Cenni biografici
Eugenio Vinante nasce il 17 luglio 1908 a Vicenza, in contrada Santa Lucia, da Giuseppe Vinante, falegname, e Santa Tomba. Non ci sono molte informazioni sull'inizio della sua carriera alpinistica, ma la prima "escursione alpinistica" riportata nella lista da lui stesso compilata è del 1921, mentre la prima salita da capocordata risale al 1925. Del 1927 la prima via nuova alla Guglia degli operai nel gruppo del Pasubio (vedi relazione tratta dalla RM del CAI, p. 248, 1934). Le montagne vicentine sono il teatro delle salite di Vinante, istruttore presso il CAI locale, fino all'ascensione al Sigaro Dones del 15 maggio 1930, che sposta il baricentro della sua frequentazione alle montagne lecchesi e bergamasche; è pertanto lecito supporre che il suo trasferimento a Milano, forse per lavoro, sia avvenuto in quell'anno o nel precedente. Nella città meneghina lavora sempre come falegname, dapprima da dipendente e successivamente in proprio, e si sposa. Ma, come ricorda Gianpaolo, "mi diceva il nonno che, se il tempo era bello, erano più le volte che Eugenio chiudeva il negozio per andare in montagna che quelle che lavorava...". Abita in viale Premuda 10 e aderisce al Gruppo Escursionisti Vittoria, dal nome del quartiere milanese di residenza, con sede in via Morosini.
Nei cinque anni successivi, Vinante compie le sue imprese più note sulle montagne lecchesi, con le vie sul Sasso di Sengg e dei Carbonari e quella sullo Zuccone Campelli. Tuttavia, la salita più notevole è certamente la prima invernale insieme a Bruno Cacciamognaga alla parete Fasana del Pizzo della Pieve, dal 24 al 27 gennaio 1935, dopo due tentativi precedenti. Il diario dell'ascensione, redatto successivamente dallo stesso Vinante, racconta delle difficoltà della salita e del principio di congelamento ai piedi fino all'arrivo in vetta:
"La neve cadeva incessante, fittissima, ed il vento soffiava con tanta violenza che scarsamente ci permetteva di rimanere in piedi. La gioia e la soddisfazione regnavano visibilmente nei nostri occhi pienamente soddisfatti della conquista e desiderosi di altre prossime e più dure scalate".Purtroppo non sarà così: a seguito del congelamento agli arti inferiori (contratto per la generosità che lo spinse a dare al compagno di cordata il paio di calze di ricambio) gli saranno amputate le dita dei piedi, con l'eccezione di un alluce, e Vinante sarà curato all'ospedale di Lecco e Milano prima e Vicenza poi. Nonostante le cure, le condizioni peggiorano e tre anni dopo, il 22 gennaio 1938, muore a Vicenza non ancora trentenne. La salita del '35 suscita scalpore ed è riportata dal Corriere della Sera, ma - incredibilmente - non viene menzionata dagli organi più o meno "ufficiali" del CAI, come la Rivista Mensile e Lo Scarpone, ed è presto dimenticata. Forse Vinante non viene creduto, visto che in occasione del necrologio si scriverà assai succintamente (RM vol. LVII del 1938, n. 5, alla sezione Infortuni alpinistici) di "tentativo" alla parete.
Il diario dell'ascensione è stato di recente pubblicato su Alpinismo pionieristico a Lecco e in Valsassina di Buzzoni, Camozzini e Meles (ed. Bellavite, 2015), e a lì rimando per una lettura complessiva. Quello che invece mi interessa raccontare qui è un altro aspetto dell'attività alpinistica di Vinante, anche questo ingiustamente dimenticato, ovvero le sue vie in Val di Scalve, le prime aperte da capocordata, che allargano lo spettro della sua frequentazione alle montagne bergamasche.
Due fotografia della Presolana. |
La corna delle Pale. |
Le relazioni delle salite al Corno delle Pale e alla Cima di Moren. |
Il tracciato della via al Corno delle Pale. |
Eugenio Vinante in arrampicata. |
Eugenio Vinante ben conosceva le montagne bergamasche, come testimoniato dalle fotografie della Presolana e dall'ascensione lì compiuta il 31 aprile 1933, anche se non risulta che si sia mai cimentato da par suo con la "Regina delle Orobie". Invece, la sua attenzione si sposta poco più a est, in Val di Scalve, e proprio lì inizia la sua serie di "prime". In Valle, le salite "classiche" (tralasciando le prime facili ascensioni) iniziano con Vitale Bramani (parete NO del Cimone della Bagozza con Gasparotto e Camplani nel 1930, parete NNE con Forgiarini e Alessio nel 1931, parete NE della Corna delle Pale con Fasana, Camplani e Sala nel 1930). Vinante vi giunge nella settimana di agosto del 1933, probabilmente sabato 12 o domenica 13, e nelle giornate del 14 e 16 apre due vie nuove con Luigi Puttin (il 15 sale al pizzo Camino). Anche queste due vie sono dimenticate e non compaiono, ad esempio, nella guida di Saglio delle Prealpi comasche varesine bergamasche: Puttin infatti scrive le relazioni, ma non le manda né al CAI nazionale né alle Sezioni di riferimento (Bergamo o Milano). Le invia invece al periodico "Roccia", un effimero concorrente de Lo Scarpone, che le pubblica il 2 settembre 1933 sotto il titolo "Giovani forze all'alpinismo sportivo". Il titolo è ben giustificato: nella lettera di accompagnamento, i due alpinisti prendono apertamente posizione nella disputa tra l'alpinismo "spirituale" e quello "sportivo", schierandosi decisamente a favore di quest'ultimo: sono quindi attenti alle dinamiche che percorrevano il mondo alpinistico dell'epoca e ai suoi sviluppi. Ecco le relazioni:
PRIMA ASCENSIONE PARETE NORD DEL CORNO DELLE PALE, COMPIUTA IL 14 AGOSTO 1933 DA VINANTE EUGENIO E PUTIN [sic] LUIGI
Con l'intenzione di tentare la parete Nord del Corno delle Pale, e possibilmente qualche altra, siamo andati ad accantonarci alle baite alte del Negrino, dove la vista spaziava sulle ardue Pareti del gruppo di cima Camino. Dalle relazioni sulle ascensioni al Corno delle Pale, fatte sia per la Parete Sud, e per la Parete Nord-Ovest, risultava che la Parete Nord era inviolata. Anche le informazioni avute dagli abitanti dei luoghi confermavano la sua verginità.
L'impressione che si fa osservandola, è che sia impossibile salire per quella verticale muraglia. Il giorno 13 salimmo per allenamento al Corno di San Fermo, per la Parete Nord-Ovest, con tre ore di divertente arrampicata. Tale salita ci risulta una variante alla via normale.
Visto che si era andati benissimo, decidemmo di tentare l'indomani l'ardua parete. Appena spuntata l'alba ci mettemmo in cammino, dapprima sugli ultimi pascoli, poi su per i ghiaioni che scendono dalla parete fino ad uno spuntone staccato di una ventina di metri, ottimo posto di osservazione alla parete, e per una piccola colazione che dovrà essere anche l'ultima fino a sera, dopo esserci cambiate le scarpe e legati in corda, andammo all'attacco che si trova alla base di un costolone, che scende un po' obliquo dalla vetta e che serve di direzione. Costruito l'ometto si attacca subito per rocce difficili e anche rotte. Di questo mi fa avvertito l'amico mio Vinante che fa da capo-corda. Si sale per rocce malsicure e con passaggi difficilissimi per una cinquantina di metri, fino ad una specie di terrazzino inclinato, che sarà l'ultimo posto dove si potrà tirare il fiato tranquillamente (ometto). Di lì, con una traversata ci si porta in piena parete con pochi appigli dove ci si alza per altri 50 metri fin sotto ad uno strapiombo. Con una difficile manovra di corda, ci si porta a sinistra, poi a destra, fino a salire sopra lo strapiombo. Una fessura obliqua a sinistra permette di salire fino ad un lastrone alto un dieci metri: occorsero ben quattro chiodi per superarlo, dopo di che, con una traversata a sinistra si monta sullo spigolo del costolone, che si segue fin sotto ad un camino di un 60 metri. Per uscire dal camino chiuso da uno strapiombo, bisogna uscire a sinistra in una paretina che solo a metà è percorsa trasversalmente da una fessura, permentente [sic] di impiantare un chiodo che deve fare da appiglio, indi la mano destra, spostandosi orizzontalmente più che sia possibile, riesce a trovare una fessura che permette di passare su rocce più sicure sebbene a picco, fino ad una specie di caverna dalla quale si esce traversando a destra. Da questo punto fino alla cresta, una sessantina di metri, la parete si addolcisce un po', permettendo di salire più speditamente. Inutile dire il mio entusiasmo per la dura battaglia felicemente superata. In totale abbiamo impiegato 9 ore per superare i 400 metri circa della parete, e impiegando 20 chiodi, di cui due lasciati. Calcoliamo la salita intorno al 5° grado.
PRIMA ASCENSIONE PARETE NORD-OVEST DI CIMA ERGHEM [in realtà Cima di Moren], COMPIUTA IL 16 AGOSTO 1933 DA VINANTE EUGENIO E PUTIN [sic] LUIGI
La parete nord-ovest di cima Erghem si stacca nettamente dal groviglio di creste, spuntoni, canali, per alzarsi verticalmente per un 150 metri, che con gli altri 250 sottostanti attrassero subito la nostra attenzione. Decidemmo di farla il mercoledì 16.
Lasciato il sentiero che sale al pizzo Camino, a metà ghiaione, si attraversa questo fino a montare sull'altro che scende dalle rocce di cima Erghem; lo salimmo fino all'imbocco di un camino obliquo a destra, e si decide di attaccarlo, dato che la direzione di esso pareva finire proprio sotto la sopraddetta parete. Con una bella e non difficile arrampicata percorremmo i primi 250 metri fino sotto alla parete. Attaccammo subito, ma si vide ben presto che la lotta doveva essere dura. Salimmo direttamente fino ad uno strapiombo che ci costrinse ad una traversata per poter montare sopra ad una costola che permetteva di salire, sebbene con difficoltà. Ma se fino allora si potè salire, ora pareva che la parete si chiudesse senza nessuna via apparente di uscita. Bisognava decidere subito, se tornare indietro o proseguire, chè in quella ridicola e pericolosa posizione in cui si era non si poteva stare. Con una abilità straordinaria, Vinante riusciva a traversare, fino a che un piccolo appiglio permise di piantare un chiodo. Adesso si trattava di salire verticalmente per una paretina di 10 metri, avarissima di appigli, fino ad una crestina. Quando sentii Vinante in cima, tirai un sospirone: l'impossibile era fatto. Ora toccava a me, che avevo l'ordine di levare i chiodi (figurarsi che delizia!). Ad ogni modo mi trovai anch'io in cresta con l'amico.
Le ultime due corde, sebbene difficili, furono fatte con più tranquillità, e a mezzogiorno in punto eravamo in vetta, impiegando ore 4 a compiere l'intera salita. La prima parte, cioè un lunghissimo caminetto, si sale abbastanza facilmente con difficoltà sul terzo grado; nella seconda parte, cioè sulla vera parete, le difficoltà sono fortissime. Abbiamo lasciato tre chiodi.
La relazione apparsa su Lo Scarpone relativa alla salita alla cima Baione. |
Nel settembre del 1934 Eugenio Vinante torna in Val di Scalve, stavolta con Bruno Cacciamognaga, diciannovenne, e Mario Enriconi, per salire la parete NO di cima Baione. L'impresa non è semplice ed impiega la cordata per due giorni, con uso maggiore di chiodi rispetto a tutte le salite precedenti. Classificata di V (ma "con passaggi di VI" secondo alcune relazioni), testimonia del livello raggiunto da Vinante, ed è probabilmente la via su roccia più impegnativa insieme a quella del mese successivo sullo Zuccone Campelli. Fortunatamente, stavolta la relazione viene inviata a Lo Scarpone (anche perché Roccia non esiste più) che la pubblica a gennaio 1935 (anno V, n. 1), dopo aver dato la notizia della salita sul n. 18 del 1934. Ecco la relazione (poi ripresa nella guida di Saglio a p. 311):
Alla Cima Baione
Abbiamo dato, a suo tempo, notizia di una nuova via compiuta nei giorni 8 e 9 settembre u. s. da Eugenio Vinante (C.A.I. Vicenza), Cacciamugnaga [sic] Bruno (C.A.I. Milano) e Mario Enriconi, tutti del G. E. Vittoria alla Cima Baione. Ne diamo ora la relazione tecnica:Da Schilpario si sale verso il passo di Vivione; giunti alla prima malga dopo le miniere, per sentieri che s'inoltrano nella pineta, si sale verso la parete della Cima Baione. Dopo un'ora si arriva al ghiaione e attraversandolo all'alto rasentando le rocce si raggiunge l'attacco situato al centro del massiccio donde si erge una parete. La si attacca proprio nel mezzo salendo per 15 mt. e si arriva, per facile roccie [sic] e piegando leggermente a sinistra ad un pianerottolo. Si supera 25 mt. di parete con una leggera deviazione a destra s'imbocca un caminetto a dietro, di 15 mt. circa, che al termine, con una arditissima attraversata a a sinistra (chiodo) permetterà di riprendere la salita per la parete. Dopo 40 mt. si arriva sotto ad uno strapiombo (chiodo). Lo si supera e orizzontalmente a sinistra ci si porta all'inizio di un canalone.
Questo lo si lascia, e si sale per 20 mt. a sinistra fino ad imboccare un caminetto di 30 mt. All'uscita di esso si dovrà superare una parete di 40 mt. che data la sua friabilità ha ostacolato la salita presentando difficoltà massime.
Qui si osserva che in detta parete vi sono dei grossi spuntoni e massi enormi che minacciano di cadere. In più alla fine della parete vi è uno strapiombo che è difficile da superare.
Obliquando leggermente a destra per 30 mt. si raggiunge una placca nera, strapiombante (chiodo) che verticalmente si supera per una fessurina. Orizzontalmente si gira a destra per 10 mt. (chiodo) salendo per 35 mt. per roccie [sic] miste (Bivacco). Il giorno dopo superammo la sovrastante paretina e per altri 80 mt. si sale per una specie di caminetto raggiungendo un'anticima formante un pizzo (ometto). Qui la fatica ha termine. Percorrendo la cresta poi si raggiunge la vetta (libretto in memoria di Guido Minardi caduto in quella zona il 16 agosto scorso).
La difficoltà di detta ascensione, a seconda dei salitori, è di 5.o grado, altezza 350 mt. circa; furono impiegate 22 ore effettive ed adoperati 40 chiodi circa, dei quali 4 lasciati in parete.
L'articolo apparso su Lo Scarpone per la morte di Luigi Puttin. |
Luigi Puttin, anche lui vicentino e residente a Milano, è tra i compagni stabili di cordata di Vinante: in val di Scalve, sul Sasso dei Carbonari e al Sasso di Sengg. Domenica 7 ottobre 1934 muore in Presolana durante una calata a corda doppia. Questo il resoconto pubblicato su Lo Scarpone, anno IV, n. 20 del 16 ottobre 1934.
Tragedia sulla Presolana - Luigi Puttin
Una mortale sciagura avvenuta sul massiccio della Presolana (che, purtroppo, ha già mietuto varie vittime sulle sue rocciose pareti) ci ha privati di un amico, di un giovane appena ventiquattrenne, nel fiore della vita e dell'attività: Luigi Puttin.La disgrazia è avvenuta domenica scorsa, 7 corrente, verso le ore 17. Il Puttin, con un compagno ed una signorina, aveva in tale giornata raggiunta felicemente la vetta e quindi i tre si accingevano alla discesa per la quale, data la ripidità della parete che intendevano superare, si richiedeva in alcuni punti l'uso della corda doppia. La disgrazia avvenne appunto durante una di queste calate nel canalone Salvadori. Siccome dei tre il Puttin era il più abile, scendeva per ultimo, dopo aver assicurato dall'alto, con la corda, i compagni. A quanto risulta ad un certo punto la corda, alla quale il Puttin era appeso, si sarebbe staccata dallo spuntone a cui era assicurata; il giovane quindi precipitò nel vuoto per circa 10 [?] metri, fino ad un pianerottolo sottostante rimanendo ucciso sul colpo.
I due compagni superstiti, in preda alla più tragica angoscia, dopo aver constatato che lo sventurato non dava segni di vita, discesero a Castione per dare l'allarme. Due guide locali partirono subito pel recupero della salma, riuscendo a rintracciarla malgrado l'oscurità ed effettuando il pietoso trasporto a Castione, ove il misero corpo venne fatto segno a commossi omaggi da parte di quella popolazione.
Anche negli ambienti alpinistici milanesi e lecchesi dove il Puttin era conosciuto (egli apparteneva infatti al Gruppo Escursionisti Vittoria di Milano ed alla Sezione del C.A.I. di Lecco) la sciagura ha destato unanime rimpianto, data anche la giovane età della vittima.
Il Puttin era animato da una passione per la montagna quale raramente è dato vedere. Di modeste condizioni trovava purtuttavia modo di andare sulle sue montagne con tenacia e volontà indomabili. Egli era particolarmente affezionato al nostro giornale, che aveva seguito fin dai primi tempi di vita. Ricordiamo le sue lettere infiammate dall'amore per i monti adorati che egli ci inviava da Bolzano, allorché prestava servizio militare, dolendosi soltanto di non poter effettuare nessuna ascensione e di doversi accontentare dell'ammirazione da lontano... Ripresa la vita civile, ritornò con entusiasmo e tenacia alla sua attività preferita, riuscendo a farsi notare negli ultimi tempi per le sue imprese.
I funerali sono seguiti il 10 scorso in Prato (Clusone), ove per volontà dei famigliari la salma è stata inumata. Commovente e numerosa è stata la partecipazione ad essi di tutta la popolazione, e dei camerati ed amici del povero Puttin, accorsi da Milano e da Lecco. Il nostro giornale - che aveva fatto deporre una corona d'alloro sul feretro - era rappresentato dal dott. Silvio Saglio.
Agli angosciati famigliari le nostre più sentite, fraterne condoglianze.
Il necrologio de Lo Scarpone. |
Mentre la Rivista Mensile dedica alla morte di Vinante solo poche righe nel numero di marzo 1938, Lo Scarpone del primo marzo 1938 pubblica un necrologio firmato da Enrico Coppi in cui spicca una bella testimonianza di chi doveva conoscerlo bene.
Il 22 gennaio moriva all'ospedale di Vicenza Eugenio Vinante, di appena 29 anni, noto arrampicatore, che il 27 gennaio 1935 tentò, insieme con Bruno Cacciamugnaga del Gruppo Escursionisti Vittoria di Milano, la scalata della parete Fasana del Pizzo della Pieve (Grigne). Dopo quattro giorni di lotta tremenda contro il ghiaccio e la tormenta, i due alpinisti erano stati tratti in salvo da squadre di soccorso di Lecco. Purtroppo un principio di congelamento aveva colto agli arti inferiori il Vinante che dovette anche subire l'amputazione di un piede. Una cancrena progressiva lo ha straziato per tre lunghi anni stroncando alla fine la sua giovane esistenza.
Chi si avventura tra le gole dei monti nei pressi della parete di Pizzo della Pieve sentirà ripetersi come un'eco il nome di Eugenio Vinante. Il suo spirito si aggira tra quelle impervie rocce e le gelide nevi che furono a lui familiari e purtroppo fatali.
Chi ebbe la fortuna di conoscere Eugenio Vinante conserva di lui il ricordo più bello e incancellabile.
Vera tempra di alpinista, venne dalla sua Vicenza nella nostra città per lavorare in legno. Non gli rimanevano che le ore libere da dedicare alle sue montagne e in compagnia di pochi amici; spesse volte anche solo; usando i mezzi che le ristrette condizioni finanziarie gli permettevano, si portava su su fino alle cime più ardue dove soltanto la sua passione aveva sfogo.
Il destino però non fu con lui generoso sebbene il suo cuore d'oro meritasse altra sorte. Alludo alla sua ultima impresa che gli costò la vita dopo tre anni di martirio e di pene rese da un tremendo male inarginabile.
Ma egli tutto sopportò serenamente mentre nei suoi occhi si rispecchiava il bel cielo azzurro ed il bianco candido delle nevi delle sue montagne.
La sua ultima ascensione, compiuta con l'allora diciannovenne Bruno Cacciamugnaga, fu la parete del Pizzo della Pieve nelle Grigne. Questa parete già aveva fatto parlare di sé alcuni anni prima quando nel tentativo di prima scalata invernale da parte di Cattaneo e Veronelli, i due animosi avevano trovato la morte per una disgrazia in prossimità della vetta. Da allora non se ne parlò più né alcun altro ritentò l'impresa.
Fu il Vinante che, dopo alcuni tentativi logistici, diede l'attacco decisivo che lo portò alla vetta, conducendo così a termine un'impresa che raggiunse fasi veramente drammatiche e che malgrado alcune polemiche incresciose rimarrà memorabile.
Come per tutti coloro che fanno della propria opera atto di fede, i giovani lo seguivano, si sentivano trascinati dal suo amore per la montagna, come i discepoli dal maestro. Egli ebbe del maestro il disinteresse dell'opera compiuta, disinteresse che sapeva arrivare al sacrificio. Ricordiamo come - nella tragica seconda notte passata sul ghiaccio - egli, capocordata, insistette perché il compagno diciannovenne indossasse, a riparo dal gelo, le sue uniche calze di lana per ricambio, particolare non indegno di essere ricordato, perché fu quell'episodio che segnò l'inizio del suo male tremendo, il congelamento degli arti inferiori. Ma ciò non importava; egli era il capo, egli doveva soffrire.
Povero Vinante! Tu ora riposi in pace nella tua terra di Vicenza, ma le pareti del Baffelan e delle Grigne – su cui hai inciso episodi indimenticabili – si animano ancora del tuo ricordo. Tu vivi tra noi, cavaliere e martire della montagna per essa vissuto e morto, fulgido esempio di quella gioventù che il fascismo ha creato.
Il sacrificio – soprattutto se accresciuto e alimentato dalla sofferenza – non è mai vano: noi oggi abbruniamo gli spiriti per riprendere domani, a ciglio asciutto, il cammino verso l'alto, che tu hai segnato.
Alla fine di questa storia, resta un grande rimpianto per la sorte toccata ad Eugenio Vinante, che sarebbe potuto diventare uno dei maggiori alpinisti italiani; ne aveva le capacità e la determinazione. Lo vedo costretto a casa o in ospedale, dove raccoglie fotografie e si fa prestare una macchina da scrivere dal fratello Lauro (che aveva un laboratorio di riparazione) per fissare il diario delle sue salite, quasi sapesse che sarebbero state dimenticate, che ci sarebbero stati dei torti a cui rimediare. Eppure nelle fotografie sorride, non c'è traccia di rimpianti, di recriminazioni.
Come in parete, bisogna andare avanti.