua!
Chiudono le necrologie: Giuseppe Bianchi, Luigi Brasca, Vittorio Collino, Tommaso Desilvestris, Cesare Fiorio, Alessandro Martinotti, Ottorino Mezzalama, Pino Prati, Edgardo Rebora.
"Leggano i giovani, con religione ad amore, questo annuario" ammonisce Manaresi nell'introduzione. Più prosaicamente, lasciando perdere l'indirizzo ai "giovani", categoria strapazzata di qua e di là già ai tempi del ducetto, un libro da leggere con interesse!
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