martedì 30 dicembre 2014

Le due zittelle e La pietra lunare

di Tommaso Landolfi
Adelphi, Milano, 2004 (1a ed. Bompiani, Milano, 1946)
Rizzoli, Milano, 1990 (1a ed. Vallecchi, Firenze, 1939)

So bene che l'ammazzerete, questo che a voi appare deforme e immondo essere, questo che è essere santo e divino al pari di Dio, di cui è parte; che l'ammazzerete per un orrendo misfatto che è invece un naturale suo moto. Ma se così sarà, segno che dovrà essere così, anzi che così sarà senz'altro. Il Dio, sempre per parlare al vostro modo, che gli ispirò di dir messa, avrà anche ispirato a voi la viltà, l'insipienza, la vergogna del vostro, ora sì, misfatto... la scimia ha scompisciato l'altare: e con ciò?
Sentii nominare Landolfi molti anni fa in uno scritto di Dorfles, lessi La pietra lunare, ci misi sopra un punto di domanda e passai oltre. Ma ogni tanto il nome ricompariva... Calvino, Bloom e altri ne lodavano lo stile e m'istillavano il dubbio di averlo mal letto. Così, passando in una di quelle rivendite di libri usati dove al prezzo di un biglietto d'autobus si trovano edizioni intonse di capolavori e di libracci, collocate fianco a fianco, mi diedi una seconda chance verso l'autore e presi Le due zittelle, rileggendo per l'occasione anche la pietra.
Le due zittelle fa capire già dal titolo che ci si muoverà su un terreno affascinante e insidioso, dove la lingua è oggetto d'invenzione o, per meglio dire, di attenta analisi filologica. Se D'Annunzio e Leopardi sono acclamati a più voci come numi tutelari dell'autore, il pensiero corre invece al contemporaneo Gadda, ad un uso "evocativo" della lingua che ne ampli le possibilità attingendo dal patrimonio della tradizione.
La tornita prosa ci porta in una "scena della vita di provincia" (sottotitolo de La pietra lunare) dove due timorate zittelle conducono un'esistenza su cui si è da tempo deposta un'impalpabile polverina grigia, in compagnia di una domestica (pardon, una fantesca) e della tirannica vecchia madre. La madre ipocondriaca, che negli ultimi suoi anni si esprimerà percuotendosi il petto a mo' di affricano timballo è un espediente che introduce, anche figurativamente, il nuovo maschio di casa, ovvero Tombo, la scimia. Quando si scopre che l'animale ha l'usanza di penetrare nottetempo nella cappella dell'attiguo convento dove, imitandovi i gesti umani, divora ostie consacrate e beve il sacro vino, compiendo infine i propri bisogni sull'altare (si spera, non ad imitazione dell'officiante), la sordina e la penombra delle vite delle zittelle sono squarciate. Come punire Tombo del sacrilegio?
La seconda parte del racconto è una sorta di processo alla scimia, dove alle tre bigotte si aggiunge un monsignore della più declamatoria e retriva genia ed un giovane prete straniero che si opporrà alla stolida e partigiana applicazione del concetto umano di peccato ad un animale (anche qui, come ne Gli egoisti di Tecchi, le figure ecclesiastiche positive sono straniere; la Curia romana non era evidentemente da prendere ad esempio), riaprendo l'eterna questione di Dio e del libero arbitrio. Ma, sebbene le argomentazioni di padre Alessio siano ben più ragionevoli dell'oscurantismo di provincia dei suoi interlocutori, Landolfi non rinuncia ad istillarvi una dose di distacco e di ironia, portandolo su una specie di panteismo che culmina con il memorabile: me ne sbatto della vostra sacra vivanda! che suggella la fine della discussione e la cacciata del padre dalla casa. Il destino farà così il suo corso.
C'è un altra analogia con questa storia, ed è Billy Budd di Melville, dove però la legge è quella degli uomini, infranta da un essere puro ed inconsapevole (e si lasci a Calderoli l'idiozia di trarre paragoni indecenti tra Budd e Tombo).
La prosa, e in un certo senso anche una religiosità (pagana e molto, molto sui generis), si ritrovano ne La pietra lunare, meno bello del precedente, ma forse più complesso. Giovancarlo è uno studentello di lettere un po' sfigato che - l'avreste mai detto? - compone versi e trova insopportabile il mondo borghese (a cui appartiene e a cui ritornerà), la famiglia dello zio, abituata a odiare chi non possa essere in alcun modo compatito, le donne alte membrute e ben formate [...] che s'aggirano, la fronte e l'occhio sereni, per i salotti, [...] che osano produrre una schizzinosa femminilità [...] la quale sta loro come una perla sulla fronte d'una scrofa (un po' misogino qui il nostro Landolfi, eh?).
Giovancarlo è "scelto" da Gurù, splendida fanciulla che vive in romito castello fuor dal borgo, e la loro relazione inizia. Gurù però è indecifrabile, "lunare", capra-mannara e in una notte di luna piena condurrà il "solare" ragazzo in un mondo fantastico tra i monti dove assisterà ad una specie di sabba e ad altre avventure insieme a briganti morti da generazioni, per rientrare poi nel suo mondo quotidiano e ripartire per la città. Quasi una trama da racconto fantastico ottocentesco.
Personalmente trovo noiosetti i capitoli delle avventure fantastiche coi banditi e molto più riusciti i primi "realistici" cinque (la descrizione del cammino nel Cap. VI è però magistrale), ma i due elementi si compenetrano dall'inizio, fin dal piede caprino di Gurù; Gurù che nelle notti di luna piena si congiunge con una capra riemergendo capra-mannara, donna dall'ombelico in su e capra nel resto, creatura che appartiene ad entrambi i mondi, reale e fantastico (non è questa la mia vita, risponde a Bernardo), la sola che può garantire a Giovancarlo l'accesso al reame lunare.
Ma perché proprio a lui? Perché solo lui vede il piede caprino della fanciulla ed è predestinato all'avventura (sono venuta per andare con lui dirà subito Gurù)? Ci sono due caratteri che lo contraddistinguono, ovvero gli donano una sensibilità particolare: il suo essere "colto" ed il suo essere "artista", quindi capace di rielaborare la cultura, di superare i confini del mondo reale, di creare mondi nuovi. Ma allora il mondo fantastico cosa rappresenta, la creazione letteraria stessa? Il recupero di un mondo primitivo e arcaico (i briganti, l'immagine delle Madri)? O solo tutto quello che ci rifiutiamo di vedere?

Concludo con un altro dubbio, questo sì senza risposta, che mi ha attanagliato durante la lettura, laddove la fanciulla si denuda suscitando il comprensibile appetito di Giovancarlo che non l'aveva mai vista così, dati certi curiosi pudori di lei (ah, queste belle relazioni d'altri tempi...). Divenuta capra-mannara, Gurù vorrebbe abbandonarsi ad amorosi trasporti, ma viene interrotta da Bernardo... visto però che sotto l'ombelico trionfa la natura caprina, come sarebbe andata a finire? Forse a Giovancarlo è andata bene così; Landolfi in ogni caso non si dilunga su questi dettagli anatomici.

mercoledì 24 dicembre 2014

Torta con mele e cannella

A dicembre conviene invero tralasciare ogni velleità sportivo-arrampicatoria, rinunciando all'inane lotta con la falange di cene ritrovi festeggiamenti celebrazioni ricevimenti rinfreschi libagioni nonché feste comandate, abbandonandosi all'abbraccio consolatorio con il cibo. In effetti i post del mese riflettono cotal inclinazione dello spirito, e questo non fa eccezione. Trattasi di torta alle mele aromatizzata alla cannella (ma ovviamente altri aromi sono possibili), che resta abbastanza asciutta e quindi consigliabile per la colazione (almeno, così vuole la vulgata). Ingredienti semplici, veloce e facilissima realizzazione (come al solito; altrimenti il sottoscritto non saprebbe come fare), per un ottimo aspetto e un gusto "classico" che non delude.

Ingredienti:
  • burro: 170 g
  • zucchero a velo: 170 g
  • farina: 170 g
  • uova: 3
  • mele: 2
  • zucchero di canna: due cucchiaini
  • cannella: qualche stecca (io ne ho messo uno sproposito, ma si può essere più morigerati)
  • limone: 1
  • farina e burro per lo stampo
  • sale
Preparazione:
  • Grattugiate la scorza di un limone;
  • Sbriciolate le stecche di cannella fino a ridurle a minuti pezzettini;
  • Sbucciate le mele e fatele a spicchi sottili (eliminando il torsolo, ça va sans dire);
  • Montate il burro con lo zucchero a velo e un pizzico di sale finché non si ottiene un composto morbido;
  • Unite le uova e la farina e continuate a mescolare di buona lena (Fig.1);
  • Unite la scorza di limone;
  • Unite la cannella e continuate a mescolare;
  • Imburrate lo stampo (o usate la carta da forno);
  • Versate l'impasto nello stampo e infilate gli spicchi di mela (Fig.2, avanzerà qualcosa);
  • Spolverate con 3 cucchiaini di zucchero di canna;
  • Infornate a 175°C per 50'.

giovedì 18 dicembre 2014

Avanzini + Via dei re

Il Castello della pietra
Paolo sul tiro della Avanzini
Tracciato della via Avanzini
Sul 2° tiro della Via dei re
Paolo medita in vetta...
Castello della pietra e Biurca (rocche del Reopasso)
Spigolo E e parete S


In questa stagione e con questo tempo non sono molte le possibilità di passare qualche oretta arrampicando su qualcosa di più naturale della plastica; ma mai arrendersi: la Liguria ha sempre risorse insospettate, almeno per noi. E infatti, durante la colazione, un avventore del bar ci suggerisce, tra un bianchino e l'altro, il Reopasso, località orecchiata in qualche guida ma sulla cui ubicazione vantavamo un'ignoranza quasi proverbiale. Roccia tutto sommato buona, chiodatura ottima, clima ideale: decisamente un posto da consigliare. Nei dintorni c'è poi lo "storico" Castello della pietra colle vie ormai abbandonate (e probabilmente proibite); val comunque la pena di spendere due parole per la bellezza del posto, anche se la qualità della roccia e delle protezioni è assai meno attraente del caso precedente.
Accesso (via Avanzini o spigolo E): uscire dalla A7 Milano-Genova ad Isola del cantone e girare a destra passando sotto l'autostrada. Al bivio seguire per Vobbia risalendo l'omonima valle per circa 7 km, giungendo in vista del Castello della pietra. Si parcheggia in apposito spazio sulla sinistra sotto la muschiosa parete N e si prosegue a piedi per circa 200m fino all'ingresso vero e proprio, dove si prende un sentiero che in breve conduce in vista del castello. Giunti al cospetto delle mura si tiene la destra ad un bivio poco prima dell'ingresso, si risale brevemente e si segue la facile crestina a sinistra che porta sotto lo spigolo E dove parte la via.
Nota: da febbraio 2014 il sentiero di accesso e il castello stesso sono chiusi in seguito ad una frana e ai conseguenti lavori di risistemazione del tutto (qui l'avviso). Non so dire se l'arrampicata sia pure vietata, ma è probabile che sia così, visto l'approccio tipico delle amministrazioni comunali a questa attività.
Relazione: la via è composta in pratica da un solo tiro di una quarantina di metri; il secondo, facile, tiro che giungeva in vetta alla torre E è stato cancellato dal sistema di scalette che permette (permetterà?) l'accesso dal castello. La via è ben protetta (anche se gli spit sono vecchiotti e da verificare) e non ha difficoltà elevate, ma la roccia è un conglomerato di scarsa qualità e discreta friabilità; fare attenzione. In Cento nuovi mattini si trova scritto al riguardo (p. 72): ogni appiglio è una boccia rotonda di pietra che fuoriesce più o meno dal cemento del materiale roccioso legante. Ma dopo la prima impressione passa. Immagino che Gogna intendesse la pietra, che si stacca e... passa giù!
1° tiro: superare il saltino di partenza, portarsi verso destra e risalire un secondo risalto, indi dritti fin sotto una fessura obliqua verso sinistra che si risale sbucando alla sosta; 40m, 5a (un passo per uscire dalla fessura), 9 spit. Sosta su tre spit con catena e anello di calata.
Accesso (via dei re): lungo la SP8 da Isola del Cantone fino a Vobbia e da qui salire a Crocefieschi, grazioso paesino sulla sella tra le valli Vobbia e Seminella. Poco prima di entrare in paese c'è un tornante a destra con parcheggio sulla sinistra dove si può lasciare l'auto; in alternativa proseguire fino alla curva successiva, superare una stradina a destra con cartelli indicatori per le Rocche del Reopasso e parcheggiare poco dopo. Seguire la suddetta stradina che porta alla cappella della Madonna della guardia e diviene sentiero pianeggiante che conduce in una mezz'oretta al cospetto delle Rocche (cartello indicatore). Proseguire dritti (a destra si va per la ferrata) tagliando la parete della Biurca fino ad uno spit evidente con scritta.
Relazione: via piacevole su conglomerato di qualità ben migliore del precedente e buone protezioni; fare comunque attenzione se transita qualcuno sul sentiero. Percorso ovvio indicato da spit e fittoni, più qualche vecchio chiodo sostanzialmente inutile.
1° tiro: superare il gradino e proseguire su roccia sporca; salire a sinistra in corrispondenza di una paretina e ancora per roccia sporca ed erbosa fino alla sosta; 40m, 3c, 4 spit. Sosta su due spit.
2° tiro: salire verso sinistra in un vago diedrino, poi ancora a sinistra a superare un muretto (passo-chiave ben chiodato) e per rocce più facili verso destra fino alla sosta su una cengia friabile; 25m, 6a+ (un passo), 6 fittoni, 1 spit. Sosta su due fittoni con catena e anello di calata.
3° tiro: superare il muretto sopra la sosta e proseguire dritti superando sulla destra una zona un po' erbosa; un muretto finale porta in sosta; 35m, 5a, 10/11 fittoni. Sosta su due fittoni con catena e anello di calata.
4° tiro: salire a sinistra della sosta, poi spostarsi verso destra su un'esile cengia e proseguire fino in vetta, ignorando una sosta intermedia e superando due facili risalti; 45m, 4b, 15 fittoni, 1 sosta intermedia. Sosta da allestire sul cavo della via ferrata.
Discesa: lungo la via normale: seguire il cavo della ferrata fino al colletto e risalire sulla cima N della Biurca; seguire poi il sentiero di discesa (quadrati gialli) che in breve riporta alla base.

Nota: quanto sopra è la relazione del percorso da me seguito. Altre opzioni possono essere possibili per quanto riguarda l'accesso, la salita e la discesa; inoltre, le protezioni, le soste ed il loro stato possono cambiare nel tempo: usate sempre le vostre capacità di valutazione! Vogliate segnalarmi eventuali errori ed omissioni. Grazie.

sabato 13 dicembre 2014

La Grande Guerra - operai e contadini lombardi nel primo conflitto mondiale

a cura di Sandro Fontana e Maurizio Pieretti
Silvana editoriale, Milano, 1980 (collana Mondo popolare in Lombardia n.9)

E la più vera e vergognosa ipocrisia e il farsi credere cultori d'arte veder versare torrenti d'indignazione per una pittura fiamminga, per un Cristo spirante su una tela [...] e non sentire dolore per quelli che muoiono la davanti alle trincee squartati e sventrati dalle bombe nemiche, non sentire dolore per quelli che muoiono di freddo e di miseria [...].
Bruccino le vergine dipinte, al diavolo le sedi governali, i Papiri del san'scritto, sono le vite umane che bisogna salvare, solo le lagrime umane che bisogna asciugare, sono le vite e i corpi umani che bisogna aiutare.
La quarta pagina di copertina recita: "La collana (ndr: mondo popolare in Lombardia) rappresenta il più organico tentativo in atto oggi in Italia per raggiungere una rappresentazione critica e di prima mano della realtà culturale popolare di un territorio regionale". È assai probabilmente vero, e l'iniziativa, ben prima che dubbi figuri si autoproclamassero difensori del localismo sproloquiando in dialetto, fu certamente meritoria. Naturalmente parecchi dei volumi (la lista completa si può trovare qui) sono di poco interesse al di fuori degli appassionati di tradizioni locali, ma questo fa eccezione, si rivolge ad un pubblico ben più vasto di quello lombardo (anche se purtroppo non credo che abbia avuto la diffusione che meritava) e affronta un tema tuttora assai dibattuto e lontano dall'essere concluso: l'atteggiamento dei soldati di fronte alla guerra.
La questione è nota: la maggior parte dei diari di guerra appartengono a ufficiali e sottufficiali, la cui conoscenza si può dire soddisfacente, ma cosa sappiamo dei soldati? Perché combattevano? Quali erano le loro motivazioni? Quanto diffuso il dissenso? Per contribuire al dibattito, nel volume si riportano numerose testimonianze scritte e orali, raccolte negli Archivi di Stato e direttamente dai reduci una sessantina di anni dopo il conflitto. Dal primo gruppo di lettere (AdS Brescia) emerge un panorama che mi pare confermi alcune linee-guida già individuate: i soldati (perlopiù contadini) nelle loro lettere a casa si preoccupano del quotidiano, si informano del raccolto, del bestiame, danno indicazioni su come sbrigare alcune faccende. Parlano sì della vita di trincea, ma senza troppi particolari (forse anche per non allarmare i loro cari) e senza dilungarsi a spiegare le loro motivazioni.
Molto più interessante il secondo gruppo (Archivio centrale di Stato) che inizia con una notevole lettera di un militante socialista: i soldati che maledicono i superiori, i "volontari" per missioni che specialmente chi va non tornano più comandati dietro minaccia di morte: certo si rischia la pelle, altrimenti la pelle me la fanno i nostri superiori e quel Trieste lo prederemo col binocolo che sarà anche stato "disfattismo", ma a cui non fa difetto il realismo. Intuita l'aria che tira, saggiamente il soldato non firma la lettera e le richieste di identificazione del Comando restano... lettera morta (scusate il gioco di parole).
Ma non c'è solo questa lettera: nel gruppo ce ne sono diverse scritte da prigionieri e da - veri o sospetti - disertori, molto interessanti perché non frequenti. Alcuni sono anarchici riparati in Svizzera, altri riparati o prigionieri con "dubbi sulla cattura". I primi parlano di politica (oltre alle faccende personali, naturalmente), alcuni dei secondi rivendicano la propria diserzione e denunciano i trattamenti inumani dell'esercito: un bel contraltare rispetto alle lettere di ufficiali e sottufficiali che mostrano - ma non è una novità - una convinzione ben maggiore che assume a volte una connotazione un po' macchiettistica (come nel personaggio che prima si fa scrupoli sul dovere e poi se ne va beatamente a caccia perché ferito ad una mano).
E veniamo alle fonti orali, da prendere naturalmente con le pinze per quanto riguarda gli aspetti ideali, in quanto rese decenni dopo i fatti. Ricordi comuni sono lo spregio della vita umana da parte dei Comandi italiani, le fucilazioni di guerra, il forte spirito di corpo (che in parte è affratellamento di poveracci sotto lo stesso tragico destino, in parte irregimentamento nella struttura dell'esercito), la convinzione che il disastro di Caporetto sia stato sì un tradimento, ma dei generali Cadorna e Capello che avrebbero venduto il loro Paese, e l'orrore per la carneficina, non disgiunto da una certa pietas per il nemico (a fianco comunque di affermazioni anche contrarie ben più recise). Curioso poi l'aggettivo ricorrente "terrematte" per i soldati meridionali. Molto interessanti e vividi i ricordi diretti degli eventi, dall'Isonzo al Trentino e - per quanto riguarda i miei interessi personali - l'Adamello, dove diversi degli intervistati prestarono servizio.
Le testimonianze sono introdotte da tre saggi. L'ultimo si occupa del linguaggio usato dai soldati, mentre i primi due affrontano la questione sui soldati prima delineata. Il primo (di Fontana) ha un imprinting democristiano (l'editore è la regione Lombardia di quegli anni...) e, volendo svincolarsi sia dalla visione (semplifico...) liberale che socialista finisce coll'insistere sul ruolo del cattolicesimo nell'orientamento della coscienza contadina; un po' poco. Il secondo (di Pieretti) è di più ampio respiro, anche se talvolta pare uscire dai confini della questione, e orientato da una prospettiva di classe.
Un vero peccato che la saggistica successiva non si sia praticamente accorta di questo volume!

venerdì 5 dicembre 2014

Trattoria Altavilla

Via ai Monti 46
Bianzone (SO)


Ero stato in questa trattoria più di una decina di anni fa, in occasione delle "Cantine aperte", approdativi dopo un lungo peregrinare tra i produttori valtellinesi con annesse degustazioni. Non ricordo molto di quel pranzo, ma ne ebbi un'impressione assolutamente positiva; tanto durevolmente positiva che domenica scorsa, trovandomi in Valtellina al fatidico momento del pranzo, non ho avuto dubbi e ho dirottato Matteo qui. È quasi commovente constatare come ci siano locali per cui il tempo sembra non passare, che propongono una "sana" (anche se forse non dal punto di vista dell'apporto calorico) cucina del territorio, correttamente rivisitata e - particolare non trascurabile - con porzioni più che oneste.
Il nostro pranzo inizia con un antipasto, ovviamente composto da bresaola accompagnata da sottaceti: molto buona la prima, tranquillamente eliminabili senza danni i secondi. Poi si entra nel vivo del pranzo: ordino i classici pizzoccheri con patate, formaggio casera, verze e cipolle e mi arriva una teglia corrispondente alla porzione per due. Scopro con sorpresa che il contenuto è tutto per me e mi ritrovo con un piatto stracolmo e perlopiù buonissimo, che sparisce con rapidità sorprendente lasciandomi praticamente satollo. Ma alla golosità non si comanda ed il pranzo prosegue.
Il secondo piatto è una lombata di vitello con pera al Sassella; ottima carne, molto asciutta, ben cotta e saporita. Ma niente regge il confronto con i pizzoccheri di cui mi sono appena rimpinzato. La stessa cosa può valere per il dolce, una torta alle mele che in verità mi appare discreta, ma niente di più.

E veniamo al vino. La lista comprende tutti i maggiori (e minori) produttori locali, ma non disdegna il resto del Paese ed i ricarichi sono onesti. Noi scegliamo un Sassella "stella retica" di ARPEPE, ottimo e con un rapporto qualità/prezzo da far invidia; il compagno ideale di questo lauto pranzo valtellinese.

Speriamo solo di non dover attendere altri dieci anni per tornare in questo fantastico locale!

martedì 2 dicembre 2014

Torta al cioccolato gianduia e noci

Il clima del mese di brumaio sarà anche avvilente per qualcuno, ma per quanto mi riguarda, oltre ad amare il paesaggio reso irreale e dai contorni indefiniti dai nebbioni - che ormai, purtroppo, sono una rarità - genera una certa tentazione culinaria. In occasione dell'uscita in falesia dell'altra settimana mi sono quindi buttato su una ricetta facile-facile per coronare i nostri sforzi sui monotiri - sforzi peraltro sostanzialmente vani, senza alcun miglioramento degno di nota.
La torta è semplice e senza burro, quindi apprezzata anche da chi ha problemi con i latticini. Sì, è vero, c'è il cioccolato gianduia che in genere è al latte, ma nel caso si può trovare anche la versione fondente.

Ingredienti:
  • farina: 40 g
  • zucchero: 100 g
  • uova: 5
  • cioccolato gianduia: 250 g
  • noci (gherigli): 50 g
Preparazione:
  • tritate grossolanamente le noci
  • mettete il cioccolato a fondere in un pentolino a bagnomaria
  • mentre curate il cioccolato, sbattete i tuorli delle uova con lo zucchero
  • unite il cioccolato e mescolate
  • unite la farina e le noci tritate e fate un bel composto (piuttosto denso)
  • montate a neve gli albumi, uniteli e mescolate fino ad ottenere qualcosa di ragionevolmente omogeneo
  • imburrate la tortiera o ricopritela di carta da forno
  • versate il tutto (Fig. in alto)
  • cuocete in forno a 160°C per 30 minuti
  • fate raffreddare e coprite con zucchero a velo
Dopo la sfaticata, noi ce la siamo gustata in compagnia di una birra rossa di quelle un po' speziate; abbinamento decisamente interessante e consigliabile.

Nota: provata recentemente con mandorle al posto delle noci, con la stessa soddisfazione. Vista la diversa consistenza, però, le prime vanno tritate ben fini.